17/5/2014 ● Cultura
Il bene del teatro
Le dichiarazioni di Albertazzi nell'interessante articolo pubblicato in
"Solitudini d'autore" - e ribadite brevemente nel corso dell'intervista da Fazio
- sono senz'altro da sottoscrivere. C'è tuttavia una nota stonata, che
desidererei ascoltiate ... vado a riprodurla. Queste doglianze, espresse in una
forma ben più caustica, tipica del suo stile, le esternava qualche lustro fa
Carmelo Bene. E fin qui chissenefrega, direte. Ok, so che l'interesse per il
teatro scema, scemi noi ad aver smarrito il senso della sua importanza. Ma
avendo avuto fin dall'adolescenza il privilegio d'essere spettatore di questa
"accresciuta realtà" ("teatro significa vivere sul serio quello che gli altri,
nella vita, recitano male" Eduardo), in casa mia per giunta, credo doveroso
dedicare una frazione delle mie possibilità per tributarle, appunto, l'emerita
importanza. Tornando alla stonatura, Bene non si limitò alla denuncia ma fornì
un supporto teorico a quanto asseriva, un'esposizione organica in cui dava conto
d'ogni singolo aspetto che riguardasse la sua idea di teatro. Ebbe più volte
modo d'illustrare - lo ricordo ospite di Bagnasco in Mixer Cultura e di Costanzo
in due distinti "Uno contro tutti", che potete trovare su Youtube - quale fosse
la sua idea di teatro, frutto di un'esistenza spesa davvero per seguire questa
sua passione: da qui la repulsione verso la critica, parte dell'aspetto
istituzionale del teatro, odiata anche perché composta da parvenus, spesso
critici letterari prestati ad un mondo che non conoscevano affatto.
Il teatro coitale-amministrativo cui allude A. è, secondo le categorie beniane,
il teatro di rappresentazione. Altrove ho già avuto modo di far cenno ad uno dei
rari limiti della nostra lingua, che assegna all'attore il compito di recitare,
ovvero di citare nuovamente un testo a cui, dunque, mostrarsi più o meno fedeli.
Siamo nei confini della mera rappresentazione, appunto, come in occasione delle
feste paesane o della Via Crucis, non c'è nulla dell'evocativo che il teatro
dovrebbe inscenare. In altre lingue l'attore "gioca con" il testo (non si
confonda il gioco con lo scherzo, cosa serissima l'uno e infantile l'altro). E
difatti CB non utilizzava il testo a monte ma la scrittura di scena, una
reinterpretazione del testo originale ad uso e consumo dell'agere della macchina
attoriale (protagonista assoluto della scena, non dipendente dai testi, egli
"agisce" in un tempo non cronologico, ma nell'aion degli Stoici, una sorta di
dilatazione/sospensione del presente, in cui l'azione si perde nell'atto.
Operando una brutale semplificazione, Bruto e Cassio uccidono Cesare: il perché,
il come e ogni altro particolare dell'azione si disperde in mille rivoli -
nell'eterno divenire chi può dirsi pienamente autore delle proprie azioni? -
mentre, monumentale, resta l'atto. A me sembra esservi un'affinità con la foto:
un istante che sottraiamo al decorso del tempo e che, pur apparendoci statica,
ci racconta qualcosa del prima e del dopo). Solo così è possibile mettere in
scena un teatro del dire, anziché del già detto.
La complessità del supporto teorico a fondamento del suo teatro, come potete
intuire, è tale che non v'è spazio né la presunzione necessaria per poterla qui
rappresentare. L'unica cosa che mi è consentito fare in queste poche righe è
dare un ritratto, mediante poche brevi pennellate, d'uno di quei rari
intellettuali artefici di se stessi, rifuggendo egli da categorie e tentativi di
classificazione: non a caso è stato inserito tra i Classici Bompiani quand'era
ancora in vita e in Francia, accomunato nell'identica sorte al fior fiore dei
nostri intellettuali bistrattati in patria, è stato oggetto di indagine
(intellettuale) dai vari Deleuze, Klossowski ... La sua speculazione
intellettuale ha investito vari campi della cultura ... letteratura, filosofia,
filologia, musica, pittura, cinema, dimostrando d'essere un onnivoro fruitore ma
anche di possedere un eclettico talento, sempre innovando, in qualsiasi campo
abbia applicato il suo talento. La radicalita' del suo pensiero trova pochi
uguali. Pur con evidente approssimazione, CB è stato per il teatro quel che
Nietzsche ha rappresentato in filosofia, o in letteratura Joyce col suo
"Ulisse". Suo precursore, solo teorico dacché non ha avuto modo di mettere in
scena le sue idee, Artaud (che Albertazzi, aggettivando, inserisce nel teatro
della masturbazione ... ahi ahi!), a sua volta ispirato dal teatro orientale, in
particolare quello balinese. Come agli albori in Occidente - A. cita l'orfismo
nella tipologia teatro dell'orgia, dell'eros - quello orientale è un teatro
evocativo, in cui al testo, se c'è, è riconosciuta la stessa importanza delle
luci o d'un singolo elemento della scenografia, della danza, della vocalità.
Sebbene tristemente occidentalizzato, anche il Giappone ha conservato le
prerogative del teatro Kabuki e del No.
Tralasciando per un momento le teorizzazioni, mi riservo poche righe per
descrivere la suggestione che il teatro, non sempre per l'appunto, mi ha
regalato. Si spengono le luci e si apre il sipario ... la quarta parete: da un
altrove, un non-luogo, qualcuno-qualcosa mi parla, mediante un linguaggio
evocativo, che non fa uso di parole ma di strumenti comunicativi per i quali non
occorre la mediazione della mente ... parlano all'inconscio, la parte di noi che
non conosciamo e su cui il grande teatro apre il sipario. E' un'esperienza
vissuta grazie, ad esempio, ad "Aspettando Godot", a non mi ricordo quale pièce
di Mishima e, ovvio a questo punto, all'Amleto di CB (pervertito in Laforgue,
amava dire): ricordo l'uso dell'amplificazione tale da non rendere distinguibili
le parole, eppure i virtuosismi della timbrica erano chiavi d'accesso per una
diversa comprensione. Un teatro di rappresentazione, che replichi la realtà
ordinaria, a cosa serve? Ad intrattenere? Pettegolezzi e barzellette già lo
fanno. Ascoltare, da una viva voce impostata, il pressoché identico testo d'un
classico, più che teatro è un audiobook supportato dal video in tempo reale.
A. auspica il ritorno al teatro dell'eros, orfico, orgiastico (ed elogia il
Living Theatre ma non cita Bene, arihaihaihai!). Su questo punto CB ha delle
precisazioni da fare (ché, se non si fosse ancora capito, non è il sottoscritto
a muovere appunti verso A. - e si guarderebbe bene dal farlo - essendo invece un
mero strumento dell'indagine intellettuale d'un genio ancora vitale). L'eros
rientra nello squallido meccanismo che coinvolge il desiderio, dunque l'io.
L'orfismo proruppe nell'ambiente religioso-culturale greco portando la
rivelazione dell'esistenza d'un io più antico (varie versioni della mitologia
raccontano di Dioniso fatto a pezzi dai Titani ecc...), immortale dunque divino:
l'anima. Già ho avuto modo di riferire della nascita del teatro proprio dalla
matrice del culto dionisiaco. Dunque è all'anima che il teatro deve rivolgersi
e, per farlo, occorre che utilizzi strumenti diversi da quelli convenzionali,
idonei per l'io-corpo - o io-terreno. CB metteva in scena l'altrove, l'o-sceno,
ciò che dimorava fuori dalla scena perché estraneo alla logica del senso (che
forse la vita è comprensibile?) delle parole da inseguire*, dei desideri dell'io
da realizzare** (a me fa venire in mente il Cristo di "non sono venuto a portare
la pace, ma la guerra", parole evocanti un senso che dimora altrove). L'orfismo
predicava il raggiungimento dell'estasi mistica, l'essere fuori di sé per
dialogare con la parte divina, così nel teatro si chiede allo spettatore di
abbandonarsi, di assistere ad un qualcosa che non sarà in grado di raccontare.
Ma non è un teatro dell'eros, caro A., ma del porno (da non confondere con la
pornografia), che è il superamento del desiderio, dunque dell'io: è la voglia
della voglia, cioè non di un soggetto ma d'un soggetto che si perde
nell'oggetto.
Lo so, gioverebbe ad una maggiore comprensione il possesso di preventive nozioni
di filosofia. I tre assiomi di Gorgia, ad esempio: 1) Nulla esiste 2) Ammesso
che qualcosa esista non potremo mai conoscerlo 3) Ammettendo d'essere in grado
di conoscerlo, non avremmo possibilità di comunicarlo. Aiuterebbero anche le
considerazioni di Wittgenstein sul rapporto di isomorfismo (struttura
corrispondente) tra realtà, pensiero e linguaggio. Termini astrusi tralasciando,
il ragionamento-base è intuitivo: nonostante l'immane sforzo - e a dispetto
della corrispondenza tra le strutture - la nostra mente non riuscirà mai a
catturare l'intera realtà codificandola in pensieri, ma una mera porzione di
essa; ad un risultato ancor più misero giunge il linguaggio, che riesce a
codificare solo una parte dell'attività della nostra mente. La scollatura tra
linguaggio-pensiero-realtà, l'inadeguatezza delle parole, ci consentono di poter
affermare che non parliamo ma siamo parlati, il potere che la parola ha su di
noi è maggiore di quello che noi esercitiamo su di essa. La stessa cultura
riveste una funzione di potere sulle menti, che da essa vengono colonizzate (la
radice è comune), e che la stessa deve con-vincere. Dunque, per comunicare
porzioni di realtà non catturate dal linguaggio bisogna servirsi di altri canali
o dello stesso linguaggio ma evadendo dalla logica della comprensione: "non so
spiegarlo, quindi scrivo una poesia", disse una volta qualcuno.
Provocazioni a parte, il pensiero di questo gigante va inteso quale monito per
evitare le trappole che alle nostre menti noi stessi tendiamo. In campo
teatrale, pur non essendoci dei CB, qualche seme pare abbia attecchito: Timi lo
vede come un maestro, Rezza s'ispira ad Artaud quindi ..., il compianto Demetrio
Stratos condusse studi sulla voce simili al Maestro (aventi sempre Artaud quale
primigenio ispiratore). Fa piacere ascoltare un A. sulla stessa lunghezza d'onda
del Genio, tirandosi fuori, a 90 oltrepassati, dalla miseria di quel teatro
amministrativo di cui, a detta di Bene, era lui stesso sommo rappresentante: con
l'irriverenza che era solito praticare, nel corso di un'intervista dichiarò
d'aver chiamato i suoi due cani, appunto, Albertazzi.
Dall'insieme di parole che sopra ho cucito vengon fuori concetti astrusi, di
difficile comprensione, è indubbio. Che il percorso della fede non ci pone forse
di fronte a similari astrusità, in cui spesso la logica non c'è d'aiuto ("in
teologia si danno solo domande")? E il teatro, ribadisco, nasce dai riti
religiosi antichi: alle cerimonie con un unico officiante ed il coro si aggiunge
l'attore (ypocrites=spiegare cosa c'è sotto) ovvero la dialettica (già, quel
dialogo che è componente dei rapporti interpersonali e che oggi diamo per
scontato è un'acquisizione culturale relativamente recente). Tornando ad
evidenziare le affinità, motivi analoghi a quelli per cui si va in chiesa
dovrebbero spingerci a frequentare il teatro; anzi, ancor prima di sperare di
udire una voce divina e rivolgerci al cielo, occorrerebbe indagare noi stessi,
tentare di comprendere chi siamo, prestare ascolto a quelle voci che
quotidianamente ci parlano (ad esempio, mi appresto ad inviare questo scritto ma
nonsochi mi dice "lascia perdere, non interessa a nessuno, ti prenderanno per un
saccente saputello che chissà cosa vuole dimostrare"; quella voce che ci
contraddice a prescindere da qualsivoglia decisione stiamo per prendere, sapete
voi spiegarmi, per favore, chi è?). Chissà, magari un giorno metteremo a frutto
l'intuizione d'aver sprecato tempo a cercare altrove quel che già dimorava entro
le nostre stesse mura.
*Non domandarmi la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" (Montale, da "Non chiederci la parola")
**Il desiderio è come una fiamma che brilla, e ciò che ha toccato non è che
cenere, - polvere leggera che un po' di vento disperde - pensiamo dunque
soltanto alle cose eterne.
(Calderon, da "La vita è sogno")