11/7/2011 ● Cultura
Era di Luglio... 2011
Un tozzo di pane secco con tranquillità è meglio di una casa piena di banchetti festosi e di discordia. (Prov.17,1)
Non è passato molto tempo, ma chi può dirlo?, il tempo ha sempre una
dimensione relativa, nel senso che ha un valore solo se messo in relazione a
qualcosa che funge da unità di riferimento, di misura.
Ad esempio: per produrre la quantità di cambiamenti che si sono avuti tra il
‘600 ed il ‘700 e che furono allora, definiti “fulminei”, oggi impiegheremmo
meno di vent’anni.
Grazie alle nuove tecnologie ed alla rete che ci ha catturati tutti, pesci,
granchi e cozze è possibile interagire con chiunque in tempo reale per cui gli
accadimenti e i cambiamenti sociali e culturali sono estremamente velocizzati
rispetto al passato.
Pensate alla rivoluzione che internet ha innescato nel mondo arabo e, quando
parlo di innesco, mi riferisco anche al significato del termine in purezza.
Resta un limite, e su quello possiamo farci ben poco, il limite derivante
dall’intrinseca debolezza strutturale umana.
Noi, stirpe di Adamo, siamo esseri progettati e concepiti dal “Supremo
Architetto” per vivere in sintonia ed armonia con la natura che ci circonda per
godere di quei rapporti affettivi che rendono piacevole la condivisione delle
nostre unicità con i nostri simili.
Più semplicemente possiamo dire che i nostri ritmi biologici hanno una capacità
limitata di adeguamento.
Non possiamo reggere a lungo la frenesia a cui, invece, siamo costantemente
sottoposti ed è certo che l’affanno che ci autoprocuriamo, se non controllato,
ci ucciderà tutti e la morte può essere non solo fisica ma anche spirituale e
morale.
Alcuni mesi fa, facendo pulizia nel mio studio, ho ritrovato un flow sheet di un
impianto industriale che ho disegnato a mano diverso tempo fa su carta lucida,
usando l’inchiostro di china.
Rappresentava il frutto di tante ore di lavoro e a malincuore presi ad
accartocciarlo allo scopo di ridurne il volume prima di infilarlo nella busta
tra le cose da buttare.
Incuriositi dal rumore che producevo, i miei bambini hanno abbandonato la
play-station e si sono avvicinati.
Alla loro richiesta di spiegazioni ho illustrato le tecniche di disegno tecnico
prima dell’avvento dei computer e, mentre lo facevo, notavo i loro occhi che si
spalancavano sempre di più fino a quando, all’unisono, hanno sbottato - Non
c’erano i computers?...ma che dici?...come al solito ci stai prendendo in
giro,... vero papà?
Mi sono sentito un reduce del jurassico.
Oggi voglio far memoria di persone e avvenimenti accaduti non troppo tempo fa,
nella consapevolezza di parlare di un mondo che non esiste più.
Quella notte di luglio di 35 anni fa stava trascorrendo tra il caldo che non
faceva dormire e continui cambiamenti di posizione alla ricerca di un angoletto
del letto ancora fresco. I rivoli di sudore che dalla fronte bagnavano il
sottomento, si perdevano poi tra cuscino e lenzuola.
L’angoscia mi assaliva con la consapevolezza che il mattino sarebbe arrivato
presto ed il tempo dedicato al riposo era ormai prossimo a finire.
La nostra casa si trovava a piano terra, faceva parte di quel complesso
architettonico che fu il maestoso convento dei Padri Celestini con l’annessa
chiesa dell’Annunziata.
Credo che anticamente fossero degli ambienti dedicati a magazzini o stalle,
considerato che si affacciavano sull’antico orto, per capirci, lì dove oggi
hanno piantato quel palazzone di sei o sette piani, alle spalle del distributore
di benzina.
Avevamo una sola finestra ed era stata chiusa perché il “fagugn” che soffiava di
fuori era caldo e soffocante.
Più che dare sollievo spossava la gente dalle fondamenta.
Disperato decisi di fare un ultimo tentativo.
Mi sdraiai sul pavimento con le sole mutandine e la frescura che recuperai mi
conciliò il sonno. Alle ossa ci avrei pensato dopo.
Quello che mi sveglio fù il rumore che mia madre faceva in cucina, non si curava
di evitarlo o contenerlo, perché era ormai ora di alzarsi.
Il sole stava quasi per alzarsi,... era già tardissimo!.
Il terreno dove eravamo diretti era appartenuto ad un signore che si chiamava
Pasqual du Ciagulon (al secolo Zarlenga), i miei lo avevano acquistato con i
loro tanto sudati risparmi.
Il merito che aveva avuto mio padre nell’averli guadagnati era pari a quello di
mia madre che li aveva saputi risparmiare portando avanti una famiglia
monoreddito come la nostra.
Erano quelli gli anni in cui tramontavano le bestie da soma come mezzo di
trasporto e di lavoro. Cominciavano ad affermarsi i mezzi a motore.
Le moto, anzi più precisamente, i ciclomotori erano il miraggio della classe
lavoratrice, anche perchè gli stipendi non permettevano altro.
Le auto erano ancora troppo costose, in paese se ne vedevano raramente ed
appartenevano ai più facoltosi e ai dipendenti statali.
In caso di estrema necessità c’era un signore che le noleggiava, nel senso che
ti portava dove volevi in cambio di un compenso da stabilire prima.
Il mezzo di trasporto di mio padre era la sua Ducati Sport 48cc rossa fiammante,
che aveva comprato a rate e di cui andava fiero.
La parcheggiava sul marciapiede accanto alla porta di casa in via Pastrengo al
n°24 e quando aveva tempo, gli dedicava molte attenzioni manutentive.
Il ritorno di papà era per noi figli il segnale per interrompere il gioco e
tornare a casa per la cena.
Per il pranzo non rientrava a casa : la mattina mamma glielo preparava
disponendolo con cura nella mandrella che chiudeva annodando a croce i quattro
angoli, insieme alla bottiglietta da un quarto di vino con chiusura a scatto con
su scritto “Gassosa... Eva Coppa”.
La sera, invece, trovava la cena calda.
Anche se erano appena le sei di pomeriggio, si cenava e guai a mancare, papà
diceva che non gli calava se prima non ci vedeva tutti a tavola.
Una sera di settembre dell’anno precedente, arrivò come al solito cavalcando la
sua Ducati sport.
Invece di salirla sul marciapiede si fermò accanto a me che stavo giocando a
palla avvelenata sul muro di Donna Adelaide e mi fece segno con la testa di
saltare in sella dietro di lui.
Lo feci immediatamente lanciando la palla a mio fratello.
Nell’invertire la marcia salutò con il rauco cicalio mia madre che nel frattempo
s’era affacciata sulla soglia di casa.
Partimmo ed era evidente che il viaggio era stato concordato in precedenza con
mia madre.
I miei genitori erano di quelli che davvero cominciarono con niente, mia madre
racconta che appena stabilitisi in paese dalla campagna, non avevano che due
sedie ed un tavolino da bar imprestato da una zia di mio padre: zia Carolina
che, bontà divina, è ancora in vita.
Le difficoltà affrontate e superate insieme avevano cementato il loro rapporto
in modo perfetto e quand’è così servono poche parole.
Ero avvinghiato alla sua schiena, la guancia a contatto con la spessa giubba di
pelle che gli era stato regalato dal suo amico Ciro il postino, storico quanto
rimpianto personaggio del nostro paese. Di Ciro, quando ero bambino apprezzavo
la gentilezza, poi da adulto, la competenza e l’intelligenza che andavano ben
oltre il semplice lavoro da postino.
Le Poste Italiane fornivano dei giubbotti per le giornate più dure e lui in
qualche modo riuscì a procurarsene uno da regalare a mio padre.
Mai regalo fu più gradito e utilizzato.
Il mondo scorreva veloce davanti ai miei occhi ed il vento rubava parte delle
frasi mentre papà parlava ad alta voce muovendo la testa da una parte all’altra
indicandomi le cose.
Io, anche se non capivo tutto, annuivo ad ogni sua richiesta di assenso, lo
facevo per non dargli dispiacere, mi sembrava da ingrato costringerlo a
ripetere.
Abbandonata la strada asfaltata che prosegue per Larino, prendemmo una stradella
sterrata dove le impronte lasciate dagli zoccoli dei muli nel fango, ora
indurito al sole, facevano sobbalzare e tremare la moto che zigzagava a cercare
il percorso meno accidentato ed un equilibrio continuamente da recuperare.
Alla mia più volte ripetuta domanda di dove stavamo andando papà divagava,
evidentemente voleva farmi una sorpresa.
L’ultimo tratto lo facemmo stando dritti sui pedalini in modo da facilitare
l’equilibrio del mezzo.
Arrivati, chiuse la valvola della miscela, sgasò il carburatore per evitare
l’ingolfamento e mise con cura a cavalletto la moto su due sassi piatti
raccattati sul ciglio della strada.
Proseguimmo il viaggio a piedi per un sentiero, tenendoci per mano.
Entrammo in un terreno appena arato, chiamò ma non c’era nessuno.
Da principio quasi pianeggiante, diventava poi parecchio scosceso.
Facevo difficoltà a camminare tra le grosse zolle, i gajavoun, sollevati di
recente dall’aratro, ma per contro, la serata era fresca e gradevole.
Attraversammo una zona alberata con decine di maestosi olivi varietà ramgnel,
salagn,qurnarell, guilva doce e guilva vacc, che mio padre datò essere
“giovani”, - non più di ottant’anni – ed ancora, alberi da frutto come ciliegie,
percoche, fichi vallaran e prcssott, mele di Sant’Antonio, pere spadon, brutt e
bun, cocc d’asn e visciole, vrllngok, gulance e mennl.
Poi ancora altro terreno arato e nuovamente olivi e, questi ultimi, più vecchi
dei precedenti.
Tra gli oliveti erano presenti molte viti americane arnasctcc, e questo perché
anticamente si usava piantare gli olivi a sckepp, quindi a lenta crescita, in
contemporanea con la vigna.
Era un’intelligente espediente per sfruttare il terreno come vigneto in attesa
che la dimensione degli alberi, dapprima masql e poi fammn, proibisse con
l’ombreggiatura consistente, la vita stessa delle viti.
Il panorama era aperto a sud verso “u foss da mennl” e la valle del fiume
Biferno e a nord avevamo tutto il paese che ci sovrastava.
La prospettiva dal basso verso l’alto ne aumentava a dismisura l’imponenza.
Eravamo ormai arrivati in fondo alla valle, mi padre si fermò e ci voltammo ad
osservare l’appezzamento nella sua interezza.
La sua estensione era di quattro ettari ed a me sembrava immenso- Che ne pensi?
- ed io - penso cosa papà?- lui riprese -Che ne pensi di questa terra?-non
trovando altro -penso che è grande,… mi sono stancato a camminare - e lui -
senti Giorgio, ti piacerebbe se tutto questo diventasse nostro?-,-scherzi?..certo
che mi piacerebbe!- .
Visibilmente sollevato e soddisfatto mi misie la mano sulla spalla e sottovoce
sentenziò - Allora diventerà nostro, ma tu dovrai aiutarmi!- ed io più che
convinto - certo che lo farò, stai tranquillo papà, ti aiuto io-.
Ecco quella era stata la mia promessa ed ora non potevo certo farmi indietro. Il
lavoro a cui dovevamo far fronte in quella calura di Luglio era la mietitura a
mano del nostro grano. Come si dovesse fare per me era un mistero ma mi fidavo
dell’esperienza dei miei.
La superficie seminata era di circa 2 ettari (20.000 mq), ai miei occhi era una
follia affrontarla armati di sola falce ma sia io che i miei fratelli li avremmo
affrontati facendo la nostra parte con entusiamo ed abnegazione.
Dopo aver fatto velocemente colazione risalivamo il paese e da petticece
andavamo a u’ prtll, dove u fagugn ci nasce.
Lassù il colpo d’occhio era quello del giallo diffuso e si avvertiva fortemente
l’odore di frumento che arrivava come messaggero di un’altra giornata torrida da
affrontare.
La speranza di tutti era che cambiasse vento del sud, per i disagi fisici che
procurava e perché dopo un lungo soffiare di solito portava la pioggia e sarebbe
stato deleterio per tutti.
Guai!, il grano si sarebbe “lavato” e perdendo la rosso-bruna lucentezza
superficiale, avrebbe perso molto dei pregi nutrizionali e quindi, del suo
valore economico.
Lasciavamo il paese alle spalle scendendo i tornanti delle ripide pendici della
nostra collina.
Dai pressi della casa laboratorio lanificio “d’ catarr”, ruzzolavamo fino ad
incrociare la provinciale asfaltata, per ributtarci a capofitto lungo la
scorciatoia che da sotto “Pasqual d’ Nrrcone” porta al “foss da mennl”.
Lungo questo percorso di terra battuta, da percorrere in fila indiana, si
incontravano i muli e gli asini che andavano al lavoro nelle campagne.
Sui loro basti poche semplici cose, le bisacce d màlvone con il pranzo, un trufl
con il vino e i ccnar pieni di acqua che già sudavano per la differenza di
temperatura tra dentro e fuori il recipiente in terracotta.
Haa!...Murrè...Sa,sa,sa!....ih,ih!
Ricordo qualche nome rimastomi in mente grazie alla loro musicalità.
Sono anche dei soprannomi ma li voglio citare ugualmente, chiedendo
preventivamente scusa, al solo scopo di far rivivere questi uomini, anche solo
per un attimo, nel ricordo di chi li ha conosciuti.
Scendevano in fila indiana alle prime luci del mattino personaggi come Ndonio d
cagnapl con due muli dal manto scuro.
Fedel Totr sempre impettito ed amante della conversazione.
Ndonio d Ndrion in groppa al suo mulo bianco screziato ed un altro mulo scarico
mentre suo figlio Sandrino preferiva camminare a piedi o al massimo, quando era
stanco si aggrappava alla coda.
Zi Ppin d ciucc vicchj e suo figlio Luluc u scarpar con l’asinello più educato
del mondo a cui non dava fastidio né la pipa di Zi Ppin né il sigaro del
corpulento Luluc.
Zi Ptr Trzan un ometto gentile ed affabile che non aveva bistje ed andava a
piedi.
La carovana non si esauriva ancora, comprendeva ancora altre persone che,
purtroppo non ho mai conosciuto.
Tutti, ad ogni modo, erano accomunati dal modo sempre garbato con cui
rispondevano al saluto che, noi bambini, gli facevamo nel mentre li
sorpassavamo salendo e ridiscendondo il ciglio della strada.
In discesa, eravamo più veloci di loro.
Il nostro terreno aveva un’accentuata pendenza per cui era inaccessibile alle
mietitrebbie dell’epoca che non avevano ancora il sistema di autolivellamento
quadrilaterale.
Questo dato di fatto ci costrinse alla mietitura manuale ed al successivo
trasporto in una zona pianeggiante, l’ar, dove potesse accedere la trebbiatrice
per separare definitivamente il grano dalla paglia.
La giornata di lavoro prevedeva l’inizio del taglio a partire dalle cinque di
mattina, si procedeva di gran lena sfruttando la frescura notturna fino circa
alle 9,30 quando cioè il sole solitamente picchiava duro e non c’era alito di
vento a dar sollievo.
Quindi ci si rifugiava sotto l’ombra dei vicini olivi e si faceva colazione.
Dire colazione non è proprio esatto, potremo dire che, senza saperlo, facevamo
un breakfast all’inglese, nel senso che si trattata di un vero e proprio pranzo.
Frittata con cipolle, peperoni arrosto, salsiccia di carne e di fegato,
capocollo e soppressata.
Formaggio stagionato, ricotta, sott’aceti, frutta, caffè freddo. Il tutto
accompagnato dal nostro generoso montepulciano.
Papà ad un certo punto “annusava” l’aria e stabiliva con anticipo e senza mai
sbagliare quale vento si sarebbe alzato da li a poco ed avrebbe caratterizzato
la giornata di lavoro.
Noi si sperava sempre che fossero voir o tramuntan che sono notoriamente
freschi.
Alla prima carezza del vento sul viso si riprendeva a lavorare, era una sorta di
campanello silenzioso.
I miei procedevano al taglio rimanendo sempre affiancati e portavano l’anda,
sempre allineata.
Naturalmente papà faceva anche un po’ la parte di mamma che non riusciva
fiiscamente a stargli costantemente dietro.
Con la mano sinistra selezionava ed abbrancava il fascio del grano da tagliare
con un movimento a semicerchio. La mano destra, armata di falce faceva gli
stessi movimenti della sinistra ma in maniera speculare, per cui quando si
ritreava, la lama affilata recideva gli steli secchi.
Di tanto in tanto papà si fermava, estraeva dalla tasca posteriore a qdarell e,
usando uno sputo come liquido di raffreddamento, ravvivava velocemente
l’affilatura della falce.
Lo stesso spunto si usava anche per aumentare la presa tra mano e manico.
Lo sputo, un’arma segreta e,credetemi, con l’afa che c’era non era sempre facile
trovarlo.
Io avevo imparato a fare le “case” cioè le legatura del manukj realizzato sempre
con le fascine di grano.
Le fascine, tagliate precedentemente, dovevano essere tenute sempre umide perché
altrimenti, gli steli secchi si sarebbero spezzati quando, con un rapido
volteggio andavo a realizzare il nodo centrale.
Tali case erano fatti di grano perchè non essendoci spaghi o legacci, potevano
essere buttati tal quali nel vat-tor della trebbiatrice.
Stendevo a terra la case vicino all’anda ed i miei ci riponevano
progressivamente le fascine tagliate, fino a quando ritenevano sufficiente al
quantità accumulata.
A quel punto prendevano i due capi e stringendo u manukj tra le gambe allo scopo
di ridurne al massimo il volume, stringevano ed arrotolavano con un unico
movimento realizzando il nodo di chiusura.
Mentre io mi occupavo di costruire altre case, mio fratello Giuliano portava il
manocchio ad incrementare il mucchietto a poca distanza che si chiama ekky.
Disponeva i manukj in un cerchio di circa un metro e mezzo di diametro, con le
spighe sempre rivolte verso alto, perché, in caso di pioggia le spighe dovevano
rimanere distanti dal terreno.
Sviluppava alla fine un cumulo che somigliava ad un igloo dell’altezza di circa
un petto d’uomo. Di questi ekky se ne facevano diversi e la loro posizione era
sempre vicino all’anda.
Giuseppe, il più piccolo, rimaneva il più possibile all’ombra.
Il suo compito però era ugualmente importante.
Si occupava di portare l’acqua che si trovava nel ccnar , tenuto al fresco sotto
un ekky, a chi di noi ne facesse richiesta.
A volte, per evitare di perder tempo, arrivato il ccnar si beveva tutti, così
per un po’, non ci sarebbero state interruzioni e Giuseppe limitava i suoi
viaggi sotto il sole.
Si andava avanti così fino circa all’una, poi nuova sosta collettiva all’ombra
degli olivi.
Era festa, si consumava il pranzo e la fame non mancava. Poi stesi su delle
vecchie copertine, si compiva un’altro momento magico.
Si dormiva, sì, proprio così, si dormiva sotto gli alberi, fino alle quattro del
pomeriggio.
La notte si dormiva poco, la mattina ci si alzava presto, il lavoro era faticoso
e in condizioni disagiate per cui non era difficile cedere al sonno.
L’invito di mamma era quello di riposare ma si sa come sono i ragazzi.
Anche solo per il gusto di trasgredire all’ordine, si prendeva a darsi fastidio
a vicenda dapprima con il solletico con la pagliuzza nell’orecchio o nel naso,
poi con il lancio furtivo delle olive e per finire con il solletico sotto i
piedi.
Alla fine il tempo del riposo si accorciava drasticamente.
Se però accadeva di prendere sonno, anche per poco tempo, al risveglio ti
scoprivi smarrito e fuori dal tempo.
Aprivi gli occhi sulle fronde degli alberi e impiegavi del tempo a ritrovare la
tua dimensione e ricollocarti nel tempo e nello spazio.
Una sensazione insieme di sgomento e di piacere che anche oggi provo quando mi
capita di dormire all’aperto.
Il campanello muto suonava alle quattro e un quarto nella testa di papà e da
allora in poi si lavorava di buona lena e senza sosta, rinfrancati dalla
frescura serale.
Si smetteva solo quando papà lo decideva e cioè quando non vedeva più e
rischiava di tagliarsi con la falce.
La millenaria cultura contadina insieme alla saggezza esperienzale che ne è
substrato di riferimento mi si rivelò attraverso l’esempio dei miei genitori e
mi sentii parte di questo mondo a tal punto che per lungo tempo lo credetti il
solo possibile.
Oggi continuo a credere che sia il solo dove un uomo può essere se stesso.
Se la morte per Totò, nella famosa “livella”, era l’appianamento di ogni
struttura umana preconcetta, la vita in campagna è il banco di prova della
sostanzialità degli uomini.
Quel mondo agreste, in apparenza immutabile, era per i miei era un libro aperto.
Entrambi ne facevano parte anche se, da quando si erano stabiliti a Guglionesi,
mia madre aveva fatto la casalinga e mio padre si impiegato prima in edilizia e
poi, definitivamente, nell’industria di estrazione materiali inerti dal letto
del Biferno, luogo in cui, ebbe l’incidente che lo portò prematuramente alla
morte.
Conoscevano i nomi dei venti u fagugn, l’astr,a vojr,a tramuntan, u scrocc e
riuscivano a prevederne le sospensioni o i cambiamenti di direzione.
Di giorno leggevano l’ora dalla posizione del sole e di notte lo facevano in
base alla posizione dei tre bastoni .
L’alba, i colori dei tramonti, i venti, u lak intorno alla luna e il volo ed il
canto degli uccelli, fornivano loro le previsioni meteo.
Era un mondo bellissimo ed affascinante in cui non c’era spazio per la noia e
dove tutti avevano un proprio spazio e proprie occupazioni.
Io avrò avuto non più di 14 o 15 anni ed i miei fratelli Giuliano e Giuseppe a
scendere con un intervallo di circa tre anni l’uno dall’altro. Eravamo quindi
piccoli ma, in quel mondo semplice impostato sull’autoaiuto avevamo tutti delle
potenzialità da mettere in gioco.
Ognuno di noi aveva un compito da assolvere e contribuiva in modo fattivo al
raggiungimento dell’obiettivo che la famiglia si era dato.
Quello che si succhiava dal ccnar che passava di mano in mano non era solo acqua
ma la vita stessa.
Per quella prima ed ultima esperienza di mietitura a mano non finirò mai di dire
grazie ai miei genitori e porto per sempre scolpite nel cuore la bellezza e gli
insegnamenti che me ne derivarono.
La fatica è solo un ricordo sbiadito mentre i colori della gioia rimangono
vividi e con il tempo, si accentuano ancora di più.
Una vita a misura umana è una vita semplice, spesa con chi si ama, tesa a
raggiungere un fine comune e condiviso.
Il resto sono solo chiacchiere.