15/1/2016 ● Cultura
Achille e Ulisse. Genio e talento.
Ci siamo da poco augurati un anno a venire migliore. Certo è che il mondo in
cui viviamo non migliora da sé. Bene, non so quale opinione abbiate maturato al
riguardo, ma il progresso dell'umanità è xlo+ opera di pochi, dei migliori tra
noi a cui va il tributo degli altri, noi gente solitamente indaffarata nella
soluzione dei problemi quotidiani ... di solito di carattere materiale. Sebbene
composta da miliardi di tasselli, l'umanità è un puzzle da considerarsi alla
stregua di un individuo e, come tale, dotata di una propria coscienza. Ciascuno
di noi può incidere su questa, tenendo un comportamento che sia di esempio per
gli altri ... però, ecco, diciamo così, solo i migliori tra noi riescono a
veicolare il proprio esempio di contegno virtuoso all'intera collettività con
particolare efficienza.
Orbene, quelli che "tirano la carretta" appartengono a due categorie la cui
differenza sarebbe bene tenere a mente. Già, sebbene più avvezzi a catalogare il
prossimo sulla base di ben altre classificazioni, tipo ricchi e poveri alias
vincenti e sfigati, in quanto homo sapiens sapiens dovremmo invece considerare
le superiori facoltà mentali quale utile criterio meritocratico.
Detto questo, ho scelto i due eroi greci quale esempio in quanto non potrei
immaginare modelli migliori, dato che a riferire delle loro differenti doti è il
più grande poeta dell'antichità e, inoltre, questi lo fa in occasione del
medesimo evento. E poi non occorre esser colti, aver letto l'Iliade o l'Odissea
per conoscerli, poiché percorsi alternativi hanno consentito ai due di fare
breccia nell'immaginario collettivo.
Ora, senza fare ripassi di letteratura, un veloce schizzo delle due figure.
Tutti gli eroi greci sono presenti a Troia - Ulisse aveva provato, fingendosi
pazzo, ad affrancarsi - ma fra loro è Achille l'eroe per antonomasia, colui che
con la sola presenza in battaglia dà sicurezza ai propri compagni, certi con lui
di poter vincere. È il prototipo di tutte le figure nobili, sacre e profane, che
la letteratura seguente riproporrà nelle varie salse: il cavaliere bianco dei
western, il principe azzurro delle favole, S. Sebastiano, l'eroe senza macchia e
senza paura ... nei successivi 27 secoli di letteratura occidentale assisteremo
ad una lunga sfilata di suoi epigoni. Bellezza, forza, purezza d'animo, ideali
aristocratici, il possesso di uno stupendo linguaggio e una mirabile oratoria
... è pure un aedo, quindi ha una voce armoniosa: è egli simbolo della
perfezione che nella realtà non esiste (e qualcuno inventerà la faccenda del
tallone a cui Omero non fa riferimento alcuno). Netta la profezia: Troia avrebbe
significato per lui la gloria perpetua, lo avrebbe consacrato, fra tutti, quale
eroe più celebrato, ma al prezzo di una morte certa. Ed il mostrarsi impavido
dinanzi alla morte, l'affrontarla nello splendore della giovinezza, eccola
l'ultima pennellata, il tocco decisivo per consacrare l'archetipo definitivo
dell'eroe tragico. La sua è una mente profonda, capace di superare la propria
esperienza ed approdare ad una coscienza superiore: la sua capacità di
comprendere e giudicare è simile a quella degli dei. Anche la sua ira non è
comune a quella dei mortali, bensì è la menis, una passione divina: egli è
l'unico mortale a cui il destino ha riservato il dover assumere decisioni
tipiche di un dio.
A questa figura monolitica, un diamante puro, trasparente ma brillante,
personaggio dai tratti decisi, immutabili, scolpiti nella roccia, si affianca
un'altra con caratteristiche agli antipodi. Pur'egli grande, ma diversamente ...
la profezia attribuiva la vittoria greca ad una necessaria presenza di Achille
in battaglia, eppure nei fatti la si conseguì grazie alla trovata di Ulisse.
Tanto l'Odissea è un'opera moderna, così il suo personaggio appartiene ad un
mondo nuovo, è il prototipo di un moderno concetto di eroe. Egli non ha virtù
divine, non è un semidio, ha doti umane che mostra di possedere in misura
talentuosa. Non è dominato da impulsi irrazionali come l'altro, bensì decodifica
la realtà a misura della propria ragione. Il suo talento è la metis, traducibile
con astuzia, il camaleontico ingegno che a tratti fa apparire taluni suoi
comportamenti come meno nobili rispetto a quelli dell'aristocratico Achille. In
realtà egli sa come imbastire un inganno, senza tuttavia ricorrere alla
simulazione infida: non usa la menzogna ... omette di dire, dissimula. Non
biondo e bello come Achille ma scuro, basso e tozzo ... eppure si distingue
nella ressa e seduce donne d'alto rango. Un problema genera nel primo una
reazione passionale, uno scatto d'ira che innesca quel sacro furore che
l'ostacolo andrà ad annientare, in Ulisse è invece l'intelligenza multiforme a
congegnare l'ideale percorso che lo condurrà alla relativa soluzione. Achille è
pura luce, Ulisse i molteplici colori dello spettro visibile. Per ottenere la
misura della grandezza di entrambi vi è, nella cultura greca, un metro
infallibile: la Nemesi. È la dea che personifica la giustizia storica,
riparatrice. Si sostanzia in un avvenimento o serie di avvenimenti negativi che
si ritiene seguano ineluttabilmente, quale fatale compensazione, un periodo di
particolare prosperità esistenziale: tanto tragica la fine quanto epico il
vissuto ... e con entrambi, non v'è dubbio, il Fato si è accanito con assoluta
pervicacia.
Detto questo, andiamo sul pratico: chi dei due vorreste come spalla ideale per
affrontare le asperità della vita - e magari, così coadiuvati, "per aspera ad
astra"? In realtà è una domanda retorica, essendo noti i gusti della massa
riguardo i capipopolo. Già, come narrato nell'Iliade, tutti vorrebbero essere al
seguito di Achille. Ma se la massa seguisse, anziché la consueta onda della
passione, un approccio puramente razionale, non credete sia per essa più consono
ergere a simbolo della specie chi ha sacrificato la vita non per la gloria
personale ma sull'altare della conoscenza?
Sono i versi di Dante a consacrare Ulisse: mettendogli in bocca le celebri
parole dell'orazion picciola fa di lui il totem dell'uomo moderno. Seguire il
percorso della conoscenza e coltivare i propri talenti, ecco ciò che consente
all'uomo di ergersi al di sopra della condizione bestiale.
E perché nella vita sociale, in politica, insistiamo invece nel voler fare
affidamento sugli Achille? Alludo all'uomo forte, carismatico, che con un
"tranquilli, sono un unto di Dio e ci penso io!" ipnotizza chiunque entri nel
suo orizzonte d'intenti. Certo, a noi risulta comodo affidare il nostro destino
a sedicenti Achille che, credendo di possederne il genio, alimentano il culto
della personalità ... siamo usi firmare cambiali in bianco a favore dei
Mussolini, Berlusconi, Renzi, mentre i Rodotá, i Cacciari, che illustrano le
soluzioni a cui giungere con partecipata ragionevolezza, con una dialettica
seducente (ma occorre essere disponibili ad essa) restano nell'ombra di chi ci
offe un elenco di "farò questo, questo e quest'altro" ... già, la politica del
fare, che relega il dire a mera quisquiglia. Eppure dai secondi ci viene chiesto
un ruolo partecipativo, nell'altro caso meramente adesivo. Per adoperare una
metafora spicciola, con gli uni è questione di solo sesso, degli altri occorre
innamorarsi ... impegnativo, decisamente. Dunque il problema è che seppure
fossero degli Achille - ma quando mai! - ciò comunque non li aiuterebbe a
passare alla storia come grandi statisti. Pensiamo agli autentici geni che la
storia ci ha consegnato in campo militare, Alessandro Magno e Napoleone: le loro
strabilianti imprese hanno avuto effetti in campo politico del tutto
trascurabili. Troppo avanti nei tempi! Il primo tentò addirittura di mettere in
pratica l'inclusione, concetto tuttora astruso.
Proprio un genio, Carmelo Bene, soleva citare un'aforisma del filosofo Deleuze,
all'apparenza criptico: "il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che
può". Genio viene dal latino e allude alla capacità di generare, creare ...
facoltà divina dunque. Questa diretta provenienza dal trascendentale rende tale
concetto difficilmente assimilabile. Non è collegabile ad espressioni delle
facoltà umane, il genio non intrattiene relazioni con l'intelletto, non dipende
da questo. È un mistero che va ben oltre il mistero stesso dell'intelletto, che
pure intreccia relazioni col divino mediante l'intuizione e l'ispirazione. È
questo l'ambito in cui si muove invece il talento, manifestazione diretta
dell'intelletto, dunque tutta umana. La persona di talento è un virtuoso di
alcune facoltà intellettive, mostra una predisposizione all'uso di questo
meraviglioso strumento, dote che tuttavia egli deve coltivare mediante
l'esercizio: il talento é un'antica unità di misura della massa, indica un peso,
quindi una responsabilità. Raggiunto un elevato grado di perizia, la persona di
talento riesce ad ottenere tutto ciò che vuole grazie alla tecnica acquisita.
Del genio non si può al contrario avere padronanza, è una facoltà divina che
quando si manifesta, come la menis di Achille, prevale su tutto, se ne è
soggiogati. Il genio crea ma non sa di farlo, è qualcun altro ... la divinità ad
agire direttamente, lui - appunto - fa unicamente quel che può. "Del genio ho
ereditato l'assoluta mancanza di talento" ... altro aforisma che Bene amava
citare per ribadire l'estraneità tra i due concetti. Omero stesso fornisce
chiari indizi su cosa sia il talento nell'incipit dell"Iliade: "Cantami, o Diva
..." e dell'Odissea: "Musa, quell'uom di multiforme ingegno dimmi ...". Capito?
Il più grande poeta del mondo classico si considera un artigiano o poco più:
egli non crea il capolavoro, ma porge l'orecchio alla Musa ispiratrice e, col
sapiente uso delle parole, il suo talento, riesce a cucire un bellissimo vestito
a quanto suggeritogli da un Altrove. Il genio invece non produce capolavori, è
lui il capolavoro ... non ammiriamo Achille, come invece avviene per Ulisse, per
quel che fa, ma per ciò che è. Di tanto in tanto all'uno la divinità sussurra,
fornisce indizi, nell'altro si manifesta in tutta la sua potenza. Insomma, la
differenza tra queste due genìe di savi non è meramente quantitativa ma
qualitativa.
A questi rari uomini, di entrambe le categorie, va tributato un ringraziamento
per il solo fatto di esistere. I geni, rarissimi e riconoscibili solo da chi ha
talento, scoprono nuove strade al di là della linea dell'orizzonte, che
conducono in luoghi della cui esistenza non nutrivamo alcun sospetto. Gli uomini
di talento sono invece i nostri pastori, quelli che le giuste vie da percorrere,
a noi più prossime, sanno riconoscere ed indicare. Come la fulgida luce di una
stella, il genio non può essere contemplato da vicino, dai suoi contemporanei,
egli dialoga con le generazioni a venire.
Quando il popolo crede di intravedere della genialità in un simile, proprio
qualificandolo tale lo dequalifica. Il genio autentico è per antonomasia
incompreso. Sono tutt'al più i talenti a poter riconoscere la genialità in un
loro "collega" ... Dylan, Bowie, Lou Reed ci hanno suggerito Zappa quale genio
musicale: il genio ispira i talenti che a loro volta sono fonte di ispirazione
per noi comuni mortali. Ecco, è questo a mio parere l'ordine esatto delle cose,
questo il canale in cui dover indirizzare quel flusso positivo che può condurci
a migliori auspici per il futuro. Buon 2016.