13/8/2013 ● Cultura
Identità e appartenenza
E’ dalla lettura dell’amara constatazione contenuta nell’articolo “Mi (ri)conosco”
del 4/6 che m’ero ripromesso di proporre una riflessione sul tema della
comunità. L’assenza dei giovani, la vacanza delle fresche generazioni che
scelgono di non “essere parte” della celebrazione del Santo Patrono – effige che
testimonia la sacralità dei valori comuni fondanti, appunto, la “comunità” –
sono un grave sintomo d’una “guglionesanità” che non gode di buona salute. So
d’apparire monotematico, ma anche e soprattutto su tale fronte il deficit è
culturale.
Riguardo a tale tema colgo l’occasione per precisare la portata d’una mia
precedente osservazione – polemica solo in superficie e che solo gli allocchi
avranno interpretato come inutilmente dissacrante - relativa al culto (n.b.:
stessa radice di cultura) dei santi.
Per tale culto la Chiesa opera una deroga all’ortodossia, alla “regola” (la
Bibbia vieterebbe altresì l’idolatria), pur di venire incontro alle esigenze
della pratica della fede, che va “coltivata” – radice comune di cultura/culto.
Essa acconsente al profano, alla ritualità pagana, riconoscendo le istanze
provenienti dal basso relative ad un riconoscersi in usi consacrati in riti che
provengono da un “prima” del cattolicesimo stesso: l’equivalenza di veri e
propri istituti di democrazia diretta in materia religiosa.
Le risposte alle questioni “chi sei?” e “a quale gruppo appartieni?” vanno
cercate nella cultura antropologica: una comunità è fatta da individui che
esprimono una comunanza di usi, lingua, valori e religione. Tra questi 4 fattori
l’ultimo è peculiare, è … per così dire … il più esigente: stabilire che si
faccia parte d’un gruppo perché si fanno abitualmente certe cose, si parla lo
stesso idioma e si crede a e si perseguono gli stessi obiettivi è conclusione
prevedibile.
E’ la religione a richiedere un quid pluris, ovvero il sentirsi parte d’un
medesimo sistema di rappresentazione della realtà trascendentale. E’ come se una
comunità compisse collettivamente un atto di fede, espandendo le capacità
identitarie al di là di quel che il contesto oggettivo consentirebbe: dunque una
comunità sceglie di utilizzare la medesima bussola anche per orientarsi nel
mondo dell’imponderabile.
D’altronde è la stessa etimologia a rivendicare un tale proposito: religare,
ovvero legare, vincolare.
Ma al di là dell’etimo, dell’obiettivo perseguito dall’istituzione fondata da/su
Pietro, la religione reca con sé un’insieme di usi, simbologie e ritualità
fortemente radicate nel sistema sociale e culturale identitario degli individui:
c’è un riconoscimento di fondamentali asset culturali, direbbe qualcuno avvezzo
al moderno linguaggio; maccheronicamente, è questa cultura che viene dal basso
ad esprimere di che pasta siamo fatti.
Piantato l’ultimo paletto, affrontiamo il nodo della questione.
Luigi in quell’articolo evidenziava un raffronto, che ci fa impallidire, con le
celebrazioni di S.Basso e S.Leo, consapevole della componente che marca la
distanza: l’importanza ivi attribuita all’ingrediente della ritualità pagana
conferisce una marcia in più alla celebrazione, una “religiosità popolare” che
diventa a pieno titolo fenomeno di antropologia culturale.
In esso il popolo si autoattribuisce il ruolo di attore protagonista: non è
forse una recita collettiva quella che va a inscenarsi nel corso dei
festeggiamenti (qui va sottolineato un raro limite della nostra lingua, che –
con “recitare” - allude ad un citare un copione già scritto: con maggior
proprietà di linguaggio, il francese “jouer avec” o l’inglese “to play with” –
ma anche il russo e il tedesco - fanno riferimento al giocare come
reinterpretazione, riadattamento continuo del testo originale, pur
nell’osservanza d’un canovaccio d’antica elaborazione)?
Non a caso il teatro nasce da misteri (di Osiride in Egitto) e riti sacri
(dionisiaci in Grecia, in cui ad un certo punto all’unica figura dell’officiante
si aggiunse l’hypocrita, ossia l’attore, e con esso il dialogo).
Occorre qui da noi riappropriarsi di tali spazi, di un palcoscenico che attende
d’essere calcato nuovamente dalla comunità – che da sempre lo ha frequentato,
per secoli.
Tener presente da dove si viene per scoprire chi si è, a quale gruppo si
appartiene, sarà perché assunto banale che spesso lo si dimentica.
Il far parte, appartenere o partecipare che dir si voglia – come cantava il
saggio signor G – è esercizio di libertà, tale in quanto avviene in quello
spazio a noi familiare, che ci consente di svolgere pienamente le nostre azioni
poiché ci si sente come in casa propria.
Orbene, questo sentimento, il sentirsi-fieri-d’essere, non è roba su cui
inciamperemo prima o poi dopo averlo smarrito; come ogni sentimento, si nutre
dell’apporto di tutti gli interlocutori coinvolti nella sua trama, di tutti gli
appartenenti al gruppo.
E’ colpa delle amministrazioni comunali, della Parrocchia, del popolo sornione o
dell’inerzia dell’intera comunità se il collante di questa, l’appartenenza, non
ha la stessa capacità adesiva d’un tempo? In questi casi tutto è mancato perché
di tutto si aveva bisogno, chè tutti avremmo dovuto alzar la zampa per
innaffiare il territorio da marcare.
I nostri avi, potessero esprimersi, quali rimproveri o richieste formulerebbero
in merito? Uno sforzo per moltiplicare quei riti, quotidiani e periodici, che
costituiscono il minimo comun denominatore del guglionesano, questo io son
sicuro ci chiederebbero … accatastare quante più cose consentano di riconoscerci
in rapporto alla nostra guglionesanità.
Da questo patrimonio comune mi piace attingere, quale esempio, “a camnet a
Castllar” – intesa in un’accezione che va ben al di là del mero gesto fisico –
che è una nostra comune risorsa, da impiegare dal livello infimo di esercizio
meccanico a quello di esperienza intellettuale, fino ad accedere ad una sorta di
quasi-abbandono alla cui soglia si può giungere nel corso d’una passeggiata
solitaria … anzi meglio, in compagnia d’un raro stato d’animo indefinibile per
eccezionalità.
A questa superiore esperienza … dalla più semplice fino a quella sorta di
passeggiata mistica, il solo guglionesano può accedere: ecco, percorsi quei 375
metri (curiosamente è la stessa misura dell’altitudine) a me pare d’aver passato
il bianchetto sulla dicitura “Termoli” che la mia CdI indica sotto i natali,
tara documentata da cui la mia identità non convenzionale ha sempre preso le
distanze e lamentato prurito.
Allargare il campo delle esperienze di vita civile che ci consentano di
specchiarci l’un l’altro e di riconoscerci, coltivare l’uso del dialetto
(rivendichiamo con fierezza il nostro “tuj tuj”, morto il quale l’egemonia del
“pj pj” sarebbe totale!) … insomma, riassemblare anche ad uso dei posteri un
patrimonio culturale fatto di beni comuni, certificati DOC o IGP.
PS: Probabilmente sarà un limite della mia capacità di comprensione, ma è per me
un mistero come possa la stessa matrice intellettuale porre in antitesi la
celebrazione di S. Nicola e le varie sagre paesane.
Il Palio e, ad esempio, le lasagne in brodo d’estate sono dalla mia mente
catalogate “fuori contesto” (per le lasagne la discrasia è solo temporale) e,
purtuttavia, come “meglio questo che niente”.
Nel Medioevo si speculava sulla credulità e si trafficavano false reliquie; la
comunità che le acquistava, nel caso queste raggiungessero il prefissato scopo -
ovvero attrarre pellegrini da ogni dove che portavano ricchezza - non credo
stesse a sottilizzare sulla questione dell’autenticità. Il Palio non c’entra una
mazza con le nostre tradizioni, ma se attira gente ben venga e complimenti a chi
a tal fine ha profuso impegno; lamentarsi per il Palio mancato e stigmatizzare
le sagre per evanescenza culturale (ribadisco una mia impressione: dopo essersi
lagnati della componente qualunquistica dell’antipolitica, c’è qualche politico
che non perde occasione per accodarsi alle denunce provenienti dal basso – come
le sagre invise ai commercianti – cadendo nel meccanismo di cristiana denuncia
della pagliuzza e della trave) al mio orecchio suona stonato.
La gastronomia è un veicolo culturale d’eccellenza (S.Martino-pasta con la
mollica docet) – e l’Italia lo sa bene – e fare paragoni tra manifestazioni
culturali non mi sembra opportuno: vogliamo che il blog faccia sondaggi tipo
“ritenete abbia maggior peso culturale Manente o i maccarun cu ciapp?”.
Una sagra della ribollita non avrebbe contenuto culturale, perché riferibile
agli stessi posti in cui è di tradizione il Palio. Come avviene per qualsivoglia
argomento, occorrerebbe avere una certa credibilità per muovere denunce in tema
di cultura, dunque dopo 20 anni di deserto sentir parlare oggi di pioggia da chi
nuvola è sempre stata …