2/5/2015 ● Cultura
La schiavitù dei sensi
Se hai deciso di aggirarti tra le sottostanti righe, beh, asciuga pure quel
filo di bava che verso il mento si dirige ... nessuna morbosità in vista, il
titolo è solo una delle stupide parafrasi che - spesso mi capita - mi diverto a
congegnare.
La dipendenza a cui alludo non riguarda pulsioni provenienti dalla sfera
irrazionale. Tutt'altro, è la ragione in questo caso ad esser preda di una
fisima che è caratteristica degli esseri umani: il voler cercare il senso di
ogni cosa, foss'anche di quella realtà trascendentale che, per definizione, è
inintellegibile. Il Sacro Graal di questa curiosa attività umana, il non plus
ultra dei sensi, coinvolge la nostra stessa esistenza: ogni individuo, goccia
confusa in un oceano di miliardi di simili, che si aggira su un sassolino, la
Terra, anzi granello di sabbia di una sterminata spiaggia, è convinto d'essere
l'interprete unico di un compito preciso dal cui svolgimento dipende l'andamento
di quel complesso meccanismo che trascende qualsiasi comprensione umana. Che
dire di questi fieri antagonisti dell'entropia? Una sorta di supereroi senza
apparenti superpoteri. O forse arroganza in stile "pur i pucj tenn a toscj"?
Intendiamoci, non è ch'io non creda a priori questa eventualità possibile, solo
non comprendo l'affanno a voler capire ciò che, se fosse, dimorerebbe in
un'altra dimensione. Per inciso, e tanto per farmi comprendere - se sono in
grado bene, sennò, in coerenza a quanto sto per dire, come non detto - quel Dio,
che crediamo affidare a ciascuno di noi una specifica missione, lo reputiamo
eterno. Comunemente intendiamo questo Suo attributo nel significato erroneo che
la stessa Bibbia ci fornisce ... "da tempo indefinito a tempo indefinito".
Similmente al "fermati o sole" di Giosuè, costato l'abiura a Galileo, ci
troviamo di fronte a quella pressappochezza in cui il linguaggio incorre per
attuare le necessarie esigenze di comunicatività. In realtà un essere eterno
esiste al di fuori del tempo, non in un tempo infinito, quindi nulla ha da
spartire con noi, prigionieri di questa "illusione". Cosa sono le nostre
esistenze temporali agli occhi di un essere eterno? Ce lo svela McConaughey
nella quinta puntata di "True detective" o, magari è meglio, Nietzsche con la
teoria dell'"eterno ritorno".
Ma passiamo ora ai sensi di più tangibile comprensione. Ecco la questione: non
so voi, ma io ho sovente notato atteggiamenti contraddittori di noi uomini circa
il "voler capire". Accade spesso che nei casi in cui sarebbe utile farlo ci
asteniamo, salvo poi voler esercitare questa prerogativa laddove cercare un
senso non ha affatto senso. Verso tanti aspetti del capitalismo che si rivelano
vessatori nei nostri confronti, e che pure condizionano in negativo la
quotidianità del nostro vissuto, non mostriamo curiosità di indagine. Ad esempio
- fra le tante (s)torture escogitate per sfruttarci - nessuno si chiede da dove
venga il denaro che la banca ci presta quando contraiamo un mutuo. Se indagasse
si accorgerebbe che perdere la proprietà della casa per non aver pagato le rate
del mutuo è un'autentica ingiustizia, qualcosa che non ha letteralmente senso.
Dove risiede il nonsense? Scoprire quale sia lo strano meccanismo che consente
alla banca di prestare denaro che non esiste non è operazione complicata: digita
o dì a Google "riserva frazionaria" e apprenderai di questa curiosa variante del
gioco delle tre carte con cui il popolo - ed è qui l'inghippo - cede agli
istituti di credito un potere che dovrebbe essere sua prerogativa. È, questo, il
bicchiere mezzo vuoto di una democrazia fortemente rimaneggiata. Da oltre 40
anni il popolo ha perso la sovranità monetaria ma non s'è reso conto di nulla,
eppure è tutto scritto in quelle banconote che quotidianamente maneggiamo. La
gestione dell'acqua ai privati non la cediamo in quanto bene comune, ma
consentiamo a banche private - stampando moneta di loro proprietà - di gestire
la ricchezza che produciamo col nostro lavoro ... spiegatemi il senso, ché io
non lo trovo. Secondo esempio, sempre in tema di risorse inventate: l'economia
mondiale sembrava essere sul punto di crollare a causa dei cd. "titoli
spazzatura", ricordate? L'economia reale, ovvero le risorse effettivamente
esistenti, ammonta a circa 70 mila miliardi di dollari. La finanza ha creato
titoli, i derivati, per una cifra 10 volte superiore. Provate a chiedere ad un
economista cosa sono i derivati, che senso hanno. Sono talmente privi di senso
che non riuscirà neppure a fornire una precisa definizione di questi prodotti
finanziari. Sono l'astrazione di un'astrazione, come discutere del profumo
dell'anima. Sono complessi algoritmi inventati da matematici al soldo della
finanza per consentire ai ricchi di esser tali in maniera ancor più
spropositata. L'avidità si spinge al punto di non accontentarsi di possedere
gran parte delle risorse reali, dunque si inventa per loro una ricchezza che non
c'è. Quando ciclicamente accade che questa si rivela per ciò che è, ovvero fuffa,
chi paga il conto di questo 5% di popolazione che ha inteso vivere al di sopra
delle proprie possibilità? L'economia reale - e chi sennò? - e così svariati
milioni di lavoratori e pensionati scendono sotto la soglia della povertà.
Qualcuno medita di trovare un senso a tutto ciò? Anche molti comuni hanno
acquistati derivati, magari pure il nostro ... credete che i sindaci sapessero
di aver puntato il nostro denaro su una scommessa (perché è di fatto questa la
natura di un derivato)? Sanno che è la colletta che il sistema capitalistico ha
inventato per consentire ai ricchi di vivere del nostro lavoro? Per tanta
stupidità marceremo tutti uniti, mano nella mano, allegramente verso l'Inferno.
Ma lì, ad attenderci, non troveremo il Diavolo, ma Marx in persona che ci
prenderà a calci nel culo.
Come al solito l'inizio c'entra sì, ma non è il focus di ciò che mi premeva
dire, che è appunto la roba seguente. Siamo un popolo così poco avvezzo alla
lettura, alla narrazione di qualità, da aver dimenticato qual è il vero
contenuto artistico di una storia. Lo siamo a tal punto che prodotti artistici
nostrani vengono apprezzati all'estero dopo essere stati criticati in patria. Da
ultimo "La grande bellezza" di Sorrentino ... ma pure Nanni Moretti, e indietro
fino a Pasolini, Fellini, a tutto il filone del Neorealismo, le cui lodi sono
sempre venute dall'estero. Sono sempre stati gli altri a fornirci le coordinate
della loro dimensione artistica. Resto nel cinema, ed evito di addentrarmi nella
letteratura, essendo la settima arte comunque più popolare. Un film,
diversamente eppur similmente ad un'opera letteraria, possiede una sua
grammatica narrativa, una sua sintassi. Il 90epassa% dei film, come avviene
anche con i prodotti della musica o della letteratura, funge essenzialmente da
intrattenimento: per accattivarsi le simpatie del pubblico, dei consumatori del
prodotto, offre loro qualcosa di immediatamente comprensibile. Dunque se il
regista vuole raccontare un qualcosa di preciso sviluppa la sua idea costruendo,
attorno al topos della storia, una trama. Questa è il prodotto di un sapiente
lavoro di artigianato, mediante cui si adoperano strumenti narrativi affidabili,
ai quali il pubblico reagirà con prevedibile favore. E voilà, ecco edificata una
storia che ha un senso immediatamente riconoscibile ... pubblico soddisfatto,
botteghino alle stelle. Attenzione, non dico che l'operazione sia facile ma che,
compiuta con la dovuta perizia, incontrerà di certo il gradimento della massa.
Ecco, poi c'è l'arte, ma quella è un'altra cosa. Nell'immediato dopoguerra -
anzi, a partire dalla guerra non ancora finita - nasce in Italia il filone del
Neorealismo. Ancor oggi viene descritto, tout court, come quel cinema che dai
teatri di posa approdò sulla strada, per riprendere scorci e storie di vita
reale. Beh, in realtà è stato molto più di questo, e ciò spiega, per esempio,
perché "Ladri di biciclette" - e tutto il miglior cinema italiano di quel
periodo - viene tuttora studiato nelle scuole di arte cinematografica in USA. Lo
sceneggiatore di quello e tanti altri film di De Sica, tal Cesare Zavattini, ha
intrapreso una nuova grammatica del racconto per immagini, audace ma efficace.
Stavolta il regista ha deciso di raccontare un fatto senza corredarlo della
classica trama, ovvero il consueto intreccio di personaggi secondari e
sottotrame che in fondo nulla hanno da spartire con quello che fondamentalmente
egli ha inteso evocare. Dunque il dramma è tutto lì, reso autenticamente e senza
fronzoli. Come accade con uno spettacolo di autentico teatro - genuinamente
inteso, come quello delle origini - dopo la visione del film non starai a
chiederti quale sia il senso ... come non lo chiederesti di una poesia. Se
abbiamo assistito davvero a qualcosa di evocativo non saremo neppure in grado di
descrivere con le parole ciò che è successo sul palcoscenico ... le tre opere di
Pirandello del "teatro sul teatro" ne sono un esempio calzante. Così Sorrentino
ci ha raccontato un personaggio, il suo dramma, nel contempo dipingendo un
affresco della nostra epoca, un suo leitmotiv ... la resa dell'uomo moderno di
fronte al senso dell'inutilità, del talento al cospetto della dilagante
mediocrità (tematica evocata in una splendida poesia di Majakovskij: "che
bisogno ho io col mio splendore d'abbeverare il grembo dimagrato della Terra?").
Ovviamente queste mie parole servono a poco, bisogna vedere il film e conoscere
Jep Gambardella: se ti coinvolge bene, sennò ciccia, ma non c'è alcun senso da
inseguire e spiegazioni da chiedere. La trama non c'è, non serve, se l'avesse
ideata sarebbe stato quale escamotage per attirare il pubblico. Nessun abbandono
al compiacimento ... "ti piace o non ti piace?", questa è la domanda, non "qual
è il senso?" o "cosa avrà voluto dire?".
Ma mi spingo oltre e dirò di più: la ricerca del senso è operazione stupida
anche laddove l'artista intendesse comunicare una sua precisa opinione, tale che
si possa o meno condividere. Se uno legge Proust o Cèline non sempre li
apprezzerà per quello che dicono, dato che sovente trattasi di opinioni
discutibili: il primo è uno alla Leopardi che per carenza di salute ha vissuto
rintanato in casa per intraprendere, mediante la letteratura, la "recherche" di
una vita intera, l'altro era filonazista nella Francia appena occupata dai
tedeschi. Entrambi - Cèline in particolare - hanno fatto affermazioni a dir poco
opinabili. Però, gente, scrivevano da Dio! Scrivere è un gesto autoreferenziale.
Kafka, il fuoriclasse assoluto della letteratura del '900, non voleva neppure si
pubblicassero le sue storie. Dante credete abbia scritto poemi per farne
best-seller? Si scrive perché si avverte l'urgenza di farlo, lo si fa per se
stessi, assecondando il proprio personalissimo gusto e seguendo il proprio
stile, cifra personale di ciascuno di noi, impronta della propria innata
personalità. Chi ha scritto mosso da quest'impulso, da questo "sacro furore", ha
spesso coniugato arte, chi lo ha fatto per dire ad un pubblico ciò che questo
voleva sentirsi dire è ... propaganda o, tutt'al più, Moccia.
That's all folks!