29/11/2013 ● Solitudini d'autore
La liquefazione
Le reazioni su questo giornale (Il Foglio) di mons. Luigi Negri, di
don Francesco Ventorino e del prof. Massimo Borghesi, al mio articolo sulla “liquefazione
della Chiesa” (“Il Foglio”, 12 novembre 2013) mi impongono di tornare su una
questione di fondo del dibattito cattolico contemporaneo: quella riguardante la
definizione della fede, indubbio fondamento della vita cristiana.
Il dato di fatto da cui partire, e su cui spero anche i miei interlocutori
convengano, è il crollo della fede, verificatosi nella Chiesa negli ultimi
cinquant’anni. Inaugurando il 27 gennaio 2012 l’Anno della Fede,
Benedetto XVI si esprimeva in questi termini: “Come sappiamo, in vaste zone
della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova
più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del
senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il
rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa
intera ai nostri giorni”.
Ma l’Anno della fede si è chiuso – occorre dirlo – senza che si intraveda
in alcun modo una risposta forte delle autorità ecclesiastiche di fronte alla
crisi in atto. La stessa enciclica Lumen Fidei ignora in maniera
sorprendente questo drammatico problema. Ma cos’è la fede? La risposta a questa
domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I,
riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: la fede è l’adesione
della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità
di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono
contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa
con la morte dell’ultimo apostolo.
La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede
oggettiva e immutabile della Chiesa. In alcuni casi tali verità oltrepassano la
nostra ragione e sono dette misteri. I due misteri centrali del Cristianesimo
sono la Trinità e l’Incarnazione del Verbo. Essi sono superiori alla nostra
ragione, ma non le si oppongono. Crediamo queste verità perché ci sono rivelate
da Dio. Ma l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità
filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione, così come può essere
dimostrata dalla ragione l’esistenza e l’immortalità dell’anima.
La fede interessa non solo la teologia, ma la filosofia, come mostra bene
Antonio Livi (si veda ad esempio il suo Razionalità della fede nella
rivelazione, Leonardo, Roma 2005). L’inconoscibilità della natura di Dio non va
confusa con la certezza razionale della sua esistenza. Solo dopo aver assodato
che Dio esiste possiamo credere in Lui e nella sua rivelazione. Per questo
sant’Agostino dice che dobbiamo “Credere Deum, Deo, in Deum”, cioè credere Dio
come oggetto della fede; credere a Dio come motivo della fede; credere in Dio
come suo fine.
Lutero per primo stravolse il concetto tradizionale di fede. L’uomo,
integralmente corrotto dal peccato originale, è per lui incapace di conoscere il
vero e amare il bene. La fede non consiste nella ragione e nella volontà,
imputridite dal peccato, ma nella “fede fiduciale”, che nasce da un sentimento
di disperazione profonda ed ha il proprio oggetto nella misericordia di Dio,
invece che nelle verità da lui rivelate. Appellandosi a questa visione pietista
e individualista della fede, Lutero e suoi continuatori fanno dell’esperienza
religiosa l’unico criterio della vita cristiana. In tutta la tradizione
evangelico-protestante la religione è vista come un “incontro” salvifico con
Dio, in cui la fede soggettiva assorbe e dissolve quella oggettiva.
Nella Esquisse d’une philosophie de la religion (1897) di Auguste
Sabatier (1839-1901) arriva a compimento la riduzione protestante della fede a
sentimento. L’atto di fede è inteso come incontro con la potenza oscura e
misteriosa da cui l’anima dipende e da cui dipende il suo destino. Tutto ciò che
è dogma e riflessione teologica non è altro che la trascrizione simbolica di
un’esperienza religiosa collettiva in continua evoluzione.
Negli stessi anni in cui appare l’opera di Sabatier, Maurice Blondel (1861-1949)
pubblica l’Action (1893), prima espressione di quella filosofia dell’azione che,
con il protestantesimo liberale, costituisce il retroterra immediato del
modernismo. Secondo Blondel l’azione, e non il pensiero, attinge la verità
dell’essere.
La massima tradizionale secondo cui “agere sequitur esse” viene capovolta:
l’azione precede l’essere e l’uomo trova la verità e la stessa fede nell’azione.
L’azione è la sintesi del pensare e dell’agire, il vincolo tra il pensiero e
l’essere. Blondel vuole dunque sostituire alla apologetica tradizionale, che si
propone la dimostrazione razionale delle verità del Cristianesimo, una nuova
apologetica basata sul principio di immanenza. Il metodo dell’immanenza pretende
di trovare la verità della religione e dei misteri della fede partendo dalla
coscienza dell’uomo, dai suoi bisogni, dalle sue aspirazioni, da tutto ciò che
sgorga dalla sua esperienza di vita.
Tesi analoghe erano espresse dal teologo del modernismo George Tyrrell
(1861-1909), che dopo essersi convertito dal protestantesimo al cattolicesimo
entrò nella Compagnia di Gesù, ma presto ne contestò l’insegnamento. Anche per
Tyrrell, la religione è un’unione del cuore con Dio che fa a meno della verità
dei dogmi. Il Dio di Tyrrell, come quello di Blondel, è immanente alla
coscienza, che lo riconosce nella propria esperienza religiosa. Non è la verità
a determinare l’esperienza, ma l’esperienza a costituire il criterio supremo
della verità. “Trait d’union” tra Blondel e Tyrrell fu Henri Brémond
(1865-1930), anch’egli gesuita, insofferente della disciplina e
dell’insegnamento della Compagnia.
La corrispondenza tra Brémond e Tyrrell è istruttiva a questo proposito (Lettres
de George Tyrrell à Henri Brémond, Aubier, Parigi 1971). Brémond, in preda a
crisi di nevrastenia, confidava a Tyrrell di voler lasciare i gesuiti per
vivere, come Tyrrell, con un’amante. Il suo ideale – scriveva – sarebbe stato
quello di una “vita clericale adogmatica”. Tyrrell risponde al confratello di
essere prudente e di abbandonare la Compagnia senza precipitare le cose.
Quando qualche anno dopo Tyrrell morirà, dopo essere stato scomunicato da san
Pio X, Brémond sarà al suo capezzale e, seguendo i suoi consigli, vivrà poi nel
mondo come un semplice sacerdote cripto-modernista, intraprendendo una carriera
letteraria che lo porterà all’Académie française. La sua poderosa Histoire
littéraire du sentiment religieux en France (1915-1933, 11 volumi), già nel
titolo riassume le tesi degli amici Blondel e Tyrrell: la fede ridotta a
intuizione poetica, esperienza di vita mistica che vanifica ogni verità
dogmatica.
Tra i diretti continuatori di questa linea di immanenza vitale fu il padre Henri
de Lubac (1896-1991), anch’egli, come Brémond e Tyrrell, appartenente alla
Compagnia di Gesù, ma a differenza di loro gesuita fino all’ultimo giorno della
sua vita. De Lubac, come Blondel, pone nella coscienza dell’uomo la possibilità
di incontrare Dio con le proprie forze, distruggendo la fondamentale distinzione
tra l’ordine naturale e quello soprannaturale.
Il cardinale Siri, in Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico
Contemporaneo (Fraternità della Santissima Vergine, Roma 1980), ha ampiamente
confutato questi errori teologici. Pio XII, con l’enciclica Humani generis
(1950), condannò le tesi di de Lubac e degli altri esponenti della nouvelle
théologie progressista, ma dopo la sua morte furono proprio loro i protagonisti
del Concilio Vaticano II, a cui diedero l’orientamento di fondo. De Lubac fu
creato cardinale da Giovanni Paolo II ed è oggi citato spesso da Papa Francesco,
anche se pochi ne hanno letto le opere, criptiche e prolisse.
Negli anni del postconcilio, de Lubac appartenne all’ala “moderata” della nuova
teologia progressista. Ma la sua moderazione, più che nel contenuto, è nei toni.
Basta paragonare il suo diario del Concilio Vaticano II a quello del domenicano
Yves Congar, per rendersi conto della differenza tra il suo linguaggio misurato
e quello violento e spesso grossolano di Congar. Ciò non impedì a de Lubac di
essere un entusiasta ammiratore e divulgatore delle opere del suo confratello
Pierre Teilhard de Chardin, una delle figure estreme dell’eterodossia cattolica
del Novecento, verso cui lo stesso Blondel aveva manifestato delle riserve.
De Lubac apparteneva a quella categoria di uomini che detestano le conseguenze
delle proprie idee. Criticò il disfacimento postconciliare, ma non volle
ammettere che le radici di quanto accadeva stavano proprio negli errori della
nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra i promotori della rivista “Communio”, e don
Luigi Giussani, che negli stessi anni lanciava Comunione e Liberazione, lo
riconobbe come un suo maestro. I discepoli di don Giussani protestano quando gli
attribuisco una equivoca nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi
accusa su “Avvenire” di dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.
Invito a leggere il libro di don Giussani, Un avvenimento di vita cioè una
storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del
cardinale Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste
e gli appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il
1976 e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità
di fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma
alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale.
Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né
l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che
cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p.
339).
Comunione e Liberazione nasce da una “intuizione del Cristianesimo come
avvenimento di vita e quindi come storia” (p. 349). “Il metodo consiste in
questo: che l’intuizione diventa esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui
si vede se ciò che è intuito vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare
Cristo, riconoscere la sua presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è
Cristo? La risposta ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema
di fondo è che, al di fuori della tautologia dell’incontro, Cielle non è andata
e non potrà mai andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a
pura esperienza ed esigenza dello spirito.
Il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa,
incomunicabile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono
l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza
dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita
cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della
realtà. Ma l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale
della fede, ma la presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade
l’apologetica e tocca alla vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la
dimostrazione dell’esistenza di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza
religiosa però ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al
magistero.
Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del
cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità.
L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte
dalla rivelazione.
Per i modernisti di oggi, come per i protestanti di una volta, la fede
appartiene alla sfera affettiva e irrazionale. L’oggetto della fede, le verità
credute, diventa secondario. Si rigetta in blocco il realismo greco-cristiano,
negando valore al Logos, ai primi princìpi della ragione e al primato della
metafisica. Ciò che conta è l’esperienza individuale del credente, quello che
egli vive nella sua sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene
l’unica esperienza della vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della
vita della Grazia.
Questa “esperienza di fede” rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella
convinzione che ciò che è assoluto divide e solo ciò che muta e si adatta può
unire gli uomini tra loro e a Dio. In questa religione dell’umanità
caratteristica dei nostri tempi l’affermazione netta della verità è un atto di
intolleranza verso il prossimo e il compromesso tra la fede e il mondo diviene
il modello di ciò che definito “incontro” con Dio. La fede però non è irenica:
si alimenta con lo studio, con la discussione, anche con la polemica. Quando si
discute con passione, vuol dire che si crede e il calore della polemica è
talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si crede. Ma all’interno dello
stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?
Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un
criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità
dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio
e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza
dall’assoluto. E’ esperienza religiosa quella di un buddista immerso nel
Nirvana? De Lubac pensa di sì e forse anche alcuni discepoli di don Giussani.
Ogni errore ha delle conseguenze.
La scarsa sensibilità liturgica di Comunione e Liberazione non è casuale. La
massima della Chiesa secondo cui la lex orandi traduce la lex credendi
presuppone l’esistenza di una integra e coerente dottrina, di cui la liturgia è
visibile espressione. Ma se la dottrina è assorbita dalla vita, la liturgia non
può che essere condannata all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale
presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali. E il tanto
bistrattato “tradizionalismo” non è altro che questo: amore alla verità della
Chiesa in tutte le sue espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e
sociali.
I cosiddetti “tradizionalisti”, che sono solo cattolici senza compromessi, si
richiamano all’insegnamento immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere,
ma credono nella Regalità sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a
regnare su ogni uomo e sulla società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si
rifanno è quella di coloro che testimoniarono col sangue la loro visione
cristiana della società, come i Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico.
Nulla a che fare con l’amoralismo politico di cui negli anni Cielle ha dato
prova. Sarebbe vano cercare un filo conduttore negli ospiti illustri del Meeting
di Rimini, dalle sue origini ad oggi: personalità di destra e di sinistra,
conservatori e progressisti si sono alternati e si alternano in una passerella
del potere, che se è priva di continuità intellettuale e politica, non manca di
intima coerenza nel suo radicale pragmatismo.
Il lungo idillio di Comunione e Liberazione con Giulio Andreotti deve far
riflettere. Andreotti fu l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la
filosofia della prassi ciellina e la politica della prassi andreottiana,
l’incontro era obbligato. L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a
firmare, nel 1978, la legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi
razionali e dai “valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque
avventura. Così oggi Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini
alle coppie gay, non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si
ispira.
Il prof. Massimo Borghesi ritiene che negli anni Settanta, fu “la pedagogia
dell’esperienza” di CL e non il tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io
ritengo invece che Comunione e Liberazione abbia semplicemente intercettato la
parte sana del mondo cattolico rimasta “orfana” negli anni bui del postconcilio,
senza essere in grado di dare a questi giovani gli strumenti teologici e
filosofici di cui avevano bisogno, a cominciare da una retta nozione di fede.
Molti di essi, oggi non più giovani, erano e sono di ottima qualità ed è
soprattutto a loro che mi rivolgo quando affermo che Comunione e Liberazione non
ha costituito un argine alla crisi della fede dei nostri giorni, ma ha
contribuito all’infiacchimento della fede e alla sua crisi attuale, senza negare
naturalmente le buone intenzioni di nessuno e con il massimo rispetto per i miei
interlocutori, a cominciare da mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e
amicizia.
Roberto de Mattei (Il Foglio del 26-11-2013)