15/4/2013 ● Cultura
Il bullone e la rondella
L’età contemporanea … quante peculiarità! La realtà è una sorta di
palcoscenico che ciascuno calca per rappresentare tanti ruoli nell’ambito di una
rappresentazione teatrale in cui il Regista ci concede un’ampia libertà di
interpretazione … questo è quantomeno quel che crediamo. Negli svariati secoli
in cui a recitare quali attori sono stati i nostri avi, la scenografia ha subito
mutazioni impercettibili: da circa mezzo secolo è invece in continua evoluzione
(?). Non occorre attingere all’arte, alla sensibilità della penetrante vista di
questo mondo popolato di semidei per cogliere l’enorme differenza, in fatto di
velocità, tra il progresso tecnologico e lo sviluppo culturale: due fattori che
da sempre viaggiano paralleli e che sarebbe opportuno procedessero a ritmo
pressoché omogeneo. Se fino al 19° secolo si consumavano intere generazioni
prima di veder sbocciare prodotti della nostra tecnica in grado di rivoluzionare
lo stile di vita, la brusca accelerazione della tecnologia (cd. legge dei
ritorni acceleranti) a cui stiamo assistendo sottopone la medesima generazione a
continue prove d’esame per misurare la propria adeguatezza ai repentini
cambiamenti del mondo che ci circonda.
Pensiamo, tanto per scegliere uno tra gli esempi più calzanti, alla mutazione
già in atto e che è ancora in divenire, di cui il telefonino è protagonista
indiscusso: se questo inseparabile compagno ci consentiva, durante gli
spostamenti, di coltivare i rapporti interpersonali portandoci appresso l’intera
sequela di amici-conoscenti-parenti (generando un bizzarro costume, quello degli
“auricolambulanti”, che sembrano parlare a se stessi, in un contegno di
apparente pazzia che si rivela essere la perpetrazione in chiave esponenziale di
quel vezzo che taluno coltivava da bambino, ovvero di intrattenere rapporti con
un amico immaginario, che nel nostro caso si moltiplica fino a diventare quella
comunità la cui anagrafe risiede nella rubrica), la proliferazione delle
svariate funzionalità ora è giunta – in un traguardo che gli esperti giudicano
essere una semplice tappa intermedia – a farlo diventare, nelle vesti di
smartphone, un adeguato rimpiazzo del computer. Da tempo abbiamo conseguito lo
storico traguardo per il quale nel ‘900 si è investito molto in termini di
capacità tecniche, ovvero quello di abbattere le distanze fisiche che ci
separavano, cavalcando le possibilità del tempo reale, esibendo il dono
dell’ubiquità pur senza possedere facoltà miracolose. Ma la corsa tuttavia non è
affatto terminata: moltiplicando le nuove funzioni la tecnologia in realtà ci ha
trasformato tutti in potenziali supereroi, che vedono accrescere di continuo la
serie di superpoteri in dotazione. Che fico, anzi cool … in realtà la tecnologia
fa a noi quel che il cioccolato combina ai nostri denti, regalandoci una
sensazione di intenso benessere intaccando sensibilmente la nostra costituzione
(esistenziale).
La civiltà tecnologica ha però fin dagli inizi fatto sfoggio delle sue aberranti
conseguenze: la Germania nazista ha subito messo in evidenza le distorsioni, in
tema di comportamento umano, che si generano quando si è parte di un complesso
apparato tecnico/burocratico, che ti spersonalizza e deresponsabilizza. Credete
forse che milioni di tedeschi siano di colpo impazziti diventando dei serial
killer? D’altronde anche i nostri nonni o bis-tali durante il fascismo hanno
quasi unanimemente dato corso a comportamenti che definire biasimevoli è un
eufemismo. La psicologia ne ha fornito una spiegazione: se dalla sfera del
potere il Fuhrer/Duce battezza col crisma della legalità comportamenti che la
nostra “corda civile” – secondo il dizionario di Pirandello – reputerebbe
abominevoli, si ritorna tutti bambini. Avete presente la cattiveria del bambino,
di questo ometto in fieri il cui intelletto non ha avuto il tempo necessario per
giungere ad educare la propria psiche su ciò che è giusto dire/fare? Da adulti
quella nostra superiore facoltà, l’intelletto per l’appunto, ci consentirà di
confinare nell’”ombra” – direbbe Jung, o nel “lato scuro” secondo Obi-Wan Kenobi
– tutti quei contegni che potremmo per semplicità ricondurre all’unica matrice
che siamo usi definire “male”. All’interno di un apparato
tecnologico/burocratico, rispetto al quale rappresentiamo un + o – semplice
ingranaggio, non siamo più persone, e dal superiore gerarchico riceviamo
ordini/direttive da eseguire senza stare a chiedersi il perché, essendo il
fondamento del nostro compito basato sul fattore competenza: nell’ambito della
relativa sfera siamo tenuti ad eseguire ciò che non rientra nella nostra
autonomia decisionale, non essendone quindi responsabili.
Quanto vi sto esponendo non è altro che la risultanza di quel che è venuto a
galla in seguito al famoso processo di Norimberga. Sebbene autori di indicibili
nefandezze, tutti gli imputati erano candidamente convinti di non aver compiuto
nulla di disdicevole, avendo messo in pratica ordini superiori (Eichmann,
processato ed impiccato ad Israele, aveva progettato la deportazione in perfetta
chiave apparato, trattando il trasporto degli ebrei come fossero merci: treni
che giungevano direttamente nei lager e i numeri tatuati che, in combinazione
con i simboli, fungevano come una sorta di codice a barre per un prodotto da
macellare; l’amministratore della casa farmaceutica che produceva il gas Zyklon
B, di fronte allo sdegno di chi lo additava quale moralmente responsabile del
genocidio, rispose di sentirsi responsabile solo di fronte ai suoi azionisti).
Dacché siamo in argomento, è storicamente provato che degli ebrei hanno fatto
saponette nell’indifferenza generale: già dal ’42, quando era partita la cd.
“soluzione finale”, tutti sapevano, Vaticano incluso. E’ importante ciò per
sottolineare un’altra piega psicologica evidenziata da quella barbarie,
rappresentata dalla seconda argomentazione di difesa dei nazisti, stavolta
tendente a sconfessare addirittura l’esistenza dell’Olocausto. I tedeschi
sostenevano l’inverosimiglianza dell’esistenza dei campi di sterminio: come
avrebbero potuto centinaia di SS tenere a bada centinaia di migliaia di
prigionieri, senza che gli stessi si fossero mai ribellati o avessero tentato la
fuga? Già, la cosa triste è appunto che gli ebrei si erano rassegnati, avendo da
subito chiaramente percepito di essere odiati da tutti, quindi fuggire per
andare dove (in alcuni paesi, vedi nel ghetto di Varsavia, sono stati trattati
peggio che dai nazisti, altrove c’è stato solo un colpevole silenzio)?
La moderna società tecnologica, quella di cui siamo semplici ingranaggi, non è
altro che la continuazione di questo prototipo. L’accelerazione progressiva in
questo campo ci ha paradossalmente ricondotti nel Medioevo. Da manuale di
storia, la fine di questo coincide con la scoperta dell’America: è una data
convenzionale, dacché l’era moderna inizia con la scoperta galileiana del
“metodo scientifico” e la successiva rivoluzione industriale. Attenendoci ai
simboli, il cui valore è di gran lunga superiore a quella data convenzionale,
l’ingresso nell’era moderna è rappresentato dalla figura dell’”uomo vitruviano”.
Questo disegno di Leonardo, oltre a rappresentare le proporzioni ideali del
corpo umano è il simbolo dell’Umanesimo, del primato dell’Uomo sulla Natura, del
suo porsi al centro del mondo quale assoluto ed indiscusso protagonista. Orbene,
la moderna civiltà tecnologica relega nuovamente l’uomo ad una posizione
subalterna: non più protagonista del suo destino, l’uomo ha posto le basi per la
creazione d’un apparato tecnologico che – vedi il filone narrativo della
“macchina che si ribella all’uomo” - gli è poi sfuggito di mano. L’attuale
situazione vede l’uomo arrancare nell’inseguimento della sua creatura: lungi
dall’essere il protagonista di questo mondo, è l’apparato
tecnologico/finanziario a dettare condizioni e ritmi a cui egli deve obtorto
collo adeguarsi: la c.d. “società liquida” – famosa locuzione inventata da
Bauman – è appunto quella attuale, la cui struttura subisce continui adattamenti
alle diverse scenografie predisposte dalla nostra peculiare società, che ci fa
gli onori di casa solo quando indossiamo la maschera del consumatore.
A questo Moloch sacrifichiamo la nostra umanità. Nello specifico sono le giovani
leve ad essere immolate per placare la sete di tale divinità: l’apparato ha
bisogno del loro sacrificio per continuare ad esistere. Si nutre di speculazioni
finanziarie, di guerre (nelle due guerre mondiali i giovani stavano in prima
linea, per farsi macellare dall’artiglieria nemica e poter favorire l’avanzata
dei veterani), di disoccupazione giovanile e della loro sicurezza economica:
siamo la prima generazione che starà peggio dei genitori. La presenza del mostro
da noi si è fatta sentire col governo tecnico, con Monti chiamato a sanare i
conti anziché l’economia reale: rifinanziate le banche coi nostri soldi, a loro
volta queste non concedono mutui per finanziare quegli investimenti necessari a
creare imprese e posti di lavoro. Lo scopo delle manovre finanziarie è stato
quello di tenere in vita il capitalismo, la divinità mostruosa, non di
salvaguardare lo stile di vita dei suoi adoratori. Occhio all’ipocrisia celata
nelle parole … “si chiedono sacrifici per il sistema creditizio”. Primo,
prendersela nel culo vi sembra “fare qualcosa di sacro”? Secondo, il sistema
delle banche ha quale scopo principale fare debito, non credito.
Nell’attualità tutti inveiamo contro la politica ed i suoi attori, fomentando
quella cd. antipolitica che è quell’atteggiamento facilone con cui si dà loro
addosso seguendo un atteggiamento poco costruttivo … e questa difesa dei
politici è, ahimè, fondata: la storia ci sta sbattendo in faccia un’amara
verità, la consapevolezza della nostra inutilità, un sentimento che dovrebbe
essere anche da loro condiviso, perché l’essere ingranaggi – o pupi se preferite
– è un destino che ci accomuna, pochissimi essendo i Mangiafuoco. E’ inutile
infervorarsi per rivendicare una corretta applicazione della democrazia se
questa è il contenitore del vero motore del mondo, il capitalismo, che per
natura è oligarchico; occorrerebbe ristabilire il primato della politica sulle
esigenze economico-finanziarie. La nostra religione, quella sì che è un vestito
fatto a misura per il capitalismo. Eppure c’è la crisi spirituale, e se
vivessimo davvero cristianamente ciascuno di noi, che per definizione è un
pensiero di Dio, dovrebbe seriamente chiedersi quale Suo pensiero incarni.
Inoltre, più che interrogarci sul senso della nostra vita dovremmo autoformulare
un più pertinente “quale funzione ho?”.
Qualcuno potrà/vorrà intendere questi miei come deliri e questo pessimismo non
condurre a nulla di costruttivo.
Ci metto subito una pezza, so cosa occorre in questi casi: un tocco di retorica,
un messaggio benaugurante, quindi d’amore. Il quadro che ho fornito è simile a
quello descritto da Fritz Lang nel suo visionario “Metropolis” del 1927
(anticipando Orwell d’un ventennio circa), che si conclude con una pennellata di
rosa: in “Forrest Gump” l’amore dei due protagonisti era da lui descritto …
“siamo come pane e burro”, in quel film muto immagino gli innamorati sussurrarsi
qualcosa tipo “siamo come il bullone e la rondella”.