23/1/2014 ● Solitudini d'autore
"Internet è un dono di Dio", al servizio di un’autentica cultura dell’incontro
Cari fratelli e sorelle,
oggi viviamo in un mondo che sta diventando sempre più “piccolo” e dove, quindi,
sembrerebbe essere facile farsi prossimi gli uni agli altri. Gli sviluppi dei
trasporti e delle tecnologie di comunicazione ci stanno avvicinando,
connettendoci sempre di più, e la globalizzazione ci fa interdipendenti.
Tuttavia all’interno dell’umanità permangono divisioni, a volte molto marcate. A
livello globale vediamo la scandalosa distanza tra il lusso dei più ricchi e la
miseria dei più poveri. Spesso basta andare in giro per le strade di una città
per vedere il contrasto tra la gente che vive sui marciapiedi e le luci
sfavillanti dei negozi. Ci siamo talmente abituati a tutto ciò che non ci
colpisce più. Il mondo soffre di molteplici forme di esclusione, emarginazione e
povertà; come pure di conflitti in cui si mescolano cause economiche, politiche,
ideologiche e, purtroppo, anche religiose.
In questo mondo, i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni
agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana
che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa.
Comunicare bene ci aiuta ad essere più vicini e a conoscerci meglio tra di noi,
ad essere più uniti. I muri che ci dividono possono essere superati solamente se
siamo pronti ad ascoltarci e ad imparare gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno di
comporre le differenze attraverso forme di dialogo che ci permettano di crescere
nella comprensione e nel rispetto. La cultura dell’incontro richiede che siamo
disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri. I media possono
aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione
umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire
maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa
buona, è un dono di Dio.
Esistono però aspetti problematici: la velocità dell’informazione supera la
nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé
misurata e corretta. La varietà delle opinioni espresse può essere percepita
come ricchezza, ma è anche possibile chiudersi in una sfera di informazioni che
corrispondono solo alle nostre attese e alle nostre idee, o anche a determinati
interessi politici ed economici. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere
o, al contrario, a disorientarci. Il desiderio di connessione digitale può
finire per isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino. Senza
dimenticare che chi, per diversi motivi, non ha accesso ai media sociali,
rischia di essere escluso.
Questi limiti sono reali, tuttavia non giustificano un rifiuto dei media
sociali; piuttosto ci ricordano che la comunicazione è, in definitiva, una
conquista più umana che tecnologica. Dunque, che cosa ci aiuta nell’ambiente
digitale a crescere in umanità e nella comprensione reciproca? Ad esempio,
dobbiamo recuperare un certo senso di lentezza e di calma. Questo richiede tempo
e capacità di fare silenzio per ascoltare. Abbiamo anche bisogno di essere
pazienti se vogliamo capire chi è diverso da noi: la persona esprime pienamente
se stessa non quando è semplicemente tollerata, ma quando sa di essere davvero
accolta. Se siamo veramente desiderosi di ascoltare gli altri, allora impareremo
a guardare il mondo con occhi diversi e ad apprezzare l’esperienza umana come si
manifesta nelle varie culture e tradizioni. Ma sapremo anche meglio apprezzare i
grandi valori ispirati dal Cristianesimo, ad esempio la visione dell’uomo come
persona, il matrimonio e la famiglia, la distinzione tra sfera religiosa e sfera
politica, i principi di solidarietà e sussidiarietà, e altri.
Come allora la comunicazione può essere a servizio di un’autentica cultura
dell’incontro? E per noi discepoli del Signore, che cosa significa incontrare
una persona secondo il Vangelo? Come è possibile, nonostante tutti i nostri
limiti e peccati, essere veramente vicini gli uni agli altri? Queste domande si
riassumono in quella che un giorno uno scriba, cioè un comunicatore, rivolse a
Gesù: «E chi è mio prossimo?» (Lc 10,29). Questa domanda ci aiuta a capire la
comunicazione in termini di prossimità. Potremmo tradurla così: come si
manifesta la “prossimità” nell’uso dei mezzi di comunicazione e nel nuovo
ambiente creato dalle tecnologie digitali? Trovo una risposta nella parabola del
buon samaritano, che è anche una parabola del comunicatore. Chi comunica,
infatti, si fa prossimo. E il buon samaritano non solo si fa prossimo, ma si fa
carico di quell’uomo che vede mezzo morto sul ciglio della strada. Gesù inverte
la prospettiva: non si tratta di riconoscere l’altro come un mio simile, ma
della mia capacità di farmi simile all’altro. Comunicare significa quindi
prendere consapevolezza di essere umani, figli di Dio. Mi piace definire questo
potere della comunicazione come “prossimità”.
Quando la comunicazione ha il prevalente scopo di indurre al consumo o alla
manipolazione delle persone, ci troviamo di fronte a un’aggressione violenta
come quella subita dall’uomo percosso dai briganti e abbandonato lungo la
strada, come leggiamo nella parabola. In lui il levita e il sacerdote non vedono
un loro prossimo, ma un estraneo da cui era meglio tenersi a distanza. A quel
tempo, ciò che li condizionava erano le regole della purità rituale. Oggi, noi
corriamo il rischio che alcuni media ci condizionino al punto da farci ignorare
il nostro prossimo reale.
Non basta passare lungo le “strade” digitali, cioè semplicemente essere
connessi: occorre che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero. Non
possiamo vivere da soli, rinchiusi in noi stessi. Abbiamo bisogno di amare ed
essere amati. Abbiamo bisogno di tenerezza. Non sono le strategie comunicative a
garantire la bellezza, la bontà e la verità della comunicazione. Anche il mondo
dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità, ed è chiamato ad
esprimere tenerezza. La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non
una rete di fili ma di persone umane. La neutralità dei media è solo apparente:
solo chi comunica mettendo in gioco se stesso può rappresentare un punto di
riferimento. Il coinvolgimento personale è la radice stessa dell’affidabilità di
un comunicatore. Proprio per questo la testimonianza cristiana, grazie alla
rete, può raggiungere le periferie esistenziali.
Lo ripeto spesso: tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa
ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima. E le strade
sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e
affettivamente. Tra queste strade ci sono anche quelle digitali, affollate di
umanità, spesso ferita: uomini e donne che cercano una salvezza o una speranza.
Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare «fino ai confini
della terra» (At 1,8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle
nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di
vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e
uscire incontro a tutti. Siamo chiamati a testimoniare una Chiesa che sia casa
di tutti. Siamo capaci di comunicare il volto di una Chiesa così? La
comunicazione concorre a dare forma alla vocazione missionaria di tutta la
Chiesa, e le reti sociali sono oggi uno dei luoghi in cui vivere questa
vocazione a riscoprire la bellezza della fede, la bellezza dell’incontro con
Cristo. Anche nel contesto della comunicazione serve una Chiesa che riesca a
portare calore, ad accendere il cuore.
La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di messaggi religiosi,
ma con la volontà di donare se stessi agli altri «attraverso la disponibilità a
coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi,
nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana» (Benedetto
XVI, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali,
2013). Pensiamo all’episodio dei discepoli di Emmaus. Occorre sapersi inserire
nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i
dubbi, le speranze, e offrire loro il Vangelo, cioè Gesù Cristo, Dio fatto uomo,
morto e risorto per liberarci dal peccato e dalla morte. La sfida richiede
profondità, attenzione alla vita, sensibilità spirituale. Dialogare significa
essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo
punto di vista, alle sue proposte. Dialogare non significa rinunciare alle
proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute.
L’icona del buon samaritano, che fascia le ferite dell’uomo percosso versandovi
sopra olio e vino, ci sia di guida. La nostra comunicazione sia olio profumato
per il dolore e vino buono per l’allegria. La nostra luminosità non provenga da
trucchi o effetti speciali, ma dal nostro farci prossimo di chi incontriamo
ferito lungo il cammino, con amore, con tenerezza. Non abbiate timore di farvi
cittadini dell’ambiente digitale. È importante l’attenzione e la presenza della
Chiesa nel mondo della comunicazione, per dialogare con l’uomo d’oggi e portarlo
all’incontro con Cristo: una Chiesa che accompagna il cammino sa mettersi in
cammino con tutti. In questo contesto la rivoluzione dei mezzi di comunicazione
e dell’informazione è una grande e appassionante sfida, che richiede energie
fresche e un’immaginazione nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio.
Dal Vaticano, 24 gennaio 2014, memoria di san Francesco di Sales
FRANCESCO