4/4/2012 ● Cultura
Nella luce della "Risurrezione": un percorso biblico che conduce alla Pasqua
Settimana Santa, le riflessioni bibliche e sociali. A cura di don Giuseppe
De Virgilio, studioso di Sacra Scrittura e docente presso il Seminario regionale
abruzzese-molisano di Chieti e della Pontificia Università Santa Croce di Roma.
In un importante oracolo Osea invita il popolo alla conversione mediante
un’immagine che allude all’idea della risurrezione: «Venite, ritorniamo al
Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci
fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare
e noi
vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2). Con espressioni simili Isaia annuncia la
futura salvezza del popolo: «Di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro
cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno
quelli che giacciono nella polvere,
perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre» (Is
26,19). Considerando le forme del linguaggio profetico comprendiamo che il
pensiero sulla «risurrezione» nasce originariamente come risposta all’enigma
della «morte». Che avverrà dopo la nostra morte? Quale destino avrà in sorte
l’uomo? Giusti ed empi sono accomunati dalla medesima sorte? Secondo la
tradizione sapienziale la speranza dei giusti si basa sulla convinzione che
neppure la morte interrompe la profonda comunione di vita con il Signore (cf.
Sal 16,23; 49,16; 73,23-24). Fermiamo la nostra attenzione su alcuni segni che
tematizzano il passaggio dalla morte a una nuova vita nell’Antico Testamento,
per poi focalizzare il senso cristiano del «vivere da risorti».
Il figlio della vedova
Un primo episodio è ripetuto in modo simile nei cicli di Elia ed Eliseo: un
miracolo di risurrezione di due bambini. Il messaggio dei due racconti
testimonia come la fede in Jhwh porta alla vita e alla salvezza degli innocenti.
Nel caso di Elia il prodigio della guarigione del figlio della vedova di Sarepta
di Sidone è collegato all’opera della provvidenza divina. Nella sua povertà la
donna accoglie il profeta e pone tutta la sua fiducia in Dio. L’esperienza
improvvisa della malattia del suo bambino permette a Elia di ricambiare il dono
dell’ospitalità con la guarigione del piccolo. Il profeta si distende per tre
volte sul piccolo e invocando il Signore ottiene il «ritorno della vita» nel
corpo del bambino (cf. 1Re 17,17-24). Similmente Eliseo è spinto a recarsi
presso la casa di una donna Sunammita che lo aveva ospitato. Il miracolo della
risurrezione del bambino morto è interpretato come l’azione benefica di Dio nei
riguardi dei giusti (cf. 2Re 4,31-37). Il Dio dei viventi interviene nella
storia umana per guarire dalle infermità e ma per salvare dalla morte.
La valle delle ossa aride
Una delle più impressionanti immagini apocalittiche della risurrezione è
rappresentata dalla visione della «valle di ossa aride» in Ez 37,1-14. La
narrazione allude al ritorno degli esiliati nella terra promessa dopo la
tragedia della distruzione del Regno e dell’esilio in Babilonia. L’immagine non
riguarda una singola persona, ma un intero popolo. Il profeta viene condotto
dallo Spirito in una pianura piena di ossa: la scena è drammatica nella sua
desolazione. La morte regna in quel luogo e una sterminata quantità di cadaveri
giacciono inanimati. Chi potrà riportarli in vita? Ezechiele si pone in ascolto
di Dio che lo invita a sperare in un futuro positivo. Egli è chiamato a
profetizzare: «Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare
in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di
voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e
rivivrete. Saprete che io sono il Signore» (Ez 37,5-6). In tal modo l’azione
dello Spirito penetra nei cadaveri e misteriosamente trasforma le ossa aride in
persone viventi. E’ il segno del popolo che risorge dal sepolcro e rivive il
ritorno nella terra promessa come un nuovo esodo (Ez 37,12).
Giona e il simbolo della balena
Un ulteriore segno che preannunzia la risurrezione è costituito dall’esperienza
del profeta Giona. Il libro si apre con l’incarico di Dio al profeta di andare a
Ninive la grande città per proclamare il giudizio divino e la conversione (Gio
1,1-2). Giona non solo oppone una resistenza spirituale, ma fugge dall’ordine
divino prendendo la direzione opposta. Dio interviene nella vicenda del profeta
e la fuga di Giona infelice imbarcato su una nave per Tarsis diventa una
«discesa nella morte». Mentre la nave sta portando Giona lontano da Dio, nel
mare si scatena una tempesta. La nave è sul punto di naufragare. Giona comprende
di non avere più scampo e chiede di essere gettato in mare. Mentre il profeta è
risucchiato nel cuore dell’abisso Dio ordina al grande pesce (una balena) di
«custodirlo nel ventre dello Sheol». Il profeta trascorre tre giorni e tre notti
nel ventre della balena e in quel luogo di morte il profeta contestatore canta
la misericordia di Dio (cf. Gio 2). Il racconto riferisce che Dio comanda al
pesce di rigettare Giona all’asciutto. Ritornato alla vita il profeta può
eseguire la sua missione a Ninive ed annunciare la salvezza di Dio. La risonanza
della vicenda di Giona e del suo insegnamento è attestata sia nel contesto
anticotestamentario (cf. 2Re 14,25) che in quello evangelico. La storia
parabolica del profeta viene riletta da Gesù nella prospettiva del compimento
pasquale (cf. Mt 12,38-42): Giona è un «segno» che anticipa l’evento della
risurrezione di Cristo.
I fratelli Maccabei con la loro madre (2Mac 7)
Il motivo della risurrezione come speranza nella vita eterna emerge soprattutto
negli ultimi libri del canone ebraico: Daniele, 1-2Maccabei e Sapienza. Il
celebre racconto di 2Mac 7, con un marcato tono didattico, offre un prezioso
insegnamento sulla risurrezione attraverso la testimonianza di un’intera
famiglia che obbedisce alla Legge di Dio ed viene perseguitata dal potere umano.
I sette fratelli Maccabei affrontano la morte pronunciando la confessione di
fede nel Signore «re dei re» (2Mac 7,9) e divenendo testimoni della comune fede
dei giusti di Israele. E’ importante sottolineare come il primo giovane,
facendosi interprete degli altri, richiama la fedeltà alle «leggi dei padri» e
per essa dona la propria vita (2Mac 7,2). Tutti gli altri fratelli insieme alla
loro madre, vedendolo spirare in quel modo, si preparano a subire la stessa
sorte confidando nelle parole di Dt 32,36: «Il Signore renderà giustizia al suo
popolo e si muoverà a compassione dei suoi servi» (2Mac 7,6). Essi mostrano come
l’obbedienza alla Torah conduce alla vita e che la morte non potrà impedire la
giusta ricompensa di Dio. In questo contesto si inserisce l’idea di
risorgere/risurrezione che ricorre in funzione della giustizia retributiva
divina (cf. anche 2Mac 3,28; 4,42; 5,10; 8,34-35; 13,8).
La sapienza e la speranza nell’immortalità
E’ soprattutto nel libro della Sapienza che il motivo della morte dei giusti si
collega con l’idea escatologica dell’immortalità e della «risurrezione dei
corpi». Il libro si apre con l’esortazione a seguire la sapienza e la giustizia
che prepara l’affermazione sul progetto di Dio e sul destino di «immortalità».
Il progetto di Dio non prevede la morte. Questa è il risultato della malvagità
umana, perchè Dio «ha creato l’uomo per l’incorruttibilità» (Sap 2,23), cioè
dotato della capacità vitale e costituito del desiderio di vivere per sempre
nella sua amicizia. In Sap 1,12-15 si esclude che il male possa essere
attribuibile a una realtà sovrumana: gli inferi (in greco: Ade) non hanno alcun
potere sulla terra. Per la prima volta qui si introduce l’idea degli «inferi»
non più associata allo sheol ebraico (il comune soggiorno dei morti), ma alla
condizione di punizione eterna riservata ai malvagi. L’origine della morte viene
spiegata in Sap 2,23-24 a causa dell’invidia del «diavolo». La condizione per la
vita eterna con Dio è la giustizia. Essa è resa possibile all’uomo soltanto
mediante il dono della «sapienza». La sapienza fa conoscere la volontà di Dio (Sap
9,13.17) e permette al credente di realizzare ciò che piace al Signore (Sap
7,27-28). Attraverso una vita giusta si ottiene l’immortalità beata (Sap
6,17-19). Di conseguenza «il desiderio di sapienza» conduce al regno (Sap 6,20),
ad una vita di comunione e di preghiera con Dio (cf. Sap 9).
Chi crede in me, anche se muore, vivrà
Le prospettive evidenziate nei segni dell’Antico Testamento vengono riprese e
rielaborate nel Nuovo Testamento, il cui centro è rappresentato dalla persona e
dalla missione di Gesù di Nazaret. Occorre sottolineare che la novità della
predicazione di Gesù nel quadro dell’ambiente giudaico del tempo. Egli annuncia
la differenza tra il corpo terrestre e l’anima celeste, affermando: «Non abbiate
paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima,
abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e
l’anima e il corpo» (Mt 10,28). «Salvare la vita» nel senso escatologico
significa considerare la morte come un passaggio ad una vita nuova: questo può
avvenire solo mediante l’evento della risurrezione. La successiva disputa
dottrinale con il gruppo dei sadducei sul tema della «risurrezione» (Mc
12,18-27) conferma la realta della vita oltre la morte, ammettendo che la
singolare condizione delle anime che «non prenderanno né moglie né marito, ma
saranno come angeli nei cieli» (Mc 12,25). Il messaggio evangelico viene
ulteriormente confermato dal’atteggiamento di Gesù stesso di fronte alla morte.
La risurrezione della figlia di Giairo, del figlio della vedona di Nain e di
Lazzaro di Betania reappresentatno segni della rivelazione del Signore: «Chi
crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in
eterno» (Gv 11,25-26).
Il buon pastore dà la propria vita
Una similitudine altamente espressiva è rappresentata dal «buon pastore» che
sceglie di donare la vita per il suo gregge (Gv 10,1-18). In questa prospettiva
possiamo considerare l’atteggiamento di Gesù di fronte alla sua morte,
preannunciato nel corso della sua missione (cf. Mc 8,31-32; 9,31; 10,32-34 parr.;
9,9; Mc 12,2-12). Gli evangelisti evidenziano la consapevolezza e l’abbandono
fiducioso di Gesù di fronte alla previsione della sua morte cruenta. Non sarebbe
possibile interpretare la missione salvifica del Cristo se non nel «dono» della
sua persona in vista della risurrezione. In questa prospettiva si stabilisce una
relazione stretta tra la dimensione «terrena» e quella «celeste», tra la realtà
«storica» dell’esistenza segnata dal limite della morte e quella ultraterrena
della «vita oltre la morte». Le parole e i segni che accompagnano la dinamica
oblativa di Cristo confermano tale prospettiva: la morte di Cristo nella sua
tragicità è da intendersi come culmine della nuova ed eterna alleanza e come
inizio di una «vita che vince» andando oltre i limiti umani. La similitudine del
«buon pastore» diventa un segno per esercitare pienamente la responsabilità
personale e comunitaria mediante la speranza della risurrezione finale.
Vivere da risorti: l’incontro del giardino
Un ultimo segno su cui fermare la nostra attenzione è rappresentato dal
«giardino» in cui avviene l’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala (cf. Gv
20,11-18). Nell’episodio della donna davanti al sepolcro vuoto possiamo legger e
alcuni tratti della dinamica cristiana. In primo luogo Maria è la donna «che
cerca» quel Gesù che «ha amato i suoi fino alla fine» (Gv 13,1). Vivere da
risorti significa «cercare Dio» nella storia e nelle persone che ci sono
accanto. Un secondo tratto di Maria è dato dalla sua presenza e dall’attesa di
un incontro. La Maddalena sceglie di «stare» nel giardino, di fronte a quel
sepolcro, Ella è disposta a cercare il cadavere del suo Signore e a non
staccarsi più da Lui. Domina in questa attesa ancora l’idea della morte, il
rimpianto per un’occasione ormai irrimediabilmente perduta: Maria non deve
ancora fare l’incontro, il salto della fede pasquale nella risurrezione. Un
terzo tratto è costituito dal pronunciamento del «nome» Maria (Gv 20,16) che ha
dato senso all’attesa e ha riempito la solitudine di speranza. La voce di Gesù
risorto vince in Maria ogni confusione: non è un fantasma, è il Signore e
Maestro in persona che chiama. Vivere da risorti significa accogliere la
chiamata di Dio in noi. Un ultimo tratto è rappresentato dalla risposta della
Maddalena, espressa con parole e gesti. L’esultanza della donna non concede
dubbi di fede: colui che la sta chiamando è davvero il suo Maestro vivo, l’Unico
Signore crocifisso e risorto. Il «si» di Maria è stato preparato da lungo tempo:
la sua ricerca, la condivisione del dolore e del distacco, l’attesa paziente
dell’incontro hanno costituito delle precise tappe del cammino di fede: ora la
donna può dire il suo «eccomi» a Gesù, senza riserve né timori. Alla donna nel
pianto è affidata ora la splendida notizia della risurrezione di Cristo e della
paternità di Dio che «ha risuscitato il proprio Figlio dai morti» (At 3,15). In
un giardino Dio ha dato inizio alla vita dell’uomo nel mondo (cf. Gen 2) e in un
altro giardino il Risorto dà inizio alla «nuova vita».
Giuseppe De Virgilio