7/6/2014 ● Cultura
Culturismo
Ho sempre nutrito un'avversione a pelle verso gli -ismi, un pregiudizio verso
la debordante mole di astratti vocaboli edificati su tale suffisso. Quando fanno
riferimento a dottrine, movimenti o atteggiamenti e tendenze di massa -
includendo l'intero caravanserraglio formatosi attorno ad un'idea - penso
abbiano spesso tradito le sottese buone intenzioni. Eppure il sostantivo
fornisce un abito ed è abitato da un'idea che sovente è d'una tale bontà che può
non essere condivisa? ... che so, d'acchitto mi sovviene pacifismo animalismo
femminismo eroismo patriottismo ottimismo. Purtroppo capita, a me spesso, di non
condividere l'ismo, o quantomeno di nutrire diffidenza nei confronti della
modalità con cui si ritiene debba attuarsi, in concreto, l'idea astratta.
Seguendo una metafora un po' cialtrona, l'ismo è la ricetta che si sceglie per
cucinare un determinato alimento, associando ingredienti e procedimenti -
strumenti e finalità secondarie - tali da assecondare il palato di molti, onde
creare consenso, dunque potere (ottimismo, giornalismo e socialismo sfasceranno
il mondo, diceva Nietzsche). Ed è un potere, nel caso di dottrine e movimenti,
che si evidenzia in una +o- visibile organizzazione che, appunto, contempla tra
gli obiettivi istituzionali la ricerca del più ampio consenso. Quando invece l'ismo
designa atteggiamenti e tendenze - ex: patriottismo - è il concetto stesso a
rappresentare uno schema di potere, costringendoci a guardare la realtà dalla
prigione costruitaci sopra (Deleuze). A far le veci dell'organizzazione v'è qui
il passaparola, una spontanea catena di S.Antonio che s'innesca grazie
all'adesione passiva ad opinioni espresse sull'onda d'una suggestione ... da
piazza, da bar. L'ismo dunque coniuga la cifra del consenso raggiunto su
un'idea, rappresenta la definitiva consacrazione del luogo comune su di essa,
luogo virtuale in cui la realtà deve inchinarsi all'affermazione dell'ismo ...
così è perché così fan tutti.
Questo suffisso ci pone di fronte al problema della convenzionalità del
linguaggio, di quella limitatezza che condiziona l'espressione genuina dei
nostri pensieri. Più delle altre locuzioni gli ismi restituiscono il vero
significato di soggetto, d'un parlante non protagonista attivo del linguaggio -
come la forma verbale sembra indicare - ma di un'antenna che replica
passivamente il segnale recepito, che è soggetto al linguaggio. Avviene così, ad
esempio, di poter (voler) essere comunisti ed avere validi motivi per non votare
né tesserarsi al partito, oppure di condividere molti aspetti della tutela di
animali e dell'ambiente pur non apprezzando i relativi movimenti ismo-patentati
e, mutando di poco l'estetica della desinenza, di sentirsi pienamente seguaci
del Cristo senza per questo voler condividere il Cristianesimo nella sua
applicazione pratica (anzi, mutatis mutandis, proprio per quell'aspirazione alla
pienezza scegliere di non farlo). Nel primo caso ci si potrebbe definire
marxisti non comunisti, tout court, oppure di sinistra extraparlamentare - e la
toppa è cucita - ma negli altri casi la difficoltà a trovare una collocazione (è
appena il caso di evidenziare che il nome è l'attestato anagrafico d'un
qualcosa, è l'equivalente della scintilla divina che dà vita al fango: è Dio
stesso ad averci delegato tale potenza creatrice - Genesi 2, 19-20) è pressoché
insormontabile ... e se non sei pro cosa sei, sei contro? ... o, peggio ancora,
ignavi "sanza infamia e sanza lode"? La dittatura del consenso segue la legge
dei numeri: per dirla coi grillini, 1vale1. E l'ismo è alla ricerca d'un
consenso tout court, non pone questioni qualitative: consapevole o passiva non
importa, quel che conta è l'adesione (come il voto che, anche fosse d'opinione,
sempre uno vale). Altra controindicazione della dittatura concerne l'implicito
ricatto derivante dall'ampio consenso: a volte si è incalzati ad esprimere la
propria opinione, vedendosi violata la privacy del proprio interno psichico e il
sacrosanto diritto a farsi i cazzi propri, non manifestando o non formandosela
affatto un'opinione. E' più facile che chi è in possesso d'un armamentario di
pregiudizi sotto la cartella opinioni (personali?) incalzi gli altri a
manifestare la propria: un pregiudizio è di facile esposizione, è un'opinione
che si motiva con due chiacchiere e uno slogan. Chi invece nutre un serio e
profondo convincimento sa di non poter fare d'una questione seria una
chiacchiera da bar.
Dunque la dittatura della maggioranza si estende dalla politica al linguaggio,
per coprire così l'intera realtà ... effetti collaterali della democrazia: oltre
che una mera illusione, l'apparente potere del popolo presenta una sottile
discriminazione, ché chi sta in maggioranza si sente più uguale degli altri. La
genesi dei pregiudizi racconta compiutamente il clima di falsa uguaglianza che
regna in democrazia: serpeggia un'opinione diffusa - magistralmente calata
dall'alto - e subito c'appare una verità rivelata, e i molti aderiscono senza
indagare più di tanto. E' una prerogativa del potere impadronirsi delle parole
riformulandone il concetto così, in definitiva, da espropriarle a coloro che
all'originario significato vorrebbero poter fare riferimento (ex: speculazione,
populismo, ipocrisia ecc., di origine nobile e virtuosa, hanno oggi una
connotazione negativa). Il linguaggio è uno strumento del potere: l'influenza
sulla parola si tramuta in direzione del pensiero, dunque si riesce a plasmare
la rappresentazione della realtà (l'analisi attenta del linguaggio scelto dalla
stampa conduce ad un'evidenza: essa non informa sui fatti ma informa i fatti).
L'ismo ottiene il medesimo risultato, lo stravolgimento d'un concetto, ma
mediante un procedimento lungo e partecipato, una dittatura che viene attuata
con metodi democratici. Ma, mi chiedo, è ineluttabile questo distanziarsi degli
ismi dall'idea che intendono promuovere? Certo, nel transitare dal mondo delle
idee alla realtà dei fatti, è risaputo, si beccano schizzi di fango. E pare
proprio la ricerca del consenso essere all'origine del degrado di qualsiasi
fenomeno culturale. In quest'ambito un dato appare incontrovertibile: quando un
contenuto è diretto alla fruizione della massa, irrimediabilmente diventa
volgare (data l'etimologia del termine, ahimè, ho appena formulato una
tautologia). Dunque la cultura di massa sembra destinata, per definizione, ad
essere di qualità scadente. Come avviene per le verità esoteriche, un sapere per
pochi iniziati, l'intera cultura è fenomeno elitario?
Sebbene sia metafora largamente utilizzata in ambito clericale, la
responsabilità circa il pregiudizio del popolo=gregge di pecore è tutta della
politica. Ed il ruolo che hanno avuto i moderni mass media dimostrano che il
pregiudizio può essere scardinato. La TV in particolare, e prim'ancora la radio,
hanno portato nelle nostre case la lingua nazionale, fino ad allora parlata da
pochi. Dagli atti costitutivi della RAI emerge la chiara volontà di voler
cogliere la grande opportunità che tale mezzo offriva: dai palinsesti si
evinceva il ruolo pedagogico che alla TV era stato assegnato. Era, questa,
un'operazione voluta, pianificata da un Paese che, volendo raggiungere traguardi
ambiziosi, aveva compreso esser necessaria una maggiore preparazione culturale
del popolo. Ma alla vigilia degli anni '80 il Potere torna invece ad essere
quello di sempre, autoreferenziale e conservativo: e sì, ché si son resi conto
che il progresso culturale si traduce in sviluppo della capacità critica, che è
terreno fertile per la Contestazione. Dunque, come si dice ... "abbiamo
scherzato", e dalla grande letteratura degli sceneggiati siamo passati a
squallide fiction e, in generale, da educativa la TV s'è involuta in sedativa.
E' uno dei tanti dies horribilis conosciuti dalla nostra democrazia: 14 aprile
1975, legge 105, la vigilanza sulla Rai - la più grande azienda culturale del
Paese - passa dal Governo al Parlamento. E' la cd. lottizzazione, e "TV di
Stato" diventa definizione fuorviante, passando il controllo di fatto ai partiti
mediante uno dei tanti atti d'esproprio di potere che il popolo ha subito ...
roba d'ordinaria amministrazione nella Repubblica dello stato libero di Bananas.
Ma il titolo di questa riflessione l'ho scelto in quanto leggibile in più di
un'accezione: cul-turismo è quello di un'Italietta incapace di sedurre pur
essendo la più bella di tutte - e la meglio vestita e ingioiellata - culturismo
è anche quello della nostra borghesia, la più ignorante d'Europa, concausa del
mancato sfruttamento delle nostre potenzialità economico-sociali; poi c'è il
cultur-ismo simbolo di quello che a me pare essere l'approccio alla cultura di
noi moderni, nell'era di internet e dei social-media. In tutti e tre i casi v'è
una deformazione in chiave negativa di ciò che la cultura dovrebbe
rappresentare, nel terzo si compie addirittura il sommo sacrilegio di farla
diventare un qualcosa che dovrebbe costituire la sua stessa negazione, cioè un
luogo comune. Se la cultura è approfondimento, lo scavare a fondo alla ricerca
dell'essenza d'un qualcosa, la paziente conquista dell'approssimarsi ad una
verità, ridurla a luogo comune è un'imperdonabile insolenza, una bestemmia.
Molti miei coetanei o giudilì che megliotardichemai scelgono di effettuare
escursioni nel mondo dell'arte o della cultura, sono spinti dalla moda del tempo
a coltivare un approccio muscolare; avvertendo l'esigenza di colmare un vuoto
tentano di forzare i tempi, cercando possibili scorciatoie ... 7 kg in 7 gg.,
impara l'inglese in un mese ... dunque in men che non si dica ci si può
riconvertire intellettuali. Ma sui palestrati della cultura, causa eccessivo
tedio, è meglio far (ri)flessioni una prossima, che si è fatta una certa.