6/6/2011 ● Cultura
Era di Giugno... 2011
Lo stolto disprezza la correzione paterna; chi tiene conto dell’ammonizione diventa prudente (Prov.15,5)
Quando si è bambini, valori come lealtà e amicizia sono molto importanti e
gli avvenimenti che li riguardano, nell’ambito delle nostre prime esperienze,
possono incidere profondamente nel processo di evoluzione dell’uomo o della
donna che si diventerà.
E’ evidente come molti adulti problematici di oggi, siano stati i bambini delusi
o repressi di ieri.
Quando Gesù, nei Vangeli, ci chiede di ritornare come bambini credo si
riferisca, in qualche misura, anche alla capacità innata di questi ultimi di
vivere la propria umanità in naturale semplicità.
L’apertura verso il mondo, di un cuore che ancora profuma dell’alito di Dio, è
incondizionata e, quello di approfittarsene è davvero il più grave dei peccati
che si possa commettere.
Nel corso degli anni, poi, le nostre strutture precostituite possono confondere
e condizionare, proponendo modelli di riferimento che portano,anche senza
volerlo, a relegare in un posto recondito, quasi a vergognarsene, quella
dimensione interiore e profondamente umana che chiamiamo ”anima”.
Il nostro Don Gianfranco parla di “anestesia delle coscienze”, uno stato
saporifero diffuso, in cui tutto è permesso e nulla più scandalizza.
La capacità di trovare un equilibrio tra l’aspetto spirituale e quello materiale
rappresenta in definitiva, il distinguo tra una vita vissuta ed una vita subita.
Non c’era verso, mio padre la bicicletta non me la voleva comprare.
Non perchè non ne avesse la possibilità economica, aveva paura di quello che
avrei potuto combinare sulle due ruote considerato che già sulle gambe ero una
peste.
Troppe erano state le occasioni in cui s’era ritrovato il cuore in gola a causa
mia ed anche una bontà grande come la sua aveva un limite di sopportazione, se
non altro, per autodifesa biologica.
In quegli anni andavano di moda le grazielle, quelle che si ripiegavano
al centro ed avevano con il portapacchi posteriore. Erano innovative in quanto,
non avendo la canna orizzontale, erano molto più comode e ci si poteva andare
anche in tre, il guidatore che stava in piedi sul blocchetto dello snodo
centrale, il secondo passeggero seduto sulla sella che pedalava ed il terzo in
piedi sul portapacchi che si reggeva sulle spalle del secondo.
La canna centrale veniva poi personalizzata con le figurine Panini con lo
scudetto ed i calciatori della squadra del cuore. Diventava ancora più
entusiasmante con il rombo motociclistico che si otteneva inserendo una carta da
gioco tra i raggi delle ruote. La bici diventava una moto da corsa e se si era
capaci di inchiodare la ruota posteriore con il tacco della scarpa (lo facevano
solo i più bravi ), si riusciva anche a lasciare il segno della sgommata in
curva.
Che fichi !,…Giacomo Agostini ci faceva un baffo.
Io purtroppo, dovevo far affidamento sulle sole mie gambe per cui utilizzavo
raramente le strade asfaltate, le scorciatoie supplivano alla mancanza di un
mezzo di trasporto veloce come la bici.
Ero ancora alle elementari e nella mia classe avevo un compagno introverso e dai
comportamenti un pò fuori dal comune.
Lo chiamerò per correttezza Filippo, un nome di fantasia.
Questo ragazzo, di punto in bianco, un bel giorno cominciò a portare a scuola,
insieme con il libro delle letture il quaderno e il sussidiario, anche il
Vangelo. Io ne rimasi stupito e presi ad ammirarlo.
Caspita!, all’epoca le mie letture non andavano oltre i Tex, Zagor, il
comandante Mark e Capitan Miki.
Non passò molto tempo però, che mi dovetti ricredere. Notai che portava il testo
sacro tutti i giorni a scuola ma non lo leggeva mai, neppure durante la
ricreazione. Lo poggiava la mattina in un angolo del banco per poi riprenderlo
quando si doveva tornare a casa. Ne dedussi, con delusione, che quella
dell’esegeta era solo una vuota esibizione.
Filippo, però, non aveva fatto i conti con quella pentola perennemente in
ebollizione che rispondeva al nome di Gabriele Fusco, già all’epoca
universalmente conosciuto come “brioscia” e che faceva già schiattare dalle
risate quando, sfrontatamente, imitava i maestri, i bidelli, i suoi compagni e
sopratutto il parroco Don Carlo Maglia che all’epoca era il suo pezzo forte.
A Gabriele, esuberante e curioso più di una scimmia, poteva passare inosservato
il comportamento del nostro amico? Giammai e così cominciò a girarci intorno
come un’anima in pena, fino a che un bel giorno, urtò (lui dice accidentalmente)
il banco facendo finire a terra il Vangelo misterioso.
Apriti cielo! fu una tragedia greca: Filippo cominciò ad urlare e piangere
disperatamente ed a nulla valse il nostro conforto dato da ognuno dei compagni.
Gabriele, che non è mai stato un cuor di leone, con un balzo all’indietro si
allontanò chiaramente spaventato dalla reazione eccessiva quanto inaspettata di
Filippo.
Pippinella la bidella, lasciò il centrino con i ferri ancora infilzati, sulla
sediolina nel corridoio ed accorse con affanno tenendo con la mano lo scialle
grigio topo che le scivolava da sulle spalle. Il maestro nel frattempo era
arrivato al capezzale dell’inconsolabile bambino che tra le lacrime diceva -
Gabriele, Gabriele, è stato lui, ha fatto cadere Gesù… ha fatto cadere Gesù…!
Venne portato fuori dall’aula, forse in Direzione, per essere riportato dopo
circa un’oretta, a testa bassa e con gli occhi ancora gonfi di lacrime. Rientrò
insieme al maestro che lo rimise a sedere al suo posto che non appena si sistemò
alla cattedra chiese: - Gabriele , si può sapere cosa hai combinato stavolta?-
Ma in quella occasione Gabriele non aveva fatto nulla di male e noi tutti lo
testimoniammo caldamente scagionandolo da ogni responsabilità.
Arrivammo alle medie e quel bambino particolare divenne mio amico sopratutto
perché aveva una cosa che io non avevo…aveva una bici.
A giugno da noi accadono molte cose che sono importanti anche se a diverso
titolo. La festa di Sant’Adamo nostro patrono, quella di Sant’Antonio,
l’allegazione degli olivi, la raccolta del grano, dell’orzo, dell’avena e… la
maturazione delle ciliegie.
Quel primo pomeriggio, io e miei fratelli eravamo sdraiati sul pavimento di casa
sopra una copertina. Era la sistemazione usuale che ci predisponeva mamma per
tenerci in casa quando fuori c’era troppo caldo e soffiava u fagugn.
Io mi stavo allenando al gioco di cngh pret e mi stavo lamentando perchè
non riuscivo a prendere simultaneamente i quattro ossi di pesca da terra a causa
della coperta che frenava il movimento della mano. Bisogna essere molto rapidi
per agguantarli in un sol colpo, mentre il quinto volteggia ancora in aria ed
essere preso a sua volta.
I miei fratelli facevano la lotta e mentre Giuliano chiedeva a Peppino ormai
bloccato negli arti - ti arrendi?...ti arrendi? Filippo mi chiamò con il trillo
della sua bici.
-Senti, io conosco un posto dove possiamo andare a mangiare le ciliegie ma non
ci voglio andare da solo, vuoi venire anche tu?
L’offerta era allettante e divenne irrifiutabile quando aggiunse – Se vieni ti
faccio guidare un po’anche la bici. Andai via blaterando una scusa in corsa e
non diedi a mia madre il tempo di riflettere e fermarmi. In piedi sul
portapacchi mi tenevo sulle spalle di Filippo mentre facevamo i giri intorno a
Castellara. A ogni giro ci alternavamo al posto di guida e dopo averne fatto una
decina lui disse – Allora andiamo a mangiare le ciliegie? - Certo ma dove? -
Conosco io il posto, è lontano, ma con la bici ci possiamo andare, è vicino alla
fonte di Sant’Adamo ed io conosco il padrone.
Ci avviammo ma arrivati nella zona del calvario facemmo una sosta. Ci divertimmo
per a fare il moto cross tra i fossati che le acque avevano scavato in quel
terreno umile e “moscio” dove crescevano bene solo le code di volpe. Riprendemmo
poi il cammino, fino a raggiungere la meta prefissata.
Appoggiata la bicicletta al muro del pozzo, Filippo ci tenne ad informarmi -Io
non sono capace di arrampicarmi sull’albero, io mangio quelle sotto e tu quelle
sopra.
Anche se il fagugn si era calmato, mi tolsi la mia bella maglietta
arancione con sul petto il disegno di tre barche a vela e la lasciai ripiegata
per bene sul collo del pozzo, accanto alla bici. La portavo da pochi giorni, era
praticamente nuova e guai a sporcarla o strapparla. L’albero si trovava a
qualche decina di metri più in basso, sul terreno in pendenza e rimanemmo per
qualche istante incantati ad ammirarne la maestosa bellezza. Le ciliegie lo
impreziosivano, sembravano tanti pendagli ridenti, di un turgido e lucente
corallo.
Con un balzo, fui sopra i rami della biforcazione principale e poi mi spostai
verso quelli alti ed esterni dove i frutti sono sempre più dolci perchè più
soleggiati.
Erano ciliegie così grosse che potevo metterne in bocca solo una alla volta.
Filippo ne mangiava dai rami bassi, lo scorsi dall’alto e fu l’ultima volta che
lo vidi in quella giornata.
Al primo sparo pensai a qualche cacciatore nelle vicinanze, ma cominciai a
preoccuparmi quando sentii urla d’imprecazioni e parolacce.
Mi domandai a chi fossero rivolte e la risposta arrivò insieme al secondo colpo
di fucile che mi soffiò all’orecchio agitando freneticamente tutte le foglie del
ramo che avevo alla mia sinistra.
Saltai giù immediatamente e mentre ero in aria le mie gambe già correvano, non
ricordo infatti, di aver toccato terra.
Arrivato al pozzo con il cuor in gola non trovai né Filippo e né la bici,
guardai dietro di me e vidi un omone panciuto e armato che cercava faticosamente
di raggiungermi sputando sudore e bestemmie.
Mi tolsi i sandali che mi impedivano di correre bene e percorsi scalzo la strada
asfaltata che passa davanti alle cannelle. A terra scottava ma non ci feci caso,
mi fermai solo all’incrocio di monte antico. Ero al sicuro, non c’era nessuna
possibilità che l’uomo riuscisse a di starmi dietro e di macchine non ne
passavano. Un brivido di colpo mi percorse la schiena. Avevo dimenticato la
maglietta sul pozzo!.
Non potevo tornare indietro mi rassegnai e feci un percorso largo per tornare
definitivamente a casa. Passai per il colle di Sant’Adamo e, arrivato al
cimitero sostai per un po' alla fonte. Durante il tragitto elaborai una scusa
che fosse plausibile per giustificare la perdita della maglietta. Avrei detto a
mia madre che me l’ero tolta all’abbeveratoio sotto Castellara e qualcuno
l’aveva rubata approfittando del momento in cui avevo chiuso gli occhi.
Mi pareva buona anche se in realtà non lo era affatto. Quando arrivarono i primi
muli per abbeverarsi ripartii e facendo la strada per Fontenuova tornai in
paese. Svoltato l’angolo del cinema Fulvio notai davanti casa delle persone che,
nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato, si tenevano al fresco sotto il
balcone di Donna Adelaide. Avvicinandomi, identificai le divise di due
carabinieri, mio nonno Giorgio ed il papà di Filippo. Passai tra di loro senza
che mi fermassero e trovai insolitamente la porta di casa tutta aperta con buona
parte del vicinato all’interno.
Ero a petto nudo, sudato e con la gola riarsa dalla sete. Mi sentivo in dovere
di dar ragione di ciò a qualcuno e lo avrei fatto con il primo che me l’avesse
chiesto ma, mia madre sbucò con velocità di una faina da dietro la tenda che
divideva l’ingresso dalla cucina. Senza parlare mi afferrò per i capelli
trascinandomi nella sua camera da letto e lì tra lacrime ed urla prese a darmele
di santa ragione con la cinta di mio padre. Io ero inebetito da ciò che stava
accadendo, mi rannicchiai in un angolo e decisi di prenderle senza reagire
facendo, però, attenzione a proteggermi il viso. Ad un certo punto, per mia
fortuna intervenne suo fratello, mio zio Gabriele di Petacciato,che riconobbi
dalla voce. Riuscii a calmarla e si interruppe la fustigazione. Uscendo,
chiusero la porta della camera lasciandomi solo e, dopo un pò di tempo, andarono
via tutti. La quiete era finalmente tornata.
Cosi, come mi capita in ogni occasione di difficoltà, la mia indole ribelle
rispunta fuori. La schiena era in fiamme ma era l’orgoglio ad essere il più
ferito e così con impeto rabbioso mi recai in cucina e dissi a mia madre-
Vergogna!, ...tutte queste storie per una maglietta, quando divento grande te ne
ricompro cento…
Lei non rispose, fece per prendere la scopa ma io lesto, mi rifugiai nuovamente
in camera da letto.
Il mezzo di trasporto di mio padre era una Ducati Sport 48cc, rossa e argentata
che purtroppo, è andata perduta.
Quando tornava da lavoro, il rombo del motore lo preannunciava appena sbucava
sulla salita di via Pastrengo ma quel giorno, la gioia di rivederlo si mischiò a
timore.
I miei fratelli gli andarono incontro. Gli presero la borsa del pranzo e, come
tutte le sere, l’aiutarono a mettere a cavalletto la moto sul marciapiede. Lui
entrò in cucina e incontrò mia madre che, ancora molto scossa, di tanto in tanto
alzava il tono della voce per poi riabbassarlo subito dopo, su invito di papà.
Evidentemente gli raccontò quello che era successo ma io sentii solo un
indefinito parlottare. Andò poi in bagno a lavarsi per la cena.
-Muoviti che è pronta la cena!- disse mamma aprendo di botto la porta.
Io andai a lavarmi le mani mentre avvertivo ormai acuto, il dolore proveniente
dalle lacerazioni che le cinghiate avevano provocato. Feci scorrere l’acqua lo
stretto necessario come a voler minimizzare la mia presenza e poi mi avvicinai a
tavola dove mi aspettavano. Mi sedetti al solito posto e cioè a capotavola,
avendo sulla sinistra mio padre. Cominciammo a mangiare con il solo il tintinnio
delle posate che dava una nota di allegrezza a quella atmosfera sospesa.
Per un attimo pensai di averla, ancora una volta, fatta franca, del resto mio
padre non mi aveva mai dato botte, era un uomo veramente buono.
Papà posò con calma la forchetta sul bordo del piatto di spaghetti, sorseggiò
brevemente un goccio del nostro montepulciano e dopo aver posato il bicchiere
sul tavolo mi sparò un malrovescio con la sua mano nodosa da faticatore. Mi fece
schizzare dalla sedia oltrepassando lo schienale, sbattere sul muro retrostante
e cadere a terra.
All’arrivo del colpo tra bocca e naso, mi esplose il sangue e nel tentativo di
contenerlo con le mani, mi invase gli occhi accecandomi.
Corsi barcollando verso il bagno e serrandomi in naso tra lacrime e sangue urlai
– E che ca...!…tutto una stupida maglietta, ve la ricomprerò… ve la ricomprerò
appena sarò grande!.
Quella fu la prima e l’ultima volta in cui mio padre mi picchiò e sono certo che
quello schiaffo abbia fatto più male a lui che a me.
I giorni successivi furono un vero supplizio, lo strofinio della maglietta sulla
schiena mi procurava lancinanti dolori ma, di non andare a scuola, neanche a
parlarne. Né mi azzardai a chiederlo.
I compagni di classe che avevano intuito qualcosa, mi facevano tante domande ma
io rimasi sfuggente.
Filippo in classe non venne per diversi giorni ed io, un po’alla volta riuscii a
farmi spiegare da mamma quello che era successo. Altro che maglietta persa! Le
questioni furono diverse e tutte gravi.
L’amico di cui mi fidavo tanto, quel pomeriggio prima di venire a chiamarmi,
aveva lasciato una lettera ai suoi genitori con cui comunicava l’intenzione di
voler scappare di casa. Potete immaginarvi la pena quando, un’ora dopo, è stata
letta.
Il contadino non era affatto un suo conoscente e, per quanto avesse avuto una
reazione discutibile, aveva sparato “legittimamente” a quello che considerava un
ladro, cioè io.
Il suo papà lo aveva cercato in giro e poi dagli amici, quindi, era andato anche
a casa mia gettando anche mia madre nella disperazione.
Sconfitto, si era rivolto ai carabinieri per cui eravamo diventati anche dei
ricercati.
Il nonno di Filippo, accorso anche lui sulla scena di questo teatrino alla “De
Filippo” intervenne incautamente sostenendo che suo nipote, al contrario del
sottoscritto, era un bravo ragazzo e che ero stato io a portarlo sulla cattiva
strada.
Espresse inavvertitamente questa convinzione in presenza di mio nonno Giorgio,
albanese da capo a piedi che, tanto per completare l’opera lo sconquassò con
tutte le conseguenze del caso.
La mia maglietta la rividi un martedì di mercato, addosso un bambino che sapevo
avere la campagna vicino alle cannelle. Impiegai un attimo a fare due più due,
lo presi per il collo, ma mia madre impedì questo ennesimo colpo di scena
ordinandomi di lasciar perdere perché, disse, di casini ne erano stati fatti fin
troppi.
Oggi Filippo non vive più qui e non ho mai saputo cosa realmente gli fosse
passato per la testa di quel giorno. Non abbiamo mai chiarito le nostre
posizioni ma, anche se non si è comportato come avrebbe dovuto, non sono
riuscito mai a portargli rancore. Crescendo ci siamo semplicemente allontanati o
forse è meglio dire che evidentemente, la nostra amicizia non aveva delle basi
abbastanza solide per resistere alla piccola bufera in cui ci eravamo trovati.
Certo è che, da adulto, la sua vita non è stata di quelle che rientrano nei
criteri comuni della “normalità”. Ha incontrato una serie di difficoltà che mi
auguro abbia finalmente e definitivamente superato.
Tutto sommato sarebbe stato meglio se mio padre mi avesse comprato la bici. A
questa conclusione arrivò in qualche modo anche lui se poi, a distanza di
qualche mese ci comprò una bella bici Atala color oro da Elio u bcktlttar.
Non ebbe mai a pentirsene perchè sia io che i miei fratelli siamo stati sempre
accorti e disciplinati alla guida della bici, delle moto e poi delle auto.
Mio suocero ieri ci ha portato le prime ciliege del suo campo, i bambini ne sono
rimasti entusiasti e lui si è stupito che io non le mangiassi.
Ha insistito nell’offrirmene. - No grazie papà, le ciliegie mi risultarono
indigeste.
Si è stupito ed essendo un salutista ha spiegato come, considerando
l’elevatissima percentuale di acqua presente nella frutta, fosse strana la cosa.
Non ho replicato.