10/12/2014 ● Cultura
Immigrazione, il nodo è l’integrazione: coniugare legalità e solidarietà
Ne accennavo in un precedente articolo (“Un immigrato italiano eletto sindaco
del comune di Camden”) citando l’episodio che ha visto un esponente dei ‘Tories’
sollecitare gli elettori dicendo: non votatelo, non è inglese! Detto ciò, il
nodo è l’integrazione, come in Italia, in Gran Bretagna, in Olanda, in Germania.
Da noi si discute solo in termini di permessi di soggiorno, di regolarizzazione
e non di integrazione culturale. Diciamo subito che nessuno dispone di ricette
miracolose. “Noi siamo intrappolati in un dibattito arretrato facendo
prevalere la tesi secondo cui non è necessario alcun modello di integrazione”.
Come dire “sarà la società a integrare”, favorendo in tal modo “il
mantenimento di identità collettive tra gli immigrati che sfociano in una sorta
di auto separatismo culturale” (Renzo Guolo, sociologo, Europa quotidiano
17/01/2014). <<Il sospetto – secondo il professor Guolo - è che
l’Italia non abbia mai elaborato un modello di integrazione culturale perché ha
forti dubbi sulla propria identità, per cui si è limitata a una sorta di laisser
faire anche in questo campo, lasciando che siano le interazioni societarie a
produrre mutamento. Ma una simile via, presuppone tempi lunghissimi, che le
esigenze sistemiche di governo delle società multiculturali non possono
permettersi pena l’esplosione dei conflitti>>. La Francia ha adottato il
modello ‘assimilazionista’ il cui obiettivo è assimilare l’immigrato alla
cultura francese. I migranti debbono conformarsi quanto più possibile ad essa,
mettendo in atto processi di cancellazione delle culture d’origine.
Il professor Giovanni Sartori, studioso attento e autorevole, si è posto il
problema della ‘società aperta’ secondo la dizione popperiana, e si è chiesto:
<<aperta a cosa, e fino a che punto? Può arrivare a includere, per esempio,
una società multiculturale e multietnica basata sulla ‘cittadinanza
differenziata’?... Per capire fino a che punto una società si può aprire, e
quindi quando l’aperto diventa “troppo aperto”, dobbiamo individuare un codice
genetico. E sosterrò che questo codice genetico della società aperta è il
pluralismo>> (cfr. ‘Pluralismo, multiculturalismo e estranei : saggio sulla
società multietnica’, editore Rizzoli). Per Giovanni Sartori la buona società è
la società pluralistica fondata sulla tolleranza e sul riconoscimento del valore
della diversità, con una precisazione : il multiculturalismo non è una
estensione e prosecuzione del pluralismo, bensì la sua negazione. Il
multiculturalismo non persegue una integrazione differenziata, ma una
‘disintegrazione’ multietnica. L’autore del libro sopra segnalato si chiede fino
a che punto la società pluralista può accogliere “nemici culturali” che la
rifiutano, senza dissolversi.“L’immigrante di cultura teocratica” pone problemi
ben diversi rispetto all’immigrante che accetta la separazione tra politica e
religione. Insomma, il modello ‘multiculturalista’ esalta l’identità originaria
e non riesce a perseguire una integrazione differenziata; si formano,
particolarmente nelle grandi città, i ghetti che producono isolamento e non
interazione. Ciò posto, tutti gli Stati europei sono alle prese con la crisi del
proprio modello di integrazione. <<L’irruzione di culture altre nello spazio
sociale solleva, infatti, questioni enormi, tra le quali il concetto di
cittadinanza, la laicità dello Stato, il pluralismo religioso… Il
multiculturalismo mostra evidenti limiti perché amplifica la frammentazione
sociale (…). Ma in crisi è anche il modello assimilazionista in quanto la
laicità francese non permette alcun segno religioso nella sfera pubblica. Sono
così proliferate comunità parallele, etniche o religiose che sono destinate a
non incontrarsi mai>> (così Renzo Guolo). In linea di principio, le diverse
culture devono incontrarsi perché sia possibile un comune ‘senso di
appartenenza’.
Come evidenziano i ricercatori della “Fondazione Moressa” (fonte: La Repubblica,
1 dicembre 2014) in Italia <<laddove si riscontra una forte concentrazione in
periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di
disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a
favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni
di disagio e conflitto>>. La stessa Fondazione ci informa che i migranti
producono il 5,6 per cento del Pil italiano. Si confronti, altresì, l’articolo
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 12 novembre 2014): <<Nell’attuale
contesto di crisi economica, uno degli argomenti al centro del dibattito
sull’immigrazione riguarda il rapporto tra costi e benefici per l’Italia della
presenza straniera. Mettendo a confronto entrate ed uscite, emerge come il saldo
finale nazionale sia in attivo di 3,9 miliardi di euro…>>.
Il lato problematico del multiculturalismo lo abbiamo sopra tratteggiato a
grandi linee. Chi scrive queste note privilegia l’interculturalità <<intesa
non come indifferenza etica, ma come efficace rimedio all’incrocio tra diverse
culture potenzialmente conflittuali>> (Giacomo Marramao, professore di
Filosofia all’Università Roma Tre). L’intercultura aderisce maggiormente
all’essenza stessa delle culture e delle identità <<che si forgiano e si
nutrono dentro un incessante processo di apertura, di acquisizioni, di
alienazioni e di contaminazioni (…) Se assumiamo la prospettiva
dell’intercultura, il contesto urbano diventa un vero e proprio laboratorio
della nostra contemporaneità. L’impegno primario della politica è quello di
evitare la formazione dei ghetti ed operare per ricondurre ad armonica
ricomposizione interessi divergenti e segmenti identitari potenzialmente
conflittuali >> (Jean Léonard Touadì, Università di Roma “Tor Vergata”). Ad
avviso di Aluisi Tosolini (Dirigente scolastico, Liceo delle Scienze Sociali di
Parma) <<una città interculturale è un progetto che gioca la propria
fattibilità nella capacità delle istituzioni di mettere in atto sia percorsi di
formazione in senso classico e specifico, sia eventi, situazioni, percorsi di
vita reale che facilitino l’assunzione di consapevolezza e la diretta esperienza
dell’alterità e delle modalità di relazioni tra alterità. Tra i momenti
specifici vanno certamente considerate le proposte di formazione-aggiornamento
che devono coinvolgere tutti gli operatori (dal vigile urbano all’addetto allo
sportello all’anagrafe, dal centralinista all’insegnante, dal giudice
all’assistente sociale, dall’infermiere al dirigente dell’assessorato
all’urbanistica) al fine di assumere, in quanto istituzioni, le dinamiche della
relazione interculturale>>. La scuola rappresenta il luogo centrale per la
costruzione e la condivisione di regole comuni. L’educazione interculturale
rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione e il rafforzamento
di comunità etniche chiuse. L’Italia non ha ancora impresso un carattere
definito al suo modello d’integrazione; tuttavia le normative in merito
all’accoglienza degli alunni stranieri prevedono un’impostazione improntata ad
un ascolto attivo e interculturale. La pedagogia del dialogo, del riconoscimento
delle culture e degli individui. L’attuazione del processo d’integrazione è la
vera sfida della società odierna; occorre mettere insieme legalità e
solidarietà. Nella società i valori di solidarietà e legalità sono
intrinsecamente legati perché la solidarietà non può che nascere da un corretto
esercizio della legalità. La scuola trasmette contenuti e insegnamenti che
educano alla legalità, tenendo come guida la Costituzione della Repubblica
Italiana (la “Legge fondamentale”), cioè la base della nostra convivenza
civile,”e come tale – sottolinea il professor Valerio Onida – richiede
‘osservanza’ e ‘fedeltà’ da parte di ‘tutti i cittadini’ : vecchi e giovani, del
nord e del sud, di destra e di sinistra, benestanti e poveri, occupati e
disoccupati, italiani di nascita e nuovi italiani, compresi coloro che qui
vivono e lavorano, e non sono ancora ‘cittadini’ a pieno titolo per il diritto,
perché non l’hanno chiesto o perché l’hanno chiesto e possono diventarlo, ma le
lungaggini e talvolta la sorda resistenza degli apparati non glielo hanno ancora
consentito…”. Mi piace qui segnalare la legge regionale della Liguria (l. 7
/ 2007) contenente norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle
cittadine e dei cittadini stranieri immigrati. Riferisco solo le linee
principali ivi previste: una Consulta regionale per l’integrazione dei cittadini
stranieri immigrati; interventi di assistenza e di prima accoglienza per coloro
che versano in situazione di bisogno; servizi di mediazione
linguistico-culturale; facilitazioni per l’apprendimento della lingua italiana;
contributi per la gestione di centri di aggregazione; iniziative dirette a
favorire il dialogo interreligioso tra la comunità locale e i cittadini
stranieri immigrati; scambi interculturali e iniziative di incontro, interventi
di mediazione socio-culturale; politiche abitative attraverso la predisposizione
di centri di accoglienza e alloggi sociali collettivi; accesso da parte dei
cittadini stranieri immigrati regolarmente soggiornanti sul territorio regionale
agli alloggi in proprietà o in locazione e agli alloggi di edilizia residenziale
pubblica in condizioni di parità con i cittadini italiani; servizi sanitari
anche per gli stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso ed al
soggiorno sono assicurate le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque
essenziali per malattie e infortunio. “Scopo della legge è anche valorizzare
la consapevolezza dei diritti e dei doveri connessi alla condizione di cittadino
straniero immigrato”.
Nella società globale in cui viviamo le diseguaglianze si sono accresciute in
misura notevole e questa situazione ha reso le migrazioni un fenomeno dominante.
Milioni di persone vorranno trasferirsi da Paesi in preda alla miseria verso
luoghi più ricchi. L’Europa vedrà una mescolanza di etnie che in parte già c’è
ma il livello è destinato a crescere in misura considerevole. <<E qui entra
in gioco – sottolinea Eugenio Scalfari su Repubblica (23 novembre) –, tra i vari
fattori, anche quello religioso come elemento di ulteriore scontro tra le etnie
migratorie da un lato e come elemento potenzialmente positivo di fraternità
dall’altro. Papa Francesco predica la fraternità tra le religioni perché Dio è
ecumenico ed è lo stesso per tutti, non è cristiano, non è musulmano, non è
asiatico: è Dio per tutti. “Noi cattolici – ha detto più volte – parliamo tutte
le lingue del mondo, cioè cerchiamo di capire gli altri e di amarli perché
questo è il solo modo di amare Dio. Si chiama ‘agape’”. Ecco, ‘l’agape’ è uno
dei modi per sconfiggere la povertà e render pacifiche le migrazioni di massa>>.
La Chiesa ha un ruolo prezioso nell’accoglienza degli immigrati. Papa Francesco
ha ricordato di recente che “i Paesi che accolgono traggono vantaggio
dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere
nazionale, non di rado limitando anche i vuoti creati dalla crisi demografica”.
Certo, il Papa non ha nascosto le difficoltà legate alla questione immigrati: “Nelle
Nazioni che li accolgono, di riflesso, vediamo difficoltà d’inserimento in
tessuti urbani già problematici, come pure difficoltà di integrazione e di
rispetto delle convenzioni sociali e culturali che vi trovano” (Città del
Vaticano, 21 novembre, AdnKronos).
La notizia recente (fonte: Repubblica Online, 9 dicembre 2014) è questa:
Istat“Boom di Italiani che lasciano il Paese. E gli immigrati tornano a casa”. I
dati Istat sottolineano che “l’Italia torna ad essere una nazione di
emigranti (nel 2013 il 20,7 per cento in più rispetto all’anno prima), che
preferiscono spostarsi nel Regno Unito, in Germania, in Svizzera e in Francia, e
attira un numero sempre minore di stranieri (…) Le migrazioni da e per l’estero
di cittadini italiani con più di 24 anni di età (pari a 20mila iscrizioni e
62mila cancellazioni) riguardano per oltre il 30 per cento del totale individui
in possesso di laurea. La meta preferita dei laureati è il Regno Unito”.