13/7/2011 ● Cultura
Province: no alla difesa del passato, sì al cambiamento. Il Molise nella "Marca Adriatica"
“Perché non si parla di riduzione degli enti politici? E’ facile
rispondere: perché una parte esigua della nostra classe dirigente pretende di
dedicarsi alla politica come fonte di reddito. E non c’è posto per tutti… Pochi
sono quelli che potrebbero affrontare – nello specifico – la sfida di candidarsi
in entità regionali più ampie. Molti pretendono di continuare a diventare
consiglieri regionali con 800 voti” (così Sergio Sammartino su “Forche
Caudine” – il sito dei romani d’origine molisana). L’autore che ho citato è un
tenace assertore della riunificazione del Molise con l’Abruzzo partendo dalla
constatazione che oggi esiste una concorrenza internazionale che ha stravolto
gli assetti economici dell’Occidente. Occorre quindi dare corso a trasformazioni
di adeguamento non potendoci permettere di mantenere apparati politici inutili.
“Crediamo che il bene dei molisani – sottolinea Sergio Sammartino –
sia recuperare una area di attività, di scambio e di identità più ampia che dia
loro maggior respiro culturale, politico ed economico”.
Personalmente propendo per una cooperazione interistituzionale di macro-area,
secondo un modello di progressiva integrazione delle decisioni strategiche di
interesse reciproco con le regioni Abruzzo e Marche, che non escluda in futuro
la fusione di più regioni (Art. 132 della Costituzione). Ciò premesso, il titolo
di questo articolo vuole richiamare l’attenzione del lettore in primo luogo
sulla necessità di ridurre le province. E allora ben vengano le proposte delle
forze politiche che condividono questo obiettivo affinché spieghino a quante
province saranno ridotte le attuali 110, quali di esse dovranno aggregarsi in
una sola, quali compiti si intendono riconoscere agli enti in questione. Di
certo l’eliminazione o la riduzione delle province non può essere un’operazione
fine a se stessa, ma deve essere inserita in una cornice di riordino generale
degli enti locali. Una scelta, questa, che non deve essere dettata solo da
esigenze di contabilità dello Stato, ma da una valutazione strategica volta a
individuare un nuovo tipo di ente intermedio. Si potrebbe pensare ad una legge
che introduca soglie rigide a carattere demografico per ridurre il numero delle
province e per cambiarne radicalmente il volto, abolendo gli attuali consigli
provinciali sostituendoli con l’assemblea dei sindaci del territorio in modo da
ridurre i costi e l’entità del personale politico, per un maggiore raccordo tra
province e comuni. Non, quindi, un nuovo distributore di poltrone ma una realtà
amministrativa molto diversa e più funzionale ai bisogni di cittadini e imprese.
La riflessione che viene fatta da chi propone l’eliminazione delle province è
che negli ultimi decenni si è assistito alla proliferazione dei livelli di
governo sub-centrale: alla regione, ai comuni e alle province, si sono aggiunte
le comunità montane, le unioni di comuni, le gestioni associate dei bacini, gli
enti di bacino (per i servizi idrici integrati e lo smaltimento dei rifiuti), le
Asl e i costi amministrativi connessi alla moltiplicazione dei livelli di
programmazione e gestione dei servizi pubblici. Tali costi non sono
trascurabili, in quanto gli organi direttivi di questi enti sono spesso
pletorici. Inoltre, gli enti c.d. ‘monofunzionali’ non hanno poi assorbito del
tutto le competenze degli enti locali sovrastanti (regione e provincia) nelle
materie in cui operano. Ciò rilevato, non porta però automaticamente ad
affermare che le province dovrebbero essere soppresse.
Una soluzione ragionevole potrebbe basarsi sui seguenti punti:
1) assorbimento delle funzioni delle province in quelle delle città
metropolitane, quando istituite;
2) riaccorpamento delle province di minore dimensione, stabilendo con legge un
limite di popolazione al di sotto del quale non si può procedere alla
costituzione dei medesimi enti;
3) mantenere in vita le amministrazioni provinciali in tutti gli altri casi
rimarcandone il ruolo di coordinamento e programmazione dei servizi di area
vasta. Paradossalmente, sarebbe meglio abolire regioni come il Molise (con una
popolazione di 320 mila abitanti in tutto) e potenziare le province.
Però c’è la questione delle funzioni legislative regionali cui la provincia
potrebbe assolvere meglio. Isernia, una provincia che non arriva a 100 mila
abitanti, a tutt’oggi non ha funzioni delegate dalla regione. Andrebbe quindi
aggregata al capoluogo regionale Campobasso, salvo che nel suo territorio
affluiscano ulteriori cittadini residenti per effetto del passaggio sotto la sua
giurisdizione di alcuni paesi del basso aquilano che aspirerebbero a farne
parte. Si consideri inoltre che, in un futuro scenario di macro-regione, Pescara
potrebbe assurgere ad un ruolo di amministrazione, coordinamento e
programmazione di area vasta. In Francia, ad esempio, i comuni costituiscono la
base dell’organizzazione amministrativa (insieme alle regioni e ai
dipartimenti). Le regioni sono concentrate in macroregioni e chi scrive queste
note ha avuto modo di frequentare per parecchi anni la regione
Provence-Alpes-Cote d’Azur. Anche in Italia dovremmo ragionare in termini di
macroarea e le forze politiche dovrebbero farsene una ragione. Qualche barlume
di speranza sembra intravedersi.
Il presidente della giunta regionale del Molise, Michele Iorio, intervenendo al
convegno di Pescara del 13 giugno scorso dal titolo “Marca Adriatica- Abruzzo,
Marche, Molise al futuro”, ha dichiarato: “In tempo di federalismo non c’è
più spazio per l’enfatizzazione delle differenze e per ribadire continuamente il
concetto di autonomia. E’ invece imperativo fare ricorso a tutte le possibili
iniziative che consentano ai territori di svilupparsi lavorando in sinergia tra
loro per fare massa critica e creare sviluppo e crescita socio-economica”.
Il presidente degli imprenditori molisani si è schierato per una scelta federale
attuata “anche attraverso una federazione sovraregionale che consentirebbe
forte rappresentatività delle aree territoriali, maggiore unità d’intenti su
progetti sovrastrutturali e più peso nelle relazioni con Europa e resto del
Mondo”. “Un’occasione che va colta in tempi brevissimi quella della
‘Marca Adriatica’ o per il Sud dell’Europa sarà il disastro – ha commentato
il Senatore Mario Baldassarri -. L’Adriatico deve riappropriarsi del suo
ruolo e pensare alla riliberalizzazione dei Balcani e poi iniziare a ragionare
per macroregioni… Cogliere l’opportunità significa investire in infrastrutture
fisiche e nella valorizzazione delle produzioni e dei distretti. La politica
deve riflettere sul tessuto socioeconomico e fare dell’Adriatico la piattaforma
logistica dei flussi di globalizzazione”. Il sindaco di Pescara Luigi Mascia
da parte sua ha aggiunto: “Pescara già oggi rappresenta il cuore pulsante, il
punto di riferimento di una Macroregione Adriatica”. Il consigliere
regionale Michele Petraroia ha proposto “l’avvio di una stagione nuova per
costruire una dimensione più ampia del Molise che coinvolga l’Abruzzo e le
Marche e dia vita alla Regione Adriatica”. Per concludere, è vero che i
cambiamenti debbono essere meditati, ma non facciamo trascorrere tempi biblici
per dare corso, nell’interesse del bene comune, al riordino amministrativo
ovvero più propriamente alle riforme dell’assetto politico-istituzionale delle
regioni Abruzzo, Molise, Marche (auspicabilmente federate nella ‘Marca
Adriatica’) e delle altre regioni italiane.