14/4/2014 ● Cultura
Poveri ma belli
Già, come nel film di D.Risi: Oscar a "La grande bellezza" e Fazio - da gran
paraculo - fa un Festival a tema, in cui Crozza interviene con un monologo
"liberamente ispirato" al Benigni invitato al Parlamento europeo. Entrambe
testimonianze del genio italico, sì ... dei nostri avi, però. Da un lato il
monologo ad evidenziare la nostrana provenienza d'un gran numero di tessere di
quel puzzle che è la civiltà odierna, Sorrentino invece opera un impietoso
contrasto tra il disperante nichilismo di questa e le operose società dei nostri
avi, fratelli maggiori da cui tanto avremmo da imparare.
Tema del film a parte, mi solletica il ritorno della Bellezza sotto i riflettori
dopo i tempi de conlaculturanonsimangia. Pur volendo ignorare di Tremonti
l'ignoranza, bisogna però ammettere che noi italiani soffriamo d'una congenita
bulimia di fronte a quell'invitante cibo che è il Bello, ci sentiamo come ospiti
di Pantagruel anziché - ché così dovremmo - come Pinocchio nel Paese dei
Balocchi. Già, talmente immersi in Esso da non farVi più caso. E la
considerazione, badate, ha una pezza d'appoggio quasi-scientifica. Un altro film
nostrano ha reso nota ai più quell'affezione psicosomatica denominata "sindrome
di Stendhal", dalla quale noi italiani, appunto, siamo immuni. Sarà perché è
elemento del nostro habitat il Bello, miscelato con l'aria che respiriamo? Ma
sì, siamo come quei sex-symbol che, avvezzi a veder cadere donne ai propri
piedi, abbandonano quel vezzo - poco elegante eppur genuino - di voltarsi
istintivamente al passaggio d'una bella fanciulla (col fischio o senza? ... si
chiederebbe Pierino).
Qualora l'infrazione restasse confinata nell'ambito della liturgia del gallismo,
poco male; se invece la nota - stonata - di folclore si tramutasse in
disaffezione amorosa, nel distacco da quel sentimento che è evocazione del
divino, la spiritualità tutta d'un popolo rischierebbe l'evanescenza. E sì,
perché l'attrazione che istintivamente proviamo nei confronti del Bello proprio
su tale ricerca si fonda, è odore di divinità quel che percepiamo di fronte ad
un bel viso o, a rischio di svenire, quando si è sovrastati dalla Cappella
Sistina. Guai se un popolo si mostrasse insensibile all'arte e alla cultura,
patirebbe le stesse conseguenze dell'individuo affetto da atarassia, incapace di
declinare passioni. E' interessante notare invece come il sano stupore a cui la
Bellezza induce richiami per affinità l'estasi, l'essere fuori da sé, in
congiunzione col Divino. E l'affinità s'estende alla forma, ovvero al linguaggio
... si pensi all'assonanza tra gli aggettivi estetico-estatico (le Muse ad
evocare l'uno, la Grazia l'altro). E se in genere tutti mostriamo di possedere
un'innata propensione ad individuare il Bello, v'è una sottospecie di uomini che
per tale indagine mostra d'avere una spiccata attitudine, una sorta di
superpotere: riescono a scovarLo nei posti più impensati e ... magia! ... sono a
conoscenza di segrete alchimie per crearLo, in aperta concorrenza col Divino.
La prerogativa dell'artista (in realtà in ogni uomo se ne nasconde uno ... chi
cerca trova) è il possesso del cd "dominio estetico", quel quid che occorre per
far emergere forza e conoscenza da vertigine e confusione ingenerate
dall'incontro con la Bellezza. La sua ricerca del Bello si sostanzia nel
tentativo, con un gesto, di materializzare la forma divina, dunque è il segno di
Dio sulla materia. Insomma, un'opera può dirsi "d'arte" quando appare credibile
che, tra i possibili autori, Dio sia tra i papabili. E' bene tuttavia precisare
che la Bellezza è appannaggio dell'anima, qualcosa di irraggiungibile nella
sfera materiale, è intuizione spirituale a cui il corpo può solo aspirare quale
ideale. E val la pena altresì di emanciparsi dal luogo comune - quindi
dall'interpretazione superficiale - che la dipinge come qualcosa di attinente la
forma anziché il contenuto: la Bellezza è vita ideale, armonia, è l'attributo di
ogni ideale ... l'onestà, l'amore, la bontà sono Bellezza.
Tornando al premio Oscar, un famoso critico ha così commentato: "Roma è la
Grande Bellezza in quanto città eterna, per la gloriosa storia umana che
incarna". Beh, è giusto ma, a voler fare i precisini, credo abbia rovesciato i
termini della proposizione: Roma assurge a città eterna in virtù della sua
Grande Bellezza. Qui, tuttavia, l'eternità va intesa in un'accezione che
l'attributo di "classico" restituisce con maggior efficacia: la Bellezza dimora
in un altrove che è fuori dal tempo. Una statua di Fidia o di Michelangelo, la
Gioconda, oppure la Divina Commedia o l'Amleto sono dei classici, capolavori
fuori dal tempo del loro concepimento, non conoscono contemporanei perché si è
sempre contemporanei di quei capolavori, e pur senza averli mai visti/letti
fanno parte di noi ... come Roma, in cui tutti sono stati, pur senza muoversi da
casa.
Altro luogo comune da sfatare, l'astrattezza. Il moderno positivismo impone
valutazioni secondo utilità: per raggiungere l'orizzonte di Bellezza percorriamo
itinerari che appunto ci consentono l'incontro con gli ideali sopra citati. Ma
per comprendere meglio quanto essa sia esercizio di pratica quotidiana, basti
pensare all'intreccio con l'etica - uno degli argomenti principe della filosofia
- e, soprattutto, al primato che in tale endiadi detiene. Tutti noi siamo
portati a credere che il nostro comportamento, le azioni e le decisioni che
intraprendiamo, siano dettate dall'etica. In realtà ciò che sentiamo di dover
fare sovente coincide con quel che ci piace fare. Anche laddove il nostro
contegno sembra relazionarsi tipicamente ad un giudizio morale, è possibile
verificare quanto invece l'etica sia influenzata dall'estetica. Pensiamo allo
scontro di civiltà occorso in America, tra una società strutturata sulla
proprietà individuale - dunque sull'avidità - e il cui Dio ha sempre in serbo
per il Suo popolo una terra promessa (facendo dei palestinesi degli abusivi), e
i Nativi che intendono la Natura come manifestazione del Grande Spirito, che da
Essa attingono quanto gli è strettamente necessario (quanto fiato sprecato a
spiegar loro come un pezzo della stessa possa essere ad esclusiva disposizione
d'un singolo!). Dei Nativi si è fatta strage in quanto reputati selvaggi.
Perché? Beh, oltraggiavano i morti praticando il cd. decalvamento (noi
occidentali, durante la guerra franco-inglese, avevamo insegnato loro la pratica
di prendere lo scalpo onde esser certi del numero di nemici uccisi da quelli che
all'epoca erano alleati, per ricompensarli in proporzione a tale macabra
numerazione). Una morale, quella dei visi pallidi, che non censurava tuttavia le
stragi di donne e bambini, come nell'episodio di Sand Creek poeticamente
tradotto da De Andrè. Da Cortes alle giacche blu, in un paio di secoli 80
milioni di selvaggi sono stati tradotti all'Inferno (nel Limbo, per essere
precisi, per la paradossale circostanza di non aver avuto modo di battezzarli)
per mano cattolica: poiché antiestetici, siamo ricorsi agli anestetici.
Ampia parentesi a parte, resta un interrogativo a cui forse poter dare risposta.
Di certo la Bellezza è concetto arcano, non addomesticabile da pensieri e
parole. Magari vi fosse qualcuno di cotanto capace, mi farei ad esempio spiegare
come riuscisse Velazquez ad evocarLa ritraendo soggetti brutti, addirittura dei
freaks. Abbandonata, causa impotenza, l'indagine sul "cos'è", possiamo provare
col "perché" del tentativo dell'arte di evocare la Bellezza. Già, perché
Michelangelo spende gran parte dell'esistenza a dipingere - in quella scomoda
posizione - la Cappella Sistina? Nel suo monologo sanremese Crozza cita a tal
proposito Goethe. Premesso che la domanda "qual è lo scopo dell'arte", posta a
diversi esponenti della storia dell'arte occidentale, darebbe luogo alle
risposte più disparate - compresa una disperante negazione - Goethe ha espresso
un pensiero che dà un senso a tutta l'arte orientale, in particolare a quella
giapponese (unico altro popolo immune alla sindrome prima descritta) così
diversa dalla nostra (una pittura quasi esclusivamente paesaggistica, un teatro
in cui il processo verbale è assente, il coinvolgimento delle più disparate
attività umane nel concetto di arte: fabbricazione di spade, vasi, il gesto
fisico ovvero l'arte di eseguire alla perfezione un solo gesto ecc.), che ad
esempio ci fa comprendere perché mai la stessa mano omicida d'un samurai venisse
educata a partorire bellissimi acquerelli o, ancora, le particolarità della loro
religione, lo Shintoismo: chi non ha visto almeno una volta la Cappella Sistina,
dice Goethe, non può comprendere di cosa sia capace il genio umano.
Ecco, noi uomini abbiamo bisogno di dimostrare a noi stessi ciò di cui siamo
capaci: come e quando - inopportunamente ma, ahimè, è inevitabile - daremo sfogo
alle nostre meschinità, l'arte sta lì a ricordarci che, solo volendo, siamo
capaci di dar corso ad una realtà migliore. Il Nazismo pone fine alla Repubblica
di Weimar, una sorta di Rinascimento tedesco durante il quale quella nazione
diventa il faro politico e culturale dell'Europa: ecco, un Diavolo e un Dio si
agitano nel nostro animo e ci sono avvenimenti, nella storia sociale o
individuale, che c'inducono ad evocarli, a turno. E accade, in modo a volte
repentino, di attraversare l'intero arco della forbice che misura la distanza
tra il peggio ed il meglio che siamo capaci di esprimere ... unico dato in
comune: l'impegno a tener viva la memoria di entrambe le possibilità, entrambe
divine, di creare o distruggere.
P.S.: Tutti i critici hanno tracciato un confronto con "La dolce vita". Pur
privo della loro autorevolezza, mi permetto di citare un'altra fonte di
probabile ispirazione per Sorrentino. All'interno del film "RO.GO.PA.G." (1963)
c'è l'episodio di PPP - a ridaje!, direte - "La ricotta", che narra delle
riprese di un film sulla Passione di Cristo, con alcune pose chiaramente
ispirate alle pale d'altare rinascimentali a cui fanno da contrasto altre scene
di pausa della troupe: qui le comparse ballano al suono di una radio ad alto
volume, quale simbolo della vacuità di valori dell'allora nascente società dei
consumi, vacuità posta in evidenza appunto dal confronto con la sacralità e
l'estetica delle scene del film che si sta girando. Nella parte del regista
Orson Welles, che legge una poesia di PPP ... l'esatta rappresentazione di
quello stato d'animo che Jep Gambardella avrebbe ben potuto esprimere nelle sue
passeggiate mattutine sul Lungotevere:
"Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più"
PPP