13/6/2013 ● SOS
Matì
Quando torna con la mente alla sua infanzia, gli occhi s’illuminano e sorride
inconsciamente.
I suoi genitori lo avevano avuto in età avanzata ed era stato accolto come un
grande dono.
Sua sorella, più grande di dieci anni, che gli aveva fatto da amica e spesso
anche da madre.
Fin da piccolo aveva la testa tra le nuvole e non in senso metaforico.
Steso all’ombra degli alberi, con le mani adagiate l’una sull’altra a fargli da
cuscino dietro la nuca, si divertiva a scoprire le forme che le nuvole creavano,
scomponevano e ricomponevano continuamente.
Furono loro, le nuvole, a ispirargli i primi disegni.
Crebbe felice correndo nei campi tra quella natura che, come una grande mamma,
lo accoglieva e lo nutriva nel corpo e nell’anima.
Lo stupiva la grande varietà di forme di vita e i colori con le loro sfumature,
gradazioni e toni diversi.
La famiglia, orgogliosa di quei dieci in “Educazione Artistica”, lo amava e
proteggeva.
Nelle altre materie scolastiche aveva voti più bassi non per incapacità, ma
perché dedicava tutto il suo tempo alla grande passione che gli ardeva in petto.
In seconda media, il professore di artistica chiese di poter parlare con i suoi
genitori e un pomeriggio li andò a trovare a casa.
Fu un lungo colloquio durante il quale Filippo rimase dietro la tenda che
divideva idealmente il suo lettino dalla cucina, ad ascoltare.
Il Professore insistette molto perché Filippo potesse andare a studiare a
Firenze ma quella città, per dei contadini con pochi mezzi, si trovava
dall’altra parte del mondo anzi,…su un altro pianeta.
Alla fine dovette arrendersi ma continuò come gli fu possibile, a incoraggiare e
consigliare Filippo.
Arrivato in terza media, i compagni di classe, con la cattiveria di cui solo i
ragazzini di quell’età sono capaci, cominciarono a prenderlo in giro per questo
suo essere “diverso” da loro.
Filippo declinava con decisione ogni invito a giocare a pallone e non
partecipava mai il gioco delle “sette pietre”.
La “palla avvelenata” lo annoiava, così come il gioco dei “vitarelli” con le
facce dei calciatori e poi, cosa assurda, non possedeva una fionda per cacciare
passeri, verdoni e cardellini.
Era proprio un ragazzo strano, troppo strano, quel suo dire sempre “ Noo!”
indispettiva, tant’è che un giorno, durante la momentanea assenza
dell’insegnante, i compagni di classe vollero dargli una lezione per fargli
capire chi comandava e che, nella vita, conviene uniformarsi alla maggioranza.
Lo afferrarono in quattro e gli fecero il “salasso”, una pratica stupida, in
voga tra i ragazzini dell’epoca, che prevedeva la cattura del malcapitato e
l’abbassamento forzato dei pantaloni.
L’umiliazione per il piccolo Filippo fu ancor più cocente poiché avvenne alla
presenza delle compagne di classe che ridevano per sua nudità e che, ricordando
il suo interesse per l’ultima lezione sui grandi pittori dicevano,“ Filippo si
crede Paolo Uccello ma ha solo un uccellino!”.
Questo avveniva mentre la vittima della violenza, ripiegato su se stesso e in
lacrime, si affrettava a ricomporsi.
Il ragazzo frequentò le scuole dell’obbligo e dopo le medie evitò sia di
proseguire con gli studi che andare a imparare un mestiere.
La sua sete di sapere era tutta protesa verso il mondo inteso da un punto di
vista artistico.
Dopo le meraviglie della natura si appassionò alle persone e al linguaggio del
corpo che tradisce e smaschera le apparenze, e permettere viaggi introspettivi
tra i sentimenti più profondi e veri dell’animo umano.
Spesso di notte si svegliava e ripensava, catalogando mentalmente le situazioni
vissute, agli incontri fatti, a quel particolare squarcio di luce, alla penombra
sotto quel portico, al chiaro-scuro del rilievo sulla facciata della chiesa, a
quel viso scavato dal sole e dal tempo, a quelle mani nodose che hanno zappato
tutta la vita, alla grazia e alla bellezza di quella ragazza...
Lui e il suo album da disegno erano inseparabili ed era possibile incontrarli
nei luoghi più impensati.
Presto, dopo aver appreso la tecnica delle ombre e dei contrasti, che danno
forza e volume alle figure, mise da parte matite e carboncini.
Lavò bene con l’alcol le punte delle dita annerite e passò al cavalletto con
pennelli e colori.
Fu allora che incontrò sulla sua strada, Henri Matisse e ne rimase semplicemente
fulminato.
Matisse enfatizzava talmente il colore che a volte non considerava i colori
naturali del soggetto ma ne ideava di nuovi con toni molto accesi, a volte
addirittura primari.
Questo, insieme alla visione stilizzata dei soggetti che aveva, apri a Filippo
la mente in maniera tale che non volle più prescindere da ciò.
Con il tempo, a furia di parlarne con tutti coloro che gli capitavano, tanto era
la voglia di far partecipe gli altri di questa sua folgorazione, che
cominciarono tutti a chiamarlo “Matì”, un’infelice storpiatura di “Matisse”.
Di amici ne aveva davvero pochi e uno vero fu certamente il vecchio Arturo che
tutti, a parte lui, chiamavano con disprezzo “Cègom” (ecce homo).
Un omino magro, piegato dal tempo, che viveva solo.
Sempre affabile nel parlare e dai modi naturalmente stravaganti come il vestire
abiti di tre taglie superiori alla sua.
Un uomo però di profonda fede che appariva un nuovo San Francesco, logoro e
macero nell’indifferenza dei suoi simili.
Cègom era povero e si guadagnava il pane quotidiano rimpagliando le vecchie
sedie.
Tanti si rivolgevano a lui perché se ne aveva almeno due vantaggi.
Il primo era che si accontentava di poco e si poteva pagarlo con uova, vino,
pane, frutta e il secondo che non usava la paglia normale, ma un’erba palustre
che tagliava sulle sponde del fiume durante le notti di luna calante.
Presentava delle belle picchiettature variegate ed era più resistente.
Quello che però lo accomunava al piccolo Matì era certamente l'amore per l'arte.
Cègon, la sera, si recava in cantina e sfogava la sua creatività plasmando la
creta che prelevava dalla vecchia “pingiara” abbandonata.
Come sostegno di base alle composizioni usava sezioni di tronchi di circa cinque
centimetri.
Con il trapanino a mano premuto dal suo petto gracile, faceva dei fori in cui
piantava dei tondini in ferro che diventavano lo scheletro di sostegno alla
creta.
Non possedendo un forno per la terracotta, faceva una copia in gesso che ungeva
poi con un nauseabondo olio fatto con molto aglio. Una ricetta di sua
invenzione.
L’opera finita e asciugata dava la sensazione visiva del marmo anticato.
Riproduceva esclusivamente scene sacre in tutto tondo e la sua specialità erano
le crocifissioni.
Rappresentava Gesù a solito, con mani e piedi inchiodati alla croce ma, con
muscoli e nervi tesi in uno spasmo che lo proiettava con vigore verso il cielo.
Sembrava che stesse per volare in cielo, strappando senza sforzo quegli ormai
inutili, chiodi.
Un Cristo insensibile al dolore fisico quasi che quel corpo martoriato non gli
appartenesse più rapito com’era, gli occhi al cielo.
Maria sua madre, Giovanni e le altre figure ai piedi della croce partecipavano
coralmente a quella che appariva non una sequenza di morte, ma un ritorno allo
stato di origine. Dall’umano al divino.
Si dice che il tempo sia un galantuomo, non so sia vero ma certo non si ferma ad
aspettare nessuno.
Così Matì è ormai un uomo di età avanzata e dove c’era la cantina con il cielo a
botte di Cègom, oggi c’è un orrendo condominio di cinque piani, costruito negli
anni settanta, che ti osserva minaccioso dagli infissi argentei di alluminio
anodizzato.
L’arte, con Matì, è stata esigente, non gli ha permesso di condurre una vita
“normale”, non ha una propria famiglia ed è, quindi, solo.
I genitori sono morti e sua sorella si è sposata e vive, anzi, convive con i
suoi acciacchi, in un’altra città.
Non si vedono da tre anni ormai, l’ultima volta fu proprio in occasione della
tumulazione della loro madre, il papà era mancato anni addietro.
Anche agli occhi dei bambini, educati alla cultura della competizione, Matì
appare “strano”con la sua disarmante inoffensività.
Per questa ragione, quando ne hanno occasione, si sentono autorizzati a
punzecchiarlo.
I loro genitori, invece, pensano che quella di rintanarsi in casa sia l’ennesima
espressione della sua eccentricità.
Si lamentano comunque dei cattivi odori che provengono da casa sua e urlano il
loro disappunto dal vicolo ma lui non apre più a nessuno, neanche agli
assistenti sociali inviati dal Comune.
Il suo unico contatto con il mondo esterno è l’incaricato parrocchiale che
periodicamente gli porta un pacco di generi alimentari insieme e qualche
indumento.
Soffrì molto per la perdita della madre ma si consolò auto-convincendosi che
nulla avviene a caso e che fosse arrivato il momento atteso da una vita per
dedicarsi in modo totalizzante al quadro che sarà l’opera che lo renderà famoso.
Il suo capolavoro... il compendio di un’intera esistenza dedicata alla pittura.
Sulla tela volle fissare e mostrare l’essenza più profonda dell’anima con tutte
le contraddizioni, le delusioni, le gioie e le speranze.
L’amore per la vita, il creato e il divino, trasfusi ed elaborati in un’opera
d’arte che sarà annoverata tra le più importanti del secolo.
Ogni tratto, ogni sfumatura, ogni figura rimanderà ai valori fondanti
primordiali che si ripresentano immutati nel tempo giacché impressi nell’animo
delle creature umane.
I suoi biografi ripercorreranno a palmo a palmo la sua terra, il suo paese e i
modelli che ne hanno ispirate le opere.
Questa è stata la ragione per cui si è estraniato da tutto e tutti, per cercare
quel silenzio dentro e fuori che permette lo stato di grazia indispensabile per
un’impresa simile.
Ha chiuso gli scuri alle finestre e tiene perennemente spente le luci vivendo
nel buio.
La sala da pranzo è stata trasformata in studio pittorico avente al centro il
quadro sul cavalletto e ai due lati il divano per dormire e il tavolino per
mangiare.
Il contenitore dei colori su una sedia alla sinistra del quadro e sulla destra,
un vecchio tavolino circolare di cui non s’intuisce più il colore originario
tante le croste sovrapposte.
Sullo stesso tavolino, una crocifissione di Cègom con Gesù che gli ricorda di
guardare sempre “oltre” e un vaso di terracotta da cui svettano alti e irti
pennelli di ogni forma e dimensione.
Sul davanzale interno della finestra chiusa, un vassoio d’argento con frutta più
che matura. Resti di cibo avanzato e scatole di biscotti aperte, lasciate a
inumidire.
Nel buio Matì, immobile e in silenzio, aspetta l’ispirazione.
Non mette mano al pennello se prima non è certo che sia arrivata e che sia
quella giusta.
Così trascorrono ore, giorni e settimane di lavoro.
Si tratta della sua “opera omnia”, che raccoglie cioè, tutto il suo percorso
artistico e umano.
Non può permettersi di dimenticare niente di quello che vuole trasmettere agli
utenti dell’opera.
Nel buio tasta i tubetti, al tocco ne individua il colore e poi combina le varie
basi sulla tavolozza fino a raggiungere la tonalità desiderata.
Poi le pennellate diventano rapide e sicure, un vero maestro si vede anche da
questo.
Si alza dalla sedia e procedendo all’indietro, s’indirizza verso il bagno per un
bisogno impellente, senza perdere mai di vista la tela che dalla distanza appare
quella che è, mirabilmente orchestrata secondo le intenzioni dell’artista.
In bagno si affaccia alla mente il dilemma della firma.
Firmarsi “Filippo da Guglionesi” sarebbe certamente più corretto ma “Matì” è un
nomignolo a cui lui stesso è ormai affezionato perché rimanda al suo maestro ed
ispiratore.
Mentre ragiona sull’argomento.
“Toc..toc! “e poi ancora più forte “Toc toc!”
Qualcuno bussa energicamente alla sua porta.
Si sciacqua le mani e scarica la vaschetta del water senza rispondere.
Poi “Chi è?” E la sua voce, rauca e cavernosa gli appare estranea.
Era da tanto che non ne sentiva il suono.
“Sono Olga! Tua sorella,… aprimi Filippo!”
Prima di dirigersi alla porta, si avvicina alla tela e con cura la copre con un
morbido e lucido raso di seta nero.
Poi a tentoni si avvicina fino all’uscio strascicando le ciabatte.
Toglie in catenaccio centrale ma lascia inserita la catenella superiore e quando
socchiude la porta, riconosce il volto familiare e sconvolto della sorella.
“Filippo, sono io, non mi riconosci?” “aprimi ti prego!”
Nell’aprire il maestro si fece indietro a liberare il passo ma lei si fermò
qualche secondo per dar modo agli occhi di adeguarsi all’oscurità.
Fu una saggia decisione, avrebbe potuto inciampare in quel il corridoio pieno di
ostacoli.
Scarpe vecchie, riviste e libri, giornali, bottiglie vuote e quant’altro si
possa immaginare.
“Che c’è Olga?...come mai sei qui?..e dimmi in città come ti vanno le
cose?...tuo marito come sta?”
Nel chiedergli queste cose aveva un sorriso disarmante e infantile sul viso.
Olga si affrettò, procurandosi di tenere una mano premuta sulla bocca, ad aprire
la finestra buttando a terra con fragore il vassoio della frutta.
Liberò una sedia ed estrasse dalla borsetta, un fazzoletto bianco con le
iniziali ricamate, che usò prima di sedersi.
Rimase a guardarlo per un po’, stavolta usando il fazzoletto per farsi vento.
“Avvicinati” gli disse e appena lui lo fece, lei gli accarezzò il viso
rinsecchito e con la barba grigia e ispida come il suo vaso dei pennelli.
Poi, con fare amorevole, lo interrogò” Filippo ma come hai fatto a…a ridurti
cosi?...perché non mi hai chiamato?...e come fai a vivere senza più uscire,
senza più telefono e con la corrente elettrica tagliata?”
Non ottenne risposta, né se le aspettava.
“Filippo, tu sai che io ti voglio bene e che, più che un fratello, per me sei
come un figlio..”
“ Si lo so.. anch’io ti voglio bene” disse frettolosamente Filippo e troncò così
il discorso che sua sorella aveva appena cominciato. Fece per aiutarla ad
alzarsi per portarla a vedere il quadro“Vieni, voglio mostrarti una cosa
bellissima che ti renderà fiera di me” ma due persone in camice bianco lo
afferrarono con destrezza sotto le braccia e in un attimo si ritrovò fuori di
casa, dove lo attendeva un’ambulanza.
Il suo vicinato si era affollato e assisteva silenziosa all’accadimento. Le
mamme tenevano strette a sé i bambini e questi ultimi, avendo intuito che
qualcosa di grave stava accadendo, restavano fermi e muti.
Matì fu fatto distendere sul lettino, poi assicurato con cinghie di cuoio.
La luce di quel maggio gli feriva gli occhi così, non potendo far altro, li
chiuse ma chiamò nel frattempo, a gran voce e ripetutamente” “Olga!...Olga!...”
L’anziana sorella, ci mise un po’ad arrivare ma poi finalmente, gli strinse le
mani tra le sue.
”Eccomi Filippo sono qui…non aver paura…cosa vuoi dirmi!”.
Lui l’attirò a sé e in un orecchio le bisbigliò “Guarda il quadro che è nello
studio!, È stupendo, ci sono io e ci sei anche tu. C’è tutta la vita e tutto il
mondo.”
E ancora “ …diventerà un’opera famosa, proteggilo fino al mio ritorno,… mi
raccomando!”
L’ambulanza partì con il solo lampeggiante acceso, nel silenzio generale.
Qualcuno si avvicinò a Olga con scontate parole di conforto, qualcun altro le
fece pesare la sua scarsa attenzione a quel fratello da sempre “strano”e
lasciato a se stesso.
Lei rientrò in casa, si chiuse con sollievo la porta alle spalle, aspettò che il
brusio esterno si sopisse ed evitando gli ostacoli sul pavimento andò nello
studio per vedere il quadro.
La finestra aperta aveva, nel frattempo, pulito l’aria del tanfo. Si avvicinò al
cavalletto e con delicatezza ne sollevò il raso.
La bocca si aprì per la sorpresa.
Davanti ai suoi occhi un quadro dipinto di un unico colore,… il bianco.
Dovette sedersi, ritirò fuori il fazzoletto e cominciò un pianto dapprima
sommesso poi senza ritegno, liberatorio.
Aveva compreso come quel candore fosse il colore della follia, ma anche che, in
qualche maniera, coincideva con quello della libertà ormai conquistata per il
suo piccolo, fragile e sensibile, Matì.