6/11/2014 ● Cultura
L’anima dell’abitare, la comunità come avventura
[di Mario Botta | Luoghi dell'Infinito (Avvenire) - Settembre 2014]
La città come oggi la conosciamo – dal Neolitico al post-terziario – è indubbio
che rappresenti la forma di aggregazione di uomini più bella, più flessibile e
più intelligente che la storia abbia saputo realizzare. Non esistono modelli
alternativi che attraverso la loro stratificazione nel tempo abbiano raggiunto
una tale organizzazione funzionale e formale in grado di rispondere alle attese
dell’uomo. La città è la nostra casa collettiva, il luogo fisico di
comunicazione per eccellenza e nel contempo il luogo dell’anonimato più spinto;
il luogo dove è possibile percepire attraverso l’organizzazione fisica degli
spazi la memoria della nostra stessa identità.
Nelle sue configurazioni strettamente legate alle morfologie dei differenti
territori, il tessuto urbano testimonia del nostro vivere collettivo, delle
nostre istituzioni civili e religiose, delle nostre speranze. La meraviglia che
ogni volta proviamo dentro i tessuti costruiti è segno del nostro riconoscere le
espressioni della storia, nelle quali diviene possibile identificarci come parti
(infinitesimamente piccole) di un’avventura che ha coinvolto l’intera umanità.
Nel vagabondare dentro i vicoli del tessuto costruito si avvera di tanto in
tanto l’improvvisa scoperta di una piazza offerta al nostro sguardo senza che
l’avessimo cercata, un tesoro di storia e di affezione capace di richiamare allo
splendore di un passato che indirettamente ci appartiene. È la pluralità dei
modelli di vita dentro al continuo scorrere del tempo che inconsciamente ci
affascina con quelle testimonianze di pietra che nei secoli hanno trasformato
una condizione di natura in una condizione di cultura. In quest’ottica la città
può essere interpretata come uno strumento di comunicazione raffinato e
complesso in grado di farci riscoprire il nostro essere partecipi di una
comunità.
Ancora oggi, pur all’interno delle contraddizioni del vivere una condizione
globale che opera nel locale, della città ci affascina la complessità del suo
centro storico, la sua stratificazione, la sua densità di esperienze e di
memorie in grado di riemergere poi attraverso inaspettati segnali e confluire
poco dopo nella precarietà delle sue frange periferiche (specchio impietoso e
veritiero del gran correre di ogni giorno).
Nelle configurazioni del volto urbano trasmesse a noi dalla storia, talvolta
stravolte dai cambiamenti ai quali abbiamo assistito impotenti negli ultimi
decenni, si conserva una cifra espressiva propria di una identità reale alla
quale siamo chiamati a costante confronto.
L’inevitabile fruizione di esperienze che si alternano fra nucleo storico e
periferie, fra centro e limite, diviene ormai la condizione di un nuovo
territorio al quale fare riferimento. La città, in particolare nei modelli
offerti dalla cultura europea (per noi più intensi di quelli proposti da quella
nordamericana o asiatica), nonostante le recenti alterazioni resta ancora oggi
una rete complessa e variabile di tracciati incrociati, di relazioni possibili e
nascoste che si offrono senza fine come paesaggi da esplorare dentro
l’esperienza quotidiana. Il fascino di un confronto che si avvale di modelli
reali può accrescere la consapevolezza di condividere la vita e il lavoro di
altri uomini e trasformarsi in possibile arricchimento.
In tal senso la città fisica è carica di valori simbolici. In una società
attraversata dalla globalizzazione, la ricerca della propria identità passa
necessariamente attraverso il senso di appartenenza a un territorio, la
riconoscibilità di un paesaggio e il rapporto con la città che consideriamo come
parte della nostra memoria.
I luoghi fisici continuano ad affascinarci semplicemente perché sanno parlare di
altri uomini.