31/1/2015 ● Libro
‘Affaire Moro’, la frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”
[di Dario Ripamonti]
Scritto nell’estate del 1978, a distanza di pochi mesi dai fatti, l’Affaire
Moro di Leonardo Sciascia è forse un esempio di instant book ante litteram.
Sciascia, contrario al compromesso storico e in rotta con il PCI, analizza in
profondità il poco materiale disponibile sul caso Moro, del quale si occuperà
negli anni successivi quale membro della Commissione parlamentare di inchiesta.
Il “poco materiale disponibile” per la scrittura del libro si può elencare
facilmente: i comunicati delle BR e gli articoli pubblicati sui giornali nei 55
giorni (il dizionario del Tommaseo, citato in varie occasioni, non è esattamente
una fonte). Il tutto tenuto insieme dal talento dell’«intellettuale, uno
scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che non si sa o che si tace; che
coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là
dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» (Pasolini viene
richiamato esplicitamente da Sciascia, ma l’accostamento sarebbe stato
naturale).
Da intellettuale, infatti, Sciascia intuisce l’importanza dell’allora – e, per
molti versi, tuttora – inedito “memoriale Moro”, come saranno poi ribattezzate
le carte scritte dal presidente della DC durante la prigionia. Solo nel 1990,
infatti, furono scoperti in via Monte Nevoso, a Milano, i documenti che
riguardavano la struttura Stay Behind (Gladio) – curiosamente, nessuno
nell’ottobre del 1978 li aveva trovati. Lo scrittore individua correttamente le
divisioni tra i brigatisti, e riconosce nel falso comunicato numero sette (non
era ancora noto l’autore, Chichiarelli, un falsario legato alla banda della
Magliana) un fondamentale snodo della vicenda. Sciascia rende giustizia alla
figura di Moro, sgombrando il campo dalle mistificazioni democristiane che lo
volevano Statista integerrimo, reso purtroppo incapace di intendere e volere
dalla condizione di prigionia. Al contrario, secondo lo scrittore siciliano, il
presidente della DC era perfettamente lucido e non si capacitava
dell’atteggiamento improvvisamente rigido dei suoi compagni di partito (tre anni
più tardi, in occasione del sequestro Cirillo, la reazione al rapimento fu molto
diversa): Moro reclamava un trattamento da prigioniero di guerra, per la cui
liberazione è legittimo trattare, rivendicando anche sue posizioni espresse in
tempi non sospetti. Insomma, qualcosa di molto lontano dal servitore della
Ragion di Stato che mette in secondo piano la propria vita. Se vogliamo trovare
un neo, Sciascia forse trascura di controllare (e forse lo fa intenzionalmente,
spingendo il lettore a controllare da sè) chi fosse il Caetani che dà il nome
alla via in cui fu fatto ritrovare il cadavere di Moro: non era nè l’arabista
né, genericamente, la famiglia a cui appartenne papa Bonifacio VIII, bensì
Michelangelo Caetani, apprezzato dantista. Ed è un peccato che non l’abbia
sottolineato, perché si sarebbe potuto collegare a un’interessante osservazione
che si legge nelle prime pagine: «Prima che lo assassinassero, [Moro] è stato
costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso:
sul suo “linguaggio completamente nuovo”, sul suo latino incomprensibile quanto
l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del
nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e
sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare utilizzando il linguaggio
dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da
prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata».
Inquietante è però il finale, dal sapore profetico per il lettore di oggi che
conosce il seguito: è il 24 agosto 1978, e Sciascia ricorre a una citazione di
J. L. Borges (Ficciones): «Ho già detto che si tratta di un romanzo
poliziesco… A distanza di sette anni, mi è impossibile recuperare i dettagli
dell’azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo
purificano) le lacune della mia memoria. C’è un indecifrabile assassinio nelle
pagine iniziali, una lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle
ultime. Poi, risolto ormai l’enigma, c’è un paragrafo vasto e retrospettivo che
contiene questa frase: “Tutti credettero che l’incontro dei due giocatori di
scacchi fosse stato casuale”. Questa frase lascia capire che la soluzione è
sbagliata. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra
soluzione, la vera».