3/4/2013 ● Lettera a FPW
La spada di Dio
Ore 17.30 del 4 novembre 2007, una domenica dal clima mite che favorisce
quello che dal mio punto d’osservazione è l’andirivieni a Fuoriporta di una
folla vociante. Nei 20-30 minuti che seguiranno, la mia mente sarà
l’inconsapevole supporto per la registrazione d’un filmato che ivi resterà
impresso indelebilmente, la cui sceneggiatura sembra esser stata redatta dal
diavolo in persona.
Ero, assieme a Paolo e Rosario, appena tornato dal raccogliere le olive: una
sosta al bar per una birra era il rito officiato da Rosario, un’abitudine ben
nota al proprietario della testa che fece in quel momento capolino sulla porta.
Come ambasciatore, che a differenza di quello del noto proverbio porta pena,
recapita la notizia del nostro arrivo … da questo battito d’ali d’una farfalla
verrà a scatenarsi un violento uragano: Saiffedine entra nel bar per chiedere a
Rosario il pagamento del residuo spettantegli.
A cavallo tra ottobre e novembre abbiamo lavorato insieme, per 10 giorni, quali
unici incaricati della raccolta delle olive insieme a Rosario. Nasce subito
un’amicizia, favorita dal grado di complicità che un lavoro di fatica come
quello richiede; amicizia consacrata in quel paio d’ore spese, dopo il lavoro,
nel consumare il rituale “birra + chiacchiera”. L’amicizia, si sa, è questione
alchemica; da par mio è stata favorita dall’essere Saiffedine un “animo
leggero”: così mi piace definire quelle persone dal cui contegno si riesce a
decodificare l’assenza d’ogni risvolto meschino … cattiveria, invidia … estranee
in quegli animi che sono prerogativa di quelle persone riservate che,
nell’incontro con un loro simile che per qualche motivo ispira loro fiducia, si
aprono all’amicizia. Di lui so poco, eppure in pochi giorni divento colui la cui
compagnia egli cercava, ed io favorivo volentieri l’incontro. Ho sempre avuto un
debole per le persone con quel carattere, quel grado di riservatezza
generalmente etichettato come “mancanza di carattere”. Come lo si voglia
definire non importa, certo è che quella sensibilità, che così marcatamente
caratterizza il suo animo, so appartenere a coloro che usualmente conservano per
molto tempo le cicatrici, i segni lasciati dai colpi bassi che la vita ci
riserva nei momenti di avversa fortuna: la decisione di venire in Italia, i
disagi dell’emigrato, gli éscamotages da “percorrere” in una metropoli – ad
esempio trovare, pur senza lavoro, il denaro per pagare gli squali del commercio
delle false assunzioni per poter rinnovare il permesso di soggiorno – e,
soprattutto, la bella e amata moglie che non vuole venire in Italia. I rapporti
con la sorella che s’incrinano e di cui, con l’onestà d’animo di chi non conosce
meschinità, la relativa colpa riconosce dover essere a lui addebitata. Un
disagio esistenziale che la chimica aiuta a rendere un po’ più tollerabile e che
la comunità avrebbe già le chiavi di lettura per interpretare (un episodio su
tutti è quello che avviene presso l’attuale Frantic, sulla soprastante terrazza
da cui si sporge in un momento di fragilità) … una comunità che annovera Grilli
Parlanti e tanti Lucignoli, che il suo senso di solitudine spinge comunque a
frequentare, essendo un lusso nella sua situazione fare lo schizzinoso … che poi
sarà proprio un Grillo Parlante ad indossare i panni del giustiziere, solo nella
sceneggiatura del diavolo può accadere.
Quella maledetta domenica entra nel bar e nel salutarlo noto qualcosa di strano:
mai l’avevo visto in quelle condizioni, aveva bevuto molto in compagnia dei
Lucignoli. Ed infatti nel replicare più volte la sua richiesta di pagamento fa
sfoggio di un’aggressività che non è nelle sue corde. Le reiterate richieste
sono intramezzate da un “voi italiani m’avete rotto, non mi fregate più”, che
fece scaldare l’animo di qualche presente. Con presenza di spirito zio Mimmo lo
spinse fuori dal locale; fu un gesto d’altruismo verso il ragazzo, in
quell’attimo in cui nell’aria gravava un’atmosfera di minaccia su di lui
incombente. In un primo momento Saiffedine strinse un pugno per abbozzare una
reazione, ma un momento di lucidità intervenne a diradare la nebbia che
offuscava i suoi sensi: “zio, lasciami”. Esco per dare man forte ai buoni
propositi di zio Mimmo, per sfruttare l’autorevolezza del mio ascendente su
Saiffedine e convincerlo ad allontanarsi dai paraggi, ma la diatriba verbale con
Rosario sfocia in un calcio di Saiffedine alla vetrata. Questo gesto muta la
qualità della reazione di Rosario, che da verbale sfocia in un tentativo di
aggressione fisica; io e Paolo afferriamo ciascuno per un braccio Rosario,
impedendogli di compiere l’insano proposito.
Pomeriggio d’una domenica mite solo nel clima: a Fuoriporta una massa
d’”acquirenti di ciliegie”, tra cui i compagni di bevuta nonché sobillatori del
nostro, stanno a godersi lo spettacolo. Molti stanno nel marciapiedi opposto al
nostro, altrettanti pressoché a contatto con noi, fuoriusciti da tre bar
contigui. Lo spettacolo, ovvero Rosario che lancia minacce verbali mentre è
trattenuto da noi due, cessa per un po’, riuscendo entrambi ad appropinquarci al
bar e ad allontanare Rosario … ma movimenti e gesti della folla evidenziano un
qualche accadimento: esco nuovamente dal bar e, parzialmente coperto dalla
folla, vedo Saiffedine seduto a terra, qualcuno l’aveva picchiato. Rosario, che
nel frattempo avevamo mollato credendo scongiurato il pericolo, percorre quei
pochi metri e assesta una serie di calci a Saiffedine: questo quanto accaduto
dinanzi a decine di spettatori non paganti, questo è ciò a cui ho assistito,
incredulo. Vado da Saiffedine, che si rialza senza aver bisogno del mio aiuto, e
mi dice che denuncerà l’accaduto … manco a farlo apposta arriva la Benemerita,
che può registrare gli avvenimenti a caldo.
Dopo qualche giorno io e Paolo veniamo convocati in caserma; vengo ascoltato per
circa un’ora ma, come avviene nella pratica, a differenza di quel che si vede
nei film e che la legge prevede, il verbale non viene redatto contestualmente ma
è un breve sunto delle mie dichiarazioni; quel che accade a Paolo è circostanza
sconcertante che, se vorrà, potrà lui rivendicare ed io testimoniare. Durante il
processo, per il quale non abbiamo incaricato difensori (per questioni di denaro
e per voler vedere sin dove si voleva arrivare nei nostri confronti), nessuno
dei due è stato mai ascoltato, nonostante da un giornale apprendo il contrario:
strano, visto che eravamo i più vicini allo svolgimento dei fatti, emotivamente
e quanto a distanza fisica.
La vicenda di Saiffedine è stata costellata da errori nella ricostruzione dei
fatti, da un falso senso di giustizia per porre riparo ad un deprecabile
contegno della comunità che non attiene all’omertà, da tonnellate di provinciale
ipocrisia e dallo sviamento su autori morali, individuali ed istituzionali.
Per quanto riguarda i fatti, la ricostruzione della condotta criminosa da parte
dell’accusa e quanto raccontato nei quotidiani mi sono sembrati al limite
dell’irreale: soldi sbandierati sotto il naso della vittima, lui picchiato
dentro il bar, il 2° fratello accusato nonostante i C.C. hanno visto assieme a
me il suo arrivo in un 2° momento ecc … vabbè, che volete che sia, magari è solo
incompetenza, la malafede non c’entra.
Il problema vero è rappresentato dalle istituzioni che, indossata la maschera
del ruolo civile che compete loro, dovevano recitare il formale sdegno nei
confronti del barbaro accadimento … il sindaco, don Gabriele, perfino il
sindacalista sul giornale. Intendiamoci, ci sta tutto. Ma quando Saiffedine
dormiva all’aperto, o in macchina di qualche suo amico (fino all’accoglienza da
parte d’un conoscente rumeno), le istituzioni dov’erano? A guardare impassibili
come gli spettatori di quella domenica? Ve lo dico io: nello stesso posto in cui
stavano quando Luigi Ferrara, molto malato, è morto in un’abitazione gentilmente
concessagli da un amico, senza luce e riscaldamento (abitazione che tale non
era, non avendo i minimi requisiti d’abitabilità). Sono solo due esempi di
persone a cui la comunità poteva e doveva tendere una mano, e altri ancora ce ne
sono stati; eppure notoriamente una delle istituzioni sdegnate faceva la
“carità” a Lucignolo in persona, centinaia d’euro che finivano in birre, poker …
Ma la commedia dell’arte, stupido io a non averlo previsto, era già iniziata
seguendo un preciso canovaccio: occorreva trovare qualche capro espiatorio per
lavare l’onta del ridente paesino, salvaguardare la retorica della provincia dai
buoni sentimenti e poter gridare “giustizia è fatta!”. I nomi più idonei da
spendere erano proprio quelli di chi, paradossalmente, aveva cercato di evitare
a Saiffedine d’essere picchiato. Già, la morale ha fatto sì passi avanti, sono
stati sdoganati pure gli omosessuali, ma per la droga i tempi non sono ancora
maturi. Un ex drogato resta sempre tale, il suo è un peccato originale,
indelebile, tatuato a vita: dunque per la società dei benpensanti è immondizia,
un parìa, indifendibile … insomma sacrificabile.
Ora basta dilungarmi, anche perché quando parlo della mentalità piccolo borghese
dell’italiano medio, questo pericoloso delinquente perbenista del cui pensiero
dominante - per una dominanza fatta di numeri e non di qualità - siamo schiavi,
mi vengono i conati di vomito … la mia ex professoressa, la zia bizzocca tutta
casa e chiesa ecc.: “vedi che succede a frequentare certi ambienti?” (e io che
frequento gli oliveti sin da bambino). Nessuno ad evidenziare la mia estraneità,
in oltre 40 anni di vita, da qualsiasi forma di violenza, che ho sempre
ripugnato.
Io, purtroppo, mi sento davvero colpevole, ma non d’aver favorito i carnefici
(al limite avrei favorito Saiffedine di cui ero amico): il mio cruccio è non
aver allontanato con forza la futura vittima, di averlo invitato solo a parole.
Temo, soprattutto, che il piglio decisionista che non ho avuto è stato il
riflesso della stessa pavidità mostrata dall’intera comunità, d’una sorta di
“fammi fare i cazzi miei”. Del giudizio della comunità, di questo particolare
volto della comunità, me ne sbatto la ciolla; non essendo credente, poi, non ho
un Dio a cui chiedere perdono, né Saiffedine – temo – sarà mai in grado di
farlo.
Ai buonisti offro uno spunto per una riflessione: restando a Guglionesi, nelle
condizioni in cui era, con l’aiuto che solo qualche raro singolo gli ha fornito,
che prospettive credete avrebbe avuto il nostro? Un rumeno lo soccorse per
offrirgli un riparo, che lavorava in nero per una ditta appaltatrice d’un
servizio comunale … noi tutti, invece, che abbiamo fatto per lui?
Se ne è tratta una lezione da quanto accaduto? Non credo, dato che circa un anno
dopo un cinquantenne era senzatetto e, dopo appelli rivolti ai dilettanti della
carità rimasti infruttuosi (l’ho ospitato io 10 giorni) è “emigrato” …
guglionesani, brava gente!
E adesso che sono stati condannati, pensate un attimo anche al dramma dei
“carnefici”, alle conseguenze che anche loro (sebbene non come Saiffedine)
pagheranno care per qualche istante di follia: così come non è gente perbene chi
ha assistito al pestaggio, i 2 fratelli non sono bestie.
P.S.:
Il titolo rappresenta – così mi spiegò Saiffedine – il significato del suo nome.