13/8/2013 ● Solitudini d'autore
Il pifferaio
Tomaso Montanari, primo firmatario di Ripartire dalla cultura, ci
richiama al senso profondo dell’appello: «Tagliare il deficit riducendo gli
investimenti nell’innovazione e nell’istruzione è come alleggerire un aereo
troppo carico togliendo il motore». Lo ha detto Barack Obama, e forse anche
in Italia sarebbe ora di tenerne conto: anche dal punto di vista strettamente
economico investire in cultura ‘paga’. Ma il contesto e la storia italiana
recente mostrano come il pericolo principale di questa stagione è la debolezza
dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione
(leggi monetizzazione) del patrimonio. La risposta vera a quanti affermano che
la ‘cultura non si mangia’ è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»:
la nostra civiltà non si è mai basata solo su un discorso strettamente
economico, e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le
nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è ‘niente
cultura, niente sviluppo’, ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non
rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich, ha scritto: «Se
crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre
priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente,
possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno
vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe
pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che ‘chi paga il
pifferaio sceglie la musica’. Non dimentichiamo che in una società tutta volta
alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si
scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che
non li risentiremo mai più».