25/4/2013 ● Sos
Il milite ignoto [I parte]
“Ce lo diranno domani dove dovremo andare!” così aveva detto il
sergente Graziani.
Il tono era di chi non si aspettava repliche, ma nello stesso tempo, condivideva
l’ansia e i timori di chi lo ascoltava.
Eravamo quasi tutti della classe 21, volontari, soprattutto del sud e tutti
orgogliosi di vestire la divisa italiana e di appartenere all’ 81° Reggimento di
fanteria della gloriosa divisione “Torino”.
Non vedevamo l’ora di dimostrare il nostro valore sul campo di battaglia e
magari, con un po’ di fortuna, tornare a casa con qualche medaglia appuntata sul
petto da mostrare ai parenti e sfoggiare con le ragazze.
Fin da piccoli eravamo stati educati all’ardimento e all’eroismo che supera
anche la morte continuando a vivere nella memoria dei vivi.
La guerra, inoltre, rappresentava in qualche modo anche l’affrancamento dalla
condizione di “guajon”, di ragazzo, per diventare a pieno titolo uomini.
Una sorta di passaggio iniziatico tra l’età adolescenziale e quella adulta pur
nella consapevolezza che, per alcuni di noi, sarebbe stato un passaggio senza
arrivo.
Il Sergente Graziani aveva combattuto sul fronte francese col genio a costruire
ponti a secco e sui corsi d’acqua. Era dunque un “vecio”a cui portare rispetto e
obbedienza.
Proveniva da Littoria, una nuova città voluta da Mussolini e sorta lì dove prima
c’era una palude prosciugata dalla ferrea volontà del nostro Duce ed il lavoro
di migliaia di braccia.
Molte di esse rimasero nel fango inghiottite dalla malaria ma l’opera grandiosa
si fece.
Nelle camerate si diceva che la sua era una famiglia fascista della prima ora.
Avevano addirittura sostituito il cognome originario da Falconi a Graziani, per
onorare appunto il grande generale fascista Rodolfo Graziani eroe di Etiopia e
Abissinia.
Qualcuno affermava che lo stesso generale stesso, venuto a conoscenza della
cosa, avesse appuntato una medaglia d’oro sul bavero della veste di mamma
Felicia che della operazione, era stata promotrice.
Nei momenti di riposo al Graziani piaceva mettersi seduto in disparte.
Puntava il gomito sulla gamba e roteando a ricciolo il pollice e l’indice
prendeva a tormentare il biondo pizzetto che si era lasciato crescere.
Fissava un punto lontano e ti accorgevi che partiva per luoghi e situazioni
sconosciute.
Rimaneva in questo stato, fino a quando veniva richiamato da qualcuno, alla
realtà.
Aveva avuto modo di conoscermi bene e aveva apprezzato il mio impegno, in
occasione delle esercitazioni fatte prima sui battelli in Adige e poi nel
costruire le tende da campo a Civitavecchia.
Il nostro plotone di genieri era risultato tra i più bravi e mi ero così
guadagnato la sua stima.
Ero spesso a chiedergli permessi, permessini, licenze o cambiamenti nei turni di
guardia e ricambiavo la sua benevolenza sbrigando per suo conto delle piccole
faccende.
Gli ritiravo la posta, gli facevo trovare il giornale ogni mattina sul tavolo in
mensa sottufficiali, gli compravo le sigarette allo spaccio ecc.
Quando arrivava il pacco di cosa buone da casa mia, gli regalavo i fichi secchi
piuttosto che i sottaceti con gli asparagi selvatici che faceva mia madre e che
a lui, tanto piacevano.
In tutto questo, devo essere sincero, c’era un mio tornaconto.
Avevo bisogno di lui per riuscire a frequentare una ragazza.
I genitori della mia Miryam erano dei borghesi benestanti, il padre lavorava in
banca e non approvavano che la loro figlia uscisse con un soldato semplice e per
giunta del sud.
Non si poteva biasimarli, i tempi erano quelli che erano e fare progetti con uno
che oggi c’è e domani non si sa, era alquanto azzardato.
Non sapevano fino a che punto io amassi la loro figliola, ma speravo si
presentasse un giorno, l’occasione per dimostrarglielo.
Da noi in paese l’onore e la serietà sono valori su cui non si transige e sono
la bussola per le scelte nella vita, sempre e ovunque.
“A faccia ‘mbaccia!”, il bene prezioso di chi non possiede nient’altro
oltre la propria dignità, davanti a Dio e davanti agli uomini.
Potevo essere deriso per il mio pessimo italiano, ma nessuno poteva mettere in
dubbio la mia dirittura morale.
L’avevo conosciuta tramite sua cugina Ester che lavorava, tra il personale
civile del centralino accanto alla fureria.
Era lei il tramite e la complice del nostro amore.
Il momento della giornata più propizio era il termine delle sue lezioni di
pianoforte al Conservatorio perché doveva aspettare l’autobus e, un eventuale
ritardo era giustificato.
Ester veniva sempre informata da Miryam sugli orari dei corsi che venivano
spesso spostati o anticipati secondo le esigenze dei professori.
Quindi chiedevo il permesso di uscire al mio sergente che in base alle esigenze
di servizio lo concedeva o meno.
Incontravo Miryam sotto il grande portone del Portico di Ottavia, vicino
all’isola Tiberina e vicino, ma non troppo, da casa sua.
Sua cugina Ester a cui era molto legata anche da profonda amicizia, era una
donna già sulla trentina, che di sposarsi non aveva nessuna intenzione.
Era per questo la pecora nera della famiglia e la disperazione di sua madre che
avrebbe voluto vederla sistemata con marito e figli.
Da tempo, grazie al suo lavoro, si era resa completamente indipendente.
Era una donna molto brillante e di buona conversazione.
Viveva sola in un piccolo appartamento anche se riceveva speso amici e
conoscenti.
Mi presentò Miryam in un locale dove era solita ritrovarsi tra amici.
Io mi trovavo lì a seguito di alcuni commilitoni che conoscevano il posto.
Lei mi colpì subito e messo da parte il mio imbarazzo lessicale presi a
dialogare con lei.
Senza rendercene conto, presi dalla voglia di conoscerci, ci isolammo dal resto
del gruppo.
Nel locale era entrato un gruppo di soldati tedeschi che goliardicamente
creavano gran confusione e ammorbavano l’aria con il fumo delle loro sigarette
puzzolenti.
Uscimmo all’aria aperta e passeggiammo sul lungo Tevere.
Brevemente avemmo così modo di presentare l’uno all’altra le nostre vite.
Ad un certo punto mi chiese scusa e andò via, con la promessa che ci saremmo
rivisti.
Era di venerdì sera e cominciava per lei, quella che per noi è la giornata di
domenica che si va in chiesa. Per questo la famiglia tutta si raccoglieva ed era
opportuno che tornasse a casa.
Era di fede ebraica e aveva tradizioni diverse dalle mie ma questo per me, non
era che un dettaglio.
Miryan era esile ma tutta la figura era aggraziata, con lucenti capelli neri
portati a caschetto.
Aveva occhi di smeraldo che cercavano senza sosta i miei e questo m’impediva
anche la più piccola delle bugie.
Con lei mi ero sentito da subito a mio agio, starle accanto era per me era la
cosa più naturale del mondo.
Il suo basso tono di voce mi costringeva ad avvicinarmi per meglio ascoltarla e
quando sentivo il profumo della sua pelle,… come resistere a non baciarla?
Divenne il centro dei miei pensieri, l’oggetto del mio primo e unico amore.
Per un ragazzo come me, cresciuto in una terra povera e desolata come quella
molisana e scaraventato dagli eventi in quella grande città, lei rappresentava
una bellissima opportunità su cui scommettere tutta la vita.
Credetemi, del Portico di Ottavia conosco ogni pietra, ogni crepa e lui ogni
battito del mio cuore nell’attesa del mio amore.
Eravamo ormai alla fine di giugno e in caserma da giorni c’era un gran via vai
di uomini e mezzi.
Il mio sergente era molto occupato in fureria a seguire atti amministrativi
delle nuove truppe che si erano aggregate a noi ed entrava e uscita dal salone
dove il comandante di reggimento ufficiava il gran rapporto permanente da lui
stesso richiesto.
Lo vedevamo solo il tempo necessario per la rivista giornaliera e le
comunicazioni degli ordini.
Erano rientrati molti veterani dalla sicilia, provenienti dalla Jugoslavia.
Altri della “Centauro” si erano aggiunti di rientro dall’Albania.
Tutta la caserma era un ribollire di uomini mezzi.
Nei magazzini si selezionavano e accatastavano indumenti e materiali vari per le
truppe autotrasportate.
Nelle scuderie si ferravano le bestie e si preparavano basti e finimenti.
La mattina del 30 giugno, sul piazzale della caserma, invece di assegnarci al
solito gli ordini di giornata, continuava ad andare avanti e indietro con gli
occhi sulla punta dei suoi stivali e tormentando il famoso pizzetto biondo.
Poi si fermò, alzò lo sguardo e ci guardò in silenzio uno per uno.
Il toro rampante sulla bandiera dietro le sue spalle, sembrava saltellasse sulle
zampe posteriori a ogni folata di vento.
Tommasi, il mio compagno di branda che si trovava in fila dietro di me, mi toccò
piano la schiena con il calcio del fucile e sottovoce propose “Sveglialo…al
solito è partito per chissà dove?