8/9/2011 ● Cultura
Era di Settembre... 2011
Ascoltate o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità (Proverbi 4,1).
Quel fine settimana lo avevo programmato con Gigi da tempo ma avevo avuto il
suo ok definitivo solo due giorni prima.
Ero trepidante per questa prima esperienza in comunità ma adesso
inspiegabilmente mi assaliva il timore di non esserne all’altezza.
Il corridoio sapeva di pulito ed il profumo si sprigionava dalla lavanda che si
trovava sia sul viale esterno che nei sacchetti di lino grezzo distesi sui
mobili della casa.
Giovanni, che mi faceva strada, mi indicò la stanza e poi il letto che mi era
stato assegnato.- Siamo in quattro, il quinto è vuoto perchè Antonio è in
“verifica” ! -. Significava che era tornato a casa sua per alcuni giorni a
verificare i risultati del lavoro fatto fino allora.
Appoggiato lo zaino a terra, mi voltai per ringraziarlo ma non lo trovai dietro
di me. Lo sentii invece saltare le scale quattro alla volta, andava di fretta
perchè aveva il turno di “apparecchia” in mensa.
Mi guardai intorno, la pulizia e l’ordine erano di casa lì, tanti animaletti di
peluche che mi osservavano dai lettini e sul muro a mò di quadro c’era una
chitarra classica, senza la cassa superiore e senza le corde.
Il suo fondo era stato dipinto con la tecnica della tempera spatolata e vi era
raffigurata una grande statua della libertà che emergeva dalle onde impetuose
dell’oceano.
Non sembrava una cameretta di “tossici”, somigliava più alle camerette dei
bambini.
Con me avevo portato poche cose, l’essenziale.
Le disposi con diligenza occupando i cassetti del mio comodino e infilai lo
zaino sotto il letto.
Da diverso tempo facevo parte dell’Associazione Faced di Termoli cui mi ero
avvicinato in seguito a problemi di tossicodipendenza che si erano avuti nella
mia famiglia e intorno a me. L’ambiente associativo mi piacque da subito perchè
era molto attivo ed il lavoro che si faceva diventava anche un lavoro su se
stessi...e che lavoro!
Provate a proporre a qualcuno di cambiare stile di vita, scale valoriali o
semplicemente comportamenti virtuosi da intraprendere contro il fare comune
senza esserne a vostra volta convinti e praticanti.
Il risultato può essere disastroso per entrambi le parti.
Come dice l’indimenticabile Faber nel cantico dei drogati, e che mi piace
allegare in fondo all’articolo, non è nè bello e nè conveniente “giocherellare a
palla con il proprio cervello”.
Sappiate che, fra le tante, esiste la crisi degli operatori (il termine è in
inglese e ve lo risparmio), anch’essi si sottopongono periodicamente a dei
momenti di controllo e revisione.
In ambiti così delicati è facile fare danni anche senza volerlo, per cui meglio
far poco, ma di qualità.
Da poco avevo completato, insieme ad altri volontari, il corso di abilitazione
di “operatore di comunità terapeutica” che era stato sollecitato e promosso dal
gruppo “Soggiorno Proposta” dei Salesiani, alla cui metodologia facevamo
riferimento per il recupero delle tossicodipendenze.
A Roma avevamo avuto la possibilità di confrontarci con cammini comunitari
storici come San Patrignano di Muccioli (allora c’era ancora Vincenzo ed era
nell’occhio del ciclone mediatico) o la Comunità Incontro di Don Pierino e
questo ci aveva molto stimolato perchè, anche se i metodi differiscono, il fine
rimane il medesimo: aiutare chi si trova in difficoltà a riprendere in mano la
propria vita di uomini e donne adulte.
Insomma avevo già una discreta esperienza sul campo ed ero pieno di nuove
nozioni metodologiche ma il soggiorno in comunità mi mancava e sapevo che
sarebbe stato un altro importante momento di crescita per me.
Avevo deciso di lasciare fuori dal cancello tutto quello che ero e condividere
insieme agli altri ragazzi in gioia e semplicità il tempo che mi veniva concesso
e con questo spirito lo vissi.
Sceso al pianterreno, trovai un gruppo con tastiera, chitarre e bongas.
Provavano alcuni canti nuovi per la messa e per un piccolo lavoro teatrale che
volevano mettere in scena. Qualcuno tra di loro che mi sapeva strimpellatore di
chitarra mi invitò a suonare con loro ma io declinai cordialmente perchè se la
cavavano bene anche senza di me. Più che un coro erano una coralità d’intenzioni
ed un elemento aggiunto come me ne avrebbe spezzato la sintonia. Rimasi seduto
ad ascoltarli fino a quando Francesco, un operatore interno alla comunità mi
chiamò perché farmi fare il giro che mi aveva promesso.
Mi portò a vedere la vigna di montepulciano e trebbiano toscano, l’oliveto da
poco entrato in produzione, l’orto insieme alla serra, gli animali da cortile, i
maiali. Arrivati alla grande voliera costruita, piena di pappagalli, canarini e
cardellini, ci mettemmo seduti sotto un grande ciliegio ed accendemmo una
sigaretta (all’epoca fumavo). Rimanemmo in silenzio a goderci la pausa e poi
Francesco disse- Ascolta!... Hai sentito il clacson?- ed io- Certo che si , c’è
l’autostrada laggiù a valle!.
Fece un’ultima lunga boccata che espulse lentamente dal naso mentre torceva a
spegnere la sigaretta a terra. Scrollò la cicca e la mise in tasca, l’avrebbe
poi buttata nell’apposito raccoglitore. Riprese – Perché uno dovrebbe suonare in
autostrada su un tratto, per giunta anche senza curve?- Non lo so, Francè, ma
che vuoi rifarmi l’esame di guida?- Si fece una risata- Scemo! quella è
l’autostrada mica le stradine di Guglianese!- Senti, a parte il fatto che il mio
paese si chiama Guglionesi, cosa vuoi che ne sappia io della ragione per cui uno
decide di suonare il clacson, per quanto ne sappiamo può anche essere uno
svalvolato !- Si fece serio- No Giò, salutano noi...Chi ci conosce ed apprezza
il lavoro che si fa qui, ci suona per ricordarci che non siamo soli, e che il
mondo esterno aspetta il nostro ritorno a riprenderci il posto che ci
appartiene. Sapessi quanto fa bene ai ragazzi sentire queste strombazzate
inaspettate!.-
Si avvicinarono due ragazzi per chiedergli le sigarette, lui aprì un minuscolo
taccuino a quadretti ed accanto ai nomi aggiunse una nuova x, la regola era
massimo dieci siga al giorno.La comunità non è un carcere per cui come si chiede
di entrare si può anche uscirne ma il lavoro su di se comincia da questa fedeltà
alle regole. Esse aiutano a riordinare il vissuto, a gestire il tempo e le
pulsioni oltre che a rispettare gli altri nella vita in comune.
Notai, di sguincio, che sul taccuino Francesco aveva riportato anche il suo di
nome, segno del lavoro che anche lui stava facendo su di sé, accanito fumatore.
-Scusami Giò, adesso devo andare ad accompagnare dei ragazzi in ospedale per
delle visite, ci vediamo dopo!-.
Tornai da solo indietro, fino ai laboratori dove incontrai ragazzi intenti a
sferruzzare per realizzare i sottobicchieri. Aldo, che avevo conosciuto in
accoglienza, era molto orgoglioso di come procedeva il suo lavoro e insistette
per mostrarmi la tecnica della catenella. Io ci capii poco ma mi stupii molto
della sua bravura quando osservai le sue enormi mani che tormentavano l’esile
uncinetto.
La campanella suonò, era l’avviso che la cena era pronta. Ci avvicinammo insieme
al refettorio e qui ritrovai alcuni ragazzi che conoscevo da fuori ed altri che
avevo conosciuto al mio arrivo. Fecero a gara nel presentarmi agli altri ed io,
mentre facevo incetta di abbracci e strette di mano, mi resi conto che mai avrei
ricordato tutti i loro nomi, ma il calore umano che mi davano quegli abbracci e
quei sorrisi non lo avrei mai più dimenticato.
L’atmosfera era festosa, il lunghissimo tavolo colorato dai sottobicchieri
graziosi e colorati davano nuova vita anche alle trasparenti bottiglie d’acqua.
Il giorno prima c’era stata la visita parenti con la messa, il pranzo e
l’incontro con cui Gigi ci ricaricava tutti quanti.
La maggior parte dei familiari era ripartita in serata ma qualcuno si era
fermato anche oggi.
I ragazzi e le ragazze di turno avevano già cominciato a portare in tavola,
quando Gigi entrò.
Gigi, al secolo don Luigi Giovannoni, è l’anima di questa realtà. Il suo
ingresso venne salutato con un’ovazione e lui con il suo sorriso a trentadue
dentoni tuonò – Allora, figlioli si mangia?...Ho una fame che mi mangerei un
bue!.... forza facciamo la preghiera di ringraziamento a Dio!-. Avevo incontrato
più volte questo sacerdote Salesiano, in varie occasioni istituzionali ma, a
casa sua era un’altra cosa. Mi ricordava la figura di un padre, un padre di
quelle famiglie contadine di un tempo cariche di figli. Le maniche della camicia
sempre arrotolate fino ai gomiti, le mani quadrate, dita tozze e polsi da
fabbro. Appena arrivava, i ragazzi gli si stringevano attorno, una presenza
fisica rocciosa, ma al tempo stesso amorevole e rassicurante.
Gigi, come lo chiamano tutti affettuosamente, è uno che dice quello che pensa e
fa quello che dice.
Con il suo forte accento ciociaro concluse, mentre si accomodavano a tavola, un
discorso evidentemente già iniziato con alcuni genitori di ragazzi.-
Accidenti!...io devo pensare al bene dei miei ragazzi, fuori c’è troppa gente
che gioca sulla loro pelle,...io gli dico la verità perchè la verità è una e,
conoscendola, ognuno si organizza a non farsi più fregare!- ed ancora – Mica
volete che restino a vita, qui con me!, devono andarsene a vivere la loro
vita,... poi magari tornano a salutarmi con i fiji e la famija che avranno
costruito!-.
Cos’altro è un padre se non questo?
Quella sera mi inserirono nel turno di “sparecchio” e dopo le pulizie mi unii a
tutta la comunità disposta nel salone per l’incontro conclusivo della giornata.
L’argomento principe e molto atteso era sugli echi prodotti dalla visita parenti
del giorno prima.
Le cose emerse dall’incontro furono tante e non tutte di segno positivo.
Nonostante le apparenze allegre e festose, i coinvolgimenti emotivi erano stati
tanti ed incredibilmente variegati. I ragazzi esprimevano le emozioni e
sensazioni vissute ognuno a modo proprio, qualcuno anche tra i pianti e
singhiozzi. Tutti però lo facevano liberamente e a volte dolentemente, consci di
poterlo fare in quell’assemblea dove non sarebbero stati giudicati o derisi.
Io mi sentivo uno di loro, seduto a terra a gambe incrociate, le schiene
appoggiata le une alle altre quasi a sorreggerci a vicenda, a far condivisione,
fratellanza. Famiglia.
Mentre ascoltavo le varie testimonianze, guardavo dentro di me a constatare come
avevo fatto tanto nel mio percorso personale ma che tanto restava ancora da
fare.
Il disagio può esplicitarsi nella droga, nell’alcol, nella violenza o anche
nell’indifferenza ed apatia ma resta sempre uno stato esistenziale che ti
impedisce di vivere da uomo libero. Non ti permette di scoprire e gustare il
progetto che Dio ha su di te.
Ti impedisce di volare con le tue ali e scoprire la bellezza che hai dentro di
te e che puoi trovare nei tuoi fratelli.
Gigi aveva ascoltato in silenzio ed era intervenuto brevemente solo quando gli
era parso fosse importante. Chiese, allora al segretario redattore di turno di
leggerci quello che aveva scritto. Si usava che, a rotazione, uno dei ragazzi
redigesse una breve relazione sul librone che tenevano sul tavolo in sala.
Quella sera era toccato a Ernesto che non essendo abituato a leggere in pubblico
prese a balbettare in siciliano – Ieri, l la vv visita parenti ci fu...- in un
altro contesto avrebbe suscitato l’ilarità di tutti ma lì non rise nessuno
–Ernesto, prendi fiato e ricomincia senza fretta, noi non abbiamo fretta,
possiamo aspettarti anche tutta la notte!- Gigi sdrammatizzò il momento di
imbarazzo, affogandolo in una risata collettiva, Ernesto rinfrancato riprese e
concluse.
La mattina in cui andai via lo feci velocemente perchè sentivo le lacrime pronte
a debordarmi dagli occhi. Avevo lo zaino sulle spalle ma quello che sentivo
veramente pesante era il cuore pieno di gratitudine ed amore per quel luogo e
per quello che rappresentava. La pretesa che hanno queste poche righe di
racconto è unicamente quella di farvi dare una sbirciatina dentro il mondo delle
strutture di recupero che appaiono ai più, come dei luoghi chiusi dove i
“malati” vanno a curarsi con misteriose medicine.
Non è così, le comunità sono luoghi familiari di crescita sia per chi è ospite
sia per chi vi presta la propria opera. Luoghi di confronto e di
riappropriazione della propria condizione di essere umano con tutte le
limitazioni che ne derivano ma anche con tutta la regalità che ci deriva in
quanto figli di Dio, fatti a sua immagine e amati da lui sempre e comunque.
Una vecchia canzone di chiesa diceva che quando siamo stanchi per il cammino
faticoso il Signore non ci lascia, si siede e ci aspetta sorridendo. La sola
medicina che viene somministrata a volontà anche nei rimproveri più duri si
chiama amore.
Avevo cominciato a scrivere questo articolo prima ancora che si sapesse della
visita delle reliquie di San Francesco e che si organizzassero i vari eventi che
si sono succeduti nei giorni scorsi, come la visita dei ragazzi della comunità
“Il noce” di Termoli. Certe coincidenze sono per me evidenze che confermano la
necessità di trattare l’argomento, in questo caso,il disagio giovanile.
L’argomento è sicuramente di quelli spinosi. In modo trasversale per tanti culi
flaccidi inchiodati sulle poltrone del potere, non è un argomento conveniente da
affrontare in campagna elettorale ma noi sappiamo che esiste e che non possiamo
continuare a nasconderlo ancora sotto il tappeto. Di questi giorni è la notizia
che anche Andrea Muccioli ha deciso di mollare, il peso di una realtà come
quella di San Patrignano non può gravare sulle spalle di un solo individuo. Ogni
fondatore ha visto proseguire la propria opera da associazioni, confraternite,
cooperative o altro che siano gruppi di persone ma lo Stato che dovrebbe
garantire e tutelare questo passaggio, rimane il grande latitante.
La sanità pubblica non paga le rette e le strutture vanno avanti solo grazie
alla provvidenza divina ed al sistema dell’auto-aiuto con il volontariato.
La situazione economica delle comunità è di molto peggiorata negli ultimi anni e
molte di esse hanno grosse difficoltà a restare aperte.
Un appello accorato a tutti quelli che hanno tempo e volontà è quello di
impegnarsi in attività sociali rivolte a promuovere l’Uomo.
Oggi che non siamo più cittadini ma consumatori come i polli in batteria, non
abbiamo che l’imbarazzo della scelta del settore.
A pochi chilometri dopo l’uscita per Ortona, sul ciglio sinistro per chi va in
direzione Pescara, si può notare un grande casolare con un bel vigneto, quella è
la comunità S.Pietro. Quando ci passate, fate una bella e lunga strombazzata di
clacson, decine di cuori di carne vi diranno “grazie”.
Cantico dei drogati
(In "Tutti morimmo a stento", Bluebell Records, 1968)
Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi
quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie.
Io che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere.
E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore.
E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Quando scadrà l'affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.
Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello.
Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell'infinito.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Tu che m'ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.