11/4/2002 ● Cultura
I quadri gli amici: Luigi Petrosino
E questo cos’è? – è la domanda abituale di chi viene per la prima volta a casa mia. Un appartamento di 80 mq che oggi non ha quasi più spazio per me e per mia moglie, essendo divenuto feudo indiviso di un potentissimo signore: Antonio, mio figlio, 2 anni e mezzo, quasi tre, testardo … come me. E questo cos’è? – dicono immancabilmente gli ospiti davanti alla parete del salotto-cucina: beh, quello è Luigi, rispondo quasi sempre io; è un amico, l’anno scorso eravamo colleghi all’Artistico e… L’oggetto misterioso, destinatario di sguardi increduli e obliqui, è un quadro di 70 cm x 50, fatto di due soli colori, blu e bianco. Appena arrivato in casa si è posato sulla parete e se ne sta lì da oltre un anno, con il suo terremoto di prospettive sbilenche; indifferente, testardo anche lui. Il quadro rappresenta un paesaggio notturno visto da una finestra, che appare significativamente come una sorta di croce centrale, un po’ allucinata, che sembra chiusa: ma cosa la chiudi a fare, una finestra che non sta in piedi, che balla tra dentro e fuori, in bilico tra i muri della tua stessa casa e l’universo intero? E poi: sarà chiusa davvero? Oscilla libera. E’ sempre aperta, non si può chiuderla. In nessun modo. Così l’ha voluta l’autore. Perché? La guardo meglio, a volte, quando la sera tardi interrogo il quadrante postmoderno che è appeso qualche centimetro più su per sapere che ora ho fatto: non è lei, la finestra del quadro, ad accogliere l’esterno; sembra che sia la realtà stessa ad entrare attraverso di lei, piccolo e fragile diaframma; di forza, violenta, quasi non avesse nessun pudore, nessun rispetto. Ma cosa mi arriva dentro casa da quel crocifisso rettangolo di vetro? E’ il caos del mondo, le sue rovine fumanti, il tracollo incessante, la dissoluzione del linguaggio, la putrefazione dell’amore e della conoscenza, la frana inarrestabile di ogni cosa. Lo sfacelo del mondo non ha più bisogno di entrare dentro casa nostra, perché ce lo ritroviamo addosso, e sono io, siamo noi quella finestra, quella storta figura che ingombra i quadri di blu, azzurro intenso e bianco accecante che Luigi va disponendo innumerevoli attorno a sé da anni, come si fa con tizzi e fuochi per difendere l’accampamento dall’assalto di branchi di lupi affamati sbucati dal buio che circonda. Via, gli telefono, prendo e lo chiamo, il mio amico: ha solo il cellulare, l’artista. Luigi di cognome fa Petrosino e da queste parti è famoso, vende i suoi quadri, dipinge, insegna, lascia tracce della sua presenza. L’accento campano strappa al saluto che mi risponde all’altro capo del filo un tanto così di simpatia e risento finalmente il compagno di scorribande tra luce e ombra con Caravaggio al seguito, attardato, a incalzare. Scritture celesti: lui le chiama così, le sue tele ridotte all’osso misterioso di due colori soli. E il loro nome mi piace, a me che sono un letterato perso nella bambola infinita delle parole. La cornice trabocca di ideogrammi, frasi e moncherini in lingue oscure, resti di liste della spesa, sillabe assurde brulicanti in una vegetazione fitta e invadente: è una profezia, una visione, ma più chiara di tanti discorsi, di tante buone volontà, di tanti buoni progetti. Mi ricorda chi sono, è un memento necessario per vivere sulla lama di coltello della libertà che non meritiamo ma che riceviamo in dono, noi, metà bestie, metà angeli. E’ un assillo, un grido infinito, un’ansia che supplica risposta, una voce “destinata a durare oltre ogni possibile fine”, diceva Pasolini. Gli uomini hanno, a volte, eccessi divini, imprevedibili. «Sai che vado a esporre in America, a Manhattan?». Sì, ho visto i manifesti a Termoli - gli dico - sono contento, complimenti. Dal 28 febbraio al 4 marzo in riva al nulla di cenere e vuoto di Ground Zero i quadri di Luigi Petrosino hanno portato il loro grido, il loro sbandato desiderio di perdono e di pace, non di tregua. Il mio amico pittore è stato per alcuni giorni un brandello sventolante di Ragione contro il silenzio della Distruzione e della Morte. Un pezzo di quella battaglia pulsa e sferraglia anche sulla mia parete: ripete che non siamo immuni, noi, che la lotta non è finita, che siamo in mezzo al fuoco e alla polvere ovunque siamo. Che la vita ha bisogno di uno scopo, e vuole che sia più grande del tempo che passa e del male che resta, vuole che non muoia, che non taccia lontano e inarrivabile come il cielo, ma risponda, si faccia vicino, come un familiare o un amico che il cielo sappia contenerlo in uno sguardo chiaro. Così la mia casa, vorrei avesse sempre le finestre spalancate. Più grande, mi dico, lo sarebbe davvero. Come nel quadro, che nel silenzio ripete, contro la barbarie, miste d’azzurro, le povere parole umane.