1/5/2013 ● Solitudini d'autore
La famiglia
Eravamo la patria del "familismo amorale", oggi siamo quella del "familismo
immorale"? Cognati operosi, figli meritevoli, mogli dedite al business,
soprattutto padri di famiglia soccorrevoli verso la progenie. Anche nel
canovaccio degli ultimi scandali, le figure parentali rivendicano a pieno titolo
ruolo da comprimari. In qualche caso è proprio la responsabilità genitoriale che
viene invocata come causa e giustificazione di tanto penoso affannarsi («Ma
io cosa ho fatto per mio figlio?», piange al telefono il servitore dello
Stato). E uno straordinario family gathering allieta in Campania le liste
elettorali del Pdl,i cui colonnelli candidano consorti e compagne, figlie e
nipoti. Questa del "tengo famiglia" è una filosofia antica e tipicamente
italiana, «un tratto che scaturisce dalla mancata creazione di un' etica
pubblica», sostiene Paul Ginsborg, lo storico che più s' è occupato dell'
istituto famigliare in relazione con lo Stato e la società civile. A quest'
ambito di ricerca è ora dedicata una raccolta di saggi, Famiglie del
Novecento.
Conflitti, culture e relazioni, curata dallo studioso inglese insieme a Enrica
Asquer, Maria Casalini e Anna Di Biagio (Carocci, pagg. 276, euro 27). «Nella
storia italiana», dice Ginsborg, «in alcuni passaggi critici, si sono
create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le
sue regole e i suoi codici di comportamento. È accaduto all' indomani del
processo di unificazione, e anche nella stagione successiva alla fine della
Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni volta ha agito la
speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c' è mai stato».
Non è un caso che il "familismo immorale" nasca nell' Italia del "familismo
amorale", secondo la celebre definizione di Edward C. Banfield. «Più che
sull' aggettivo, mi concentrerei sulla parola familismo, che misura l' eccessivo
potere della famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il paese di
oggi non è certo il paese arretrato investigato da Banfield nel 1957 nel suo
saggio In The Moral Basis of a Backward Society. Al centro della sua indagine
era Chiaromonte, un borgo poverissimo della Basilicata. Quel che lo studioso
rimarcò fu l' assenza di società civile. Le famiglie di Chiaromonte avevano un
solo obiettivo: massimizzarei vantaggi materiali e immediati della propria
famiglia nucleare, supponendo che anche tutti gli altri si comportassero allo
stesso modo. Naturalmente non tutta la penisola era ed è assimilabile al modello
di Chiaromonte. Però ancora oggi l' Italia si misura con una smisurata
attenzione, spesso esclusiva, all' istituto famigliare».
I recenti scandali mostrano qualcosa di più rispetto alla mancanza di un ethos
comunitario. Si è disposti a tradire la fedeltà allo Stato per sistemare o
arricchire figli e consanguinei. «In questo caso il familismo è assai
contiguo al clientelismo, che implica l' uso delle risorse dello Stato per
interessi privati. Può essere interessante rilevare come nell' Europa
mediterranea questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino
continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione, nell' Italia di oggi, è
il prevalere dell' organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella
orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro, diventa
fondamentale la relazione con il potente, che garantisce determinati accessi,
per te e i tuoi figli: da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto
questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».
Ma la famiglia forte può essere considerata un ostacolo alla crescita
democratica? «Sì, se concentrata in modo sproporzionato sugli interessi
materiali immediati. Al caso italiano s' attaglia la riflessione di Isaiah
Berlin sulle due libertà. Secondo lo studioso esiste "la libertà da" - liberty
from - ossia la libertà dall' interferenza di un altro soggetto rispetto alla
tua azione individuale. È la libertà come viene intesa dal nostro premier:
nessuno, neppure lo Stato, dovrebbe limitare la tua libertà. Esiste poi la
"libertà di" - liberty to - ossia la libertà che scaturisce dalla ricerca di un'
azione collettiva condivisa. Ancora prima dell' avvento del berlusconismo, l'
Italia familista ha sempre praticato la prima di queste due libertà».
La relazione principale in Italia - lei lo rimarca nel suo ultimo saggio - è
tuttora quella tra famiglia e individuo, mentre in altre parti d' Europa, in
Gran Bretagna o in Svezia, prevale quella tra individuo e Stato. «L' Italia è
stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una
società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda
formazione. Norberto Bobbio sintetizzò tutto questo scrivendo che per le
famiglie si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la
società e per lo Stato». I demografi storici distinguono, nell'Europa
occidentale, tra sistemi famigliari deboli e sistemi famigliari forti,
ricavandone una proporzione scoraggiante: più forte è la famiglia, più debole è
la società civile. «Nel primo sistema - dove più conta l' individuo -
rientrano com' è naturale la Scandinavia, la Gran Bretagna, l' Olandae il
Belgio, ed alcune regioni della Germania e dell' Austria. Il secondo - dove più
conta famiglia - comprende l' Europa mediterranea. Sono essenzialmente due i
fattori che determinano la differenza: la longevità delle famiglie d'
appartenenza ossia l' età in cui si lascia la casa paterna - e la rete di
solidarietà famigliari in rapporto alla vecchia generazione. Attenzione però
alle generalizzazioni, come raccomanda lo stesso David Reher, l' artefice di
questi studi. Anche indagini recenti collocano la società civile italiana in un
posto molto alto nella graduatoria mondiale. Ieri i girotondi, oggi il popolo
viola: nonostante tutto, la società italiana è ancora capace di grande
reattività».
Il rapporto tra famiglia e società civile non è stato mai indagato a fondo: né
in ambito disciplinare né sul piano del pensiero politico. «Sì, esiste un
buco nero nel campo delle teorie politiche. In nessuna delle due tradizioni
dominanti nel Novecento, quella liberale e quella marxista, le famiglie sono al
centro di una seria analisi in quanto soggetti politici. Nel pensiero liberale
la famiglia fu sistematicamente relegata alla sfera estranea alla politica,
trovando collocazione nel privato piuttosto che nel pubblico. Nel suo saggio The
Subjection of Women (1869) John Stuart Mill aveva dedicato un effimero
riconoscimento all' importanza della famiglia: i posteri preferirono ignorarlo».
Nella tradizione comunista non ci fu maggiore attenzione. «Il giovane Marx
ebbe qualche intuizione nel riconoscere la famiglia e la società civile come
presupposti dello Stato, ma egli stesso non ebbe interesse ad approfondire il
tema. Anzi nella sua riflessione successiva la famiglia diventerà una delle
tante espressioni dei rapporti economici. Più tardi i bolscevichi finiranno per
liquidarla come entità destinata a essere superata dalla pianificazione
socialista. Solo Trockij ebbe delle idee un po' diverse, ma non le sviluppò fino
in fondo».
In un quadro di generale distrazione, risalendo al XIX secolo lei riconosce un'
eccezione in Hegel. «Sì, in alcuni paragrafi dei Lineamenti della filosofia
del diritto, il filosofo invita a esaminare gli individui in relazione alle tre
sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. In particolare, Hegel indagò il
momento della "dissoluzione" della famiglia in rapporto alla società civile. A
me pare tuttora una proposta stimolante sul piano del metodo». Però pochi l'
hanno raccolta. «Anche più recentemente, dopo l' Ottantanove, la riflessione
saggistica sulla grande rinascita della società civile nell' Europa dell' Est
non ha mai incluso la famiglia. E John Rawls, il liberale che più ha meditato
sulla società attuale, dedica pochissimo spazio all' istituto famigliare, che
resta un soggetto passivo. Si potrebbe dire che la famiglia è un grande
attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia».
SIMONETTA FIORI |
FAMILISMO GINSBORG: 'PERCHÉ L' ITALIA NON HA UN' ETICA PUBBLICA' | La
Repubblica (marzo 2010)