21/5/2013 ● Cultura
Il giorno dei morti
Quel giorno tanti, gran parte dei tutti, si recano in quel posto dove il
fiume della vita percorre un’ansa per celarsi alla vista dei vivi.
Quei prati – che durante l’anno da solitari passi sono attraversati – in quel
giorno assaporano il contatto con suole d’ogni sorta di foggia e materiale, in
un andirivieni da una tomba all’altra, da un parente-amico-conoscente all’altro.
E’ un giorno unico … l’unico giorno in cui ai morti si restituisce il sapore, i
colori dell’aria di festa … e i suoni della folla, seppur flebili, perché non
vociante.
Sussurri anziché sorrisi … ché il chiasso non s’abbinerebbe a quei volti
contriti.
Ma i morti, intenti a meditare in quel che resta dell’anno, sanno che val bene
accontentarsi, ché chi lo fa … già, chissà poi se l’anima sprovvista del suo
guscio sia capace di godere?
L’amenità della mia riflessione repentina scompare, evapora, distratti i miei
occhi dall’apparizione d’una minuta figura, dalla familiarità dei tratti che m’è
cara.
Incosciente – temo – seguo a distanza il suo andirivieni, il suo – come fan
tutti – progettato percorso … traiettorie disegnate armonizzando criteri
d’opposta ispirazione.
Da un orecchio il cervello consiglia di fare meno strada, dall’altro il cuore a
suggerire una logica alternativa … dell’affetto crescente: riservarsi alla fine
i cari che riteniamo più cari.
Ché se un metro di misurazione può offendere gli affetti, al dolore che consegue
alla perdita di essi il nostro animo abbina differenti livelli di intensità.
Effettuate varie soste dall’omogenea durata, la vedo soffermarsi un po’ più
sulla tomba che so esser del marito.
Nel mentre s’appresta a riavviarsi – in quel ch’è facile intuire sarà l’ultimo
segmento da percorrere – la mia disdicevole curiosità sublima in un sentimento
scevro da morbosità.
Eccola fermarsi, e la distanza fino ad allora tenuta smette d’esser debita.
E’ di fronte al figlio Marco, talmente assorta da non potersi quasi ritenere
“presente”.
Pochi minuti e il movimento delle labbra, quasi impercettibile, pone fine allo
stato di apparente assenza.
Pochi istanti ancora e quel movimento acquisisce maggiore visibilità, fino a
trovar compagnia in alcuni gesti.
Le labbra non modulavano consuete parole di preghiera … neppure erano atte a
sussurrare.
La gestualità, rituale nelle precedenti soste, appariva quella del semplice
interlocutore.
E sì, stava proprio dialogando, con una voce tenuta bassa unicamente in virtù
del contesto.
Un’altra era la figura la cui presenza la realtà stava evocando … da un’assenza
stavolta non apparente: era il figlio Marco ad esserne chiamato fuori.
Travalicando il confine dell’insolenza, colmo un ulteriore tratto della già
breve distanza … volevo ad ogni costo intendere quali fossero le misteriose
parole dirette a colui che tra i miei amici maggiormente stimavo.
Quella palese infrazione all’altrui riservatezza fu motivata da un’immagine,
forte abbastanza da farmi trascurare la colpevolezza del mio contegno: fissa
l’ho ancora nella mente … del volto della madre, non più severo e contrito come
nelle precedenti soste.
Perché non era dolore quello dipinto sul suo volto, ma la consueta maschera che
– la riconobbi - era usa indossare con il Marco incarnato.
Sebbene nella più innaturale delle circostanze, d’un genitore che l’amato figlio
ha da poco dovuto seppellire, la signora Pina non versava lacrime.
Venivo ridestato, dall’abbandono a quella sensazione di meraviglia che la
situazione aveva suscitato, dall’attenzione che tenevo vigile ai gesti di colei
che fu la mia maestra: aveva portato la mano al petto, scrigno prezioso ove le
donne d’un tempo usavano riporre le ambulanti cose preziose – d’un pregio, come
stavolta, non sempre materiale – per trarne un foglietto.
Da lì estrasse parole che, appena pronunciate, riconobbi essere quelle del mio
amico:
“Dal tuo esile corpo
fu prima pensiero –
sbocciato, poi reso più forte –
e in seguito carne,
dalla tua
che m’ha dato il consenso
di potere
oggi e per sempre
stringerla incontro alla mia,
nell’inestricabile abbraccio
che fu il cordone all’origine.”
Finalmente, l’attesa rivelazione.
Compresi.
La signora Pina sapeva, senza esitazione alcuna, d’essere il suo Marco
semplicemente di-partito.
Certa di questo, per esperienza già vantata in famiglia.
Allora spettatrice, di sua madre e suo fratello, emigrato in Canada – e mai più
tornato – la cui corrispondenza, di parole e affetti, era scrigno dell’amore
filiale/materno, d’un prezioso che il tempo* a corrodere è impotente.
Ché l’animo - e ogni sua declinazione – ad esso è insofferente … e lo spazio
pure è concetto ad esso alieno.
L’assenza – la non-presenza – attiene al solo guscio (similmente al non
rispondere all’appello della maestra) … che di tante azioni è capace, ma non di
quelle espressioni umane, quali l’amore che, sublime tra le sublimi, è
prerogativa dell’animo declinare.
E così per Pina il suo Marco – come nella sua lezione sui “Sepolcri” di Foscolo
– grazie ai suoi versi era immortale.
(*)“Non si diventa vecchi: il tempo scava solo la bellezza” (cit.)