25/6/2014 ● Cultura
Prima il "nostro", poi il "tuo", poi il "mio"
La Solennità del Corpus Domini ci ha rimessi nella nostra vera
identità-vocazione di Popolo che adora il Signore e cammina insieme con Lui tra
la gente della nostra terra molisana.
E’ in questa identità-vocazione che siamo invitati a “rimanere” per compiere la
nostra missione di Chiesa in uscita sulle strade del mondo. La figura di Geremia
che ci viene presentata dalla prima della lettura ben ci rappresenta il senso
della chiamata di Dio per una missione: “ti ho consacrato;
ti ho stabilito
profeta delle nazioni”. Ogni battezzato è unto-consacrato-scelto per
annunciare-testimoniare alle nazioni il grande mistero di Dio, l’unico Signore,
Padre di Tutti… “Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto
quello che io ti ordinerò”.
L’immagine del Popolo che adora il Signore presente nella propria vita e cammina
con Lui nella storia degli uomini, è ben espressa nella categoria della
Sinodalità, che significa proprio camminare insieme, fare insieme la stessa
strada verso l’unica meta, “la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”,
come ci ricorda oggi San Pietro.
La sinodalità dice che la Chiesa, come Popolo di Dio, è sempre in cammino sulla
“via” che è Cristo Signore. “io sono la via… io sono la porta…”, porta sempre
aperta. Racconta di una Chiesa che è in continuo “esodo” e mai arrivata, sempre
nella ricerca e sempre nel rischio, (vi mando come agnelli in mezzo ai lupi..
non portate con voi né bisaccia…), che non ha altre sicurezze che nella Presenza
del suo Signore e nel Vangelo.Dice Dio a Geremia: “Non aver paura di fronte a
loro,
perché io sono con te per proteggerti”.La Parola di Dio continuamente ci
interpella e ci chiama continuamente ad abitare la terra, la vita degli uomini,
in quella dinamica del “già” che sperimenta grazie alla vita di comunione e
fraternità che celebra nel Mistero, e il “non ancora” della Gerusalemme celeste
dove Dio sarà tutto in tutti.
Ce lo siamo detti più volte: l’aver celebrato il Sinodo ha rimesso a fuoco nella
nostra vita e nella nostra prassi la necessità di essere Sinodo: camminare
insieme con Gesù e tra noi sulla via che è Gesù stesso. Si tratta di un cammino
“pericoretico”, grazie al quale ognuno è se stesso e nello stesso tempo esprime
il noi-Chiesa, in una dinamica circolarità che dice compresenza amorevole,
inabitazione dell’uno nell’altro e di ciascuno in tutti.
Grazie all’esperienza vissuta nel Sinodo è la stessa prospettiva del nostro
essere e vivere come chiesa che è cambiata: abbiamo imparato a guardare noi
stessi e le singole realtà a partire dalla diocesi, prima che guardare la
diocesi a partire da sé e dalle realtà locali. Questa è la svolta che va sempre
riconquistata e vissuta nella quotidianità della nostra azione pastorale. Dopo
aver fatto-Sinodo bisogna essere-Sinodo. E’ l’intera prassi della nostra chiesa
che deve scaturite da un’anima-comunione che abbracci ogni pensiero e ogni
iniziativa. Questo può accadere se operiamo continuamente tre sinodalizzazioni:
1. -quella del pensare,
2. -quella del cuore e
3. -quella dell’impegno ad animare con il Vangelo la terra che abitiamo.
· -Innanzitutto occorre apprendere sempre meglio ed esercitare l’arte di
valutare e progettare al plurale, partendo dal noi-chiesa, secondo lo stile del
discernimento comunitario.
· -In secondo luogo bisogna imparare ad amare con tutto il cuore tutta intera la
chiesa diocesana e ogni sua parte. La prima attenzione da dare al nostro
apostolato è quella di essere-chiesa, sempre e in tutto, perché solo così
porteremo i frutti-della-chiesa.
· -Solo così, infine, potremo svolgere la conseguente funzione di lievito e
fermento di coesione all’interno della società civile nella quale viviamo.
In questi tre passaggi viene indicato un itinerario concreto per rifare il
tessuto cristiano delle nostre comunità ecclesiali perché siano sale e luce nel
e per il mondo.
Proprio su questo ci focalizza papa Francesco quando nella Evangelii Gaudium
scrive: “Abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli
operatori pastorali, «luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù
crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le
preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri
evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e
al bello le proprie scelte individuali e sociali».
Sappiamo anche, per esperienza, che sono diversi i virus che possono aggredire e
svuotare questa identità-vocazione. Essi possono agire grazie a una cellula che
li ospita e ne permette l’azione. Si tratta di “particelle” parassitarie, non
vivono per gli altri, ma degli altri, non servono, ma asserviscono al loro
scopo. Proprio per questo bloccano un processo o lo accelerano verso la
decomposizione, e se non combattuti adeguatamente, producono la morte.
Un primo ceppo di virusè quello che porta a un ripiegamento su se stessi, alla
conseguente sterilità e chiusura, e si caratterizza per una triplice
derivazione: il rimpianto del passato, il pessimismo negativo che aggredisce con
la critica tutto quello che accade e viene proposto, e l’autoglorificazione
legata agli eventi e alle conseguenti emozioni che suscitano, senza alcun legame
con il quotidiano e la ferialità della vita.
Una secondo ceppoè quello formato dall’individualismo e da quella che papa
Francesco chiama la mondanità spirituale. Le conseguenze sono ben descritte
nella Evangelii Gaudium: “si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente
opposti ma con la stessa pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa”. (…) In
tutti i casi, è priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e risuscitato,
si rinchiude in gruppi di élite, non va realmente in cerca dei lontani né delle
immense moltitudini assetate di Cristo. Non c’è più fervore evangelico, ma il
godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico.(…) Coltiviamo la nostra
immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del
nostro popolo fedele.Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da
lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa
risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato
dall’apparenza.” (95-97 passim)
Un terzo ceppo è formato dalla pigrizia, dal quieto vivere, dalla
deresponsabilizzazione (tocca al vescovo, tocca al prete, tocca a loro… mai
sentirsi coinvolti e quando lo siamo: secondo le nostre misure) e dalla
indecisione che porta alla deresponsabilizzazione e spegne la partecipazione e
la corresponsabilità e lascia che tutto scorra come sempre.
Un quarto ceppoè quello che suscita concorrenze e divisioni tra noi: è il virus
più potente e per questo più resistente, ma è quello che nasconde la luce posta
sul monte e rende insipido il sale che deve dar sapore. Che rende evanescente e
insignificante il nostro essere Popolo di Dio.
L’antidoto a tutto questo è il vivere quello che siamo, Chiesa sinodale, Popolo
di Dio in cammino, che si assume tutti i rischi del cammino ma nel rispetto di
una successione ben precisa nell’attribuzione della precedenza nella scala dei
valori ecclesiali: prima il “nostro”, poi il “tuo”, poi il “mio”: il mio trova
nel tuo e ancor più nel nostro la sua ragione, il suo posto. E’ così che
privilegiando e attuando il “nostro”, nel “mio” riverbera e si convoglia una
forza evangelizzatrice che non potrei mai attivare se rimanessi dentro l’angusto
margine delle mie capacità, nel mio arrogante individualismo e consumismo
spirituale. Il mio non è umiliato, ma è favorita la crescita piena e ben
armonizzata del singolo e della comunità, del carisma personale in vista
dell’utilità comune: nel noi-Chiesa ogni carisma particolare è riconosciuto,
rispettato e apprezzato, perché ogni singolo carisma è per il noi ecclesiale, al
di fuori del quale è infecondo e muore.
Ancora san Pietro nella seconda lettura ci ricorda che i profeti “non per se
stessi, ma per voi erano servitori”, così noi oggi accogliamo il vangelo per
offrirlo al mondo. Come Giovanni ciascuno di noi è chiamato “per ricondurre i
cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare
al Signore un popolo ben disposto”.
Carissimi,solo l’Eucaristia ci rende capaci di tessere la comunione tra noi:
infatti, diventando partecipi del Signore, noi viviamo non solo gli uni con gli
altri e gli uni per gli altri, ma siamo davvero gli uni-degli-altri (perchè ci
apparteniamo reciprocamente) e gli uni–negli–altri (perché ciascuno porta con sé
tutti, anche quando agisce in prima persona). Per questo nell’economia della
salvezza, nessuno può diventare se stesso da solo.