22/10/2014 ● Politica
Jobs Act, Santella: "Cosa ci piace (poco) e cosa non ci convince (molto)"
La legge Delega del Governo Renzi sul lavoro, meglio nota come Jobs Act, è
stata approvata l’8 ottobre 2014 in Senato ed è ora in discussione alla Camera
dei Deputati.
La Delega intende imprimere una forte accelerazione in termini di ammodernamento
e semplificazione legislativa delle politiche attive e passive del lavoro, in
materia di disciplina dei rapporti di lavoro e sul tema della conciliazione
delle esigenze di vita e di lavoro (per i dettagli:http://www.lavoro.gov.it/Priorita/Documents/DDL_Lavoro_Senato.pdf).
Da una prima lettura del testo, accanto ad alcuni aspetti da valorizzare,
emergono punti che a nostro avviso rischiano di minarne sul nascere le
possibilità di incidenza reale sulle dinamiche del lavoro e sul problema della
disoccupazione.
In generale la proposta di riforma punta a migliorare le garanzie e le tutele
dei lavoratori, anche per le categorie maggiormente esposte al rischio di
precarietà: vanno in questa direzione l’ampliamento della platea di beneficiari
dell’ASpI (l'Assicurazione Sociale per l'Impiego,operativa dal 1° gennaio 2013,
che ha sostituito l’ex indennità di disoccupazione), l’incentivazione del
contratto a tempo indeterminato, l’introduzione del compenso orario minimo, ecc.
Tuttavia a noi sembra che in questo momento il vero problema sia quello di
creare lavoro: avremmo preferito un intervento ancora più coraggioso a sostegno
delle imprese che creano lavoro. L’abolizione della componente lavoro dalla base
imponibile dell’Irap, contenuta nella Legge di Stabilità 2015, è un
provvedimento importante in questo senso, ma sarà in grado di liberare le
risorse necessarie a spingere le aziende ad incrementare il proprio organico? Va
da sé che se le aziende non ricominceranno ad assumere verranno a mancare i
soggetti cui applicare le maggiori tutele previste dalla Riforma.
La Riforma prevede la “valorizzazione delle sinergie tra pubblico e privato, per
favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”, con un coinvolgimento più
diretto di agenzie per il lavoro e operatori accreditati, nelle azioni di
politica attiva per il lavoro. Purtroppo però, a questa affermazione di
principio fa da contraltare l’istituzione dell’“Agenzia nazionale dell’occupazione”,
con “competenze gestionali in materia di servizi per l'impiego, politiche attive
e ASpI”, che sa tanto di ritorno ad un centralismo d’altri tempi. Ci riesce
difficile pensare che centralizzando le funzioni(per di più utilizzando lo
stesso personale che già lavora in altri uffici pubblici), si possa incidere
sulle performances largamente insufficienti dei Centri pubblici per l’Impiego e
degli altri strumenti pubblici nati per favorire l’incontro tra domanda e
offerta come il portare www.cliclavoro.gov.it.
Diversi aspetti sono stati già affrontati anche nelle precedenti riforme. Uno su
tutti: l’introduzione del divieto - per le pubbliche amministrazioni - di
richiedere al cittadino quegli atti che sono in già possesso della pubblica
amministrazione e che possono pertanto essere richiesti d’ufficio. Questo
provvedimento era già previsto dalla Legge 12 novembre 2011, n. 183, entrata in
vigore a partire dal 1°gennaio 2012. Si tratta di una norma molto spesso
disattesa dagli uffici pubblici. Ma, piuttosto che reiterare una legge già
esistente, non sarebbe stato meglio richiamare la precedente legge,introducendo
sanzioni severe a carico dei responsabili degli uffici inadempienti? Nessuna
buona norma produrrà gli effetti sperati se chi è chiamato ad applicarla la
ignora o la disattende colpevolmente, senza che questo comportamento sia in
qualche modo sanzionato.
Infine un breve cenno sulla questione “conciliazione”lavoro-famiglia. Il termine
stesso “conciliazione”rivela una impostazione culturale che vede famiglia e
lavoro in conflitto tra loro: sarebbe più opportuno parlare di «“una
armonizzazione responsabile” tra famiglia e lavoro, utile a superare la diffusa
femminilizzazione della questione conciliativa a favore di un approccio
reciprocitario tra famiglia e lavoro»,come suggerito dal prof.Stefano Zamagni
nella sua relazione "Le politiche familiari per il bene comune", nell’ambio
della 47^ Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (Torino, 12-15 settembre
2013).L’impressione è«che, nonostante una certa retorica di maniera, nel nostro
paese si continua a vedere la famiglia solamente come una delle voci di spesa
del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per lo sviluppo umano
integrale». E ancora«Si tratta dunque, per un verso, di andare oltre una
concezione puramente materialistica e strumentalista del lavoro, secondo cui
quest’ultimo sarebbe solo pena e alienazione e, per l’altro verso, di smetterla
di concepire la famiglia come luogo di solo consumo e non anche come un soggetto
produttivo per eccellenza, generatore soprattutto di quei beni immateriali
(fiducia, reciprocità, beni relazionali, dono come gratuità) senza i quali una
società non sarebbe capace di futuro»(S. Zamagni). Su questo tema, perciò, al di
là del potenziamento di qualche strumento già esistente (come l’estensione
dell’indennità di maternità o la razionalizzazione della rete di asili nido), o
di qualche innovazione senz’altro utile(come la possibilità di cessione fra
lavoratori dipendenti della stessa azienda dei giorni di riposo aggiuntivi in
favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessita di presenza fisica
e cure costanti),nessuna vera svolta sembra configurarsi all’orizzonte. Prova ne
sia il fatto che il famigerato Piano Nazionale per la Famiglia approvato dal
Consiglio dei Ministri il 7 giugno 2012, è rimasto a tutt’oggi lettera morta;
mentre provvedimenti come il Fattore famiglia, che rivoluzionerebbero il
trattamento fiscale riservato alle famiglie (in Francia fu introdotto nel 1945
e, nonostante la crisi,è tutt’ora in vigore), sono di là da venire.
Pasquale Santella,
Direttore Ufficio per i problemi sociali e il lavoro