16/3/2007 ● Cultura
Ciao Giulio!
ARTICOLO PER LA RIVISTA “PANORAMITALIA” Estate 2005
Guglionesi, 16 Marzo 1978 - Quella mattina si avvertiva la primavera nell’aria e
a scuola andai con il mio grembiule nero, senza cappotto. Nel giardino
dell’istituto l’albero del mandorlo mostrava il candore dei suoi profumi e
durante la lezione una delle due finestre restava aperta. Si sentivano
cinguettare le rondini nelle loro confuse rincorse, ma non le vedevo dal mio
banco. L’aula della classe “IV E” era al primo piano dell’edificio scolastico,
inutile cercare il cielo.
La maestra chiedeva quali fossero i regali preferiti per la nostra prima
comunione, che a maggio avrei festeggiato insieme al compleanno. Parlava di una
bella storia da leggere, “Cuore”, e qualcuno di noi intuì che il suo regalo
fosse uguale per tutti: il libro di Edmondo De Amicis. La chiusura dell’anno
scolastico non era così lontano e c’era tempo per conoscere le vicende di
Garrone e dei suoi piccoli amici. Quel regalo si presentava come il compito
assegnato per le vacanze estive. Ma la maestra Polifemo era una supplente e non
sarebbe tornata l’anno dopo.
All’improvviso Italia, la bidella della scuola, picchiò sulla porta della nostra
classe. Non era il solito picchiare. Affannata consegnò al docente un grosso
libro dove c’era scritto il messaggio del direttore scolastico: quel giorno, e
l’indomani, le lezioni sarebbero terminate in anticipo. La notizia rese contenti
pochi di noi, perché la lettura fu accompagnata dal pianto e dai singhiozzi di
Italia. Lei, sempre sorridente, che più volte si asciugò le lacrime con un
fazzoletto bianco. Lo stringeva in mano come una palla stropicciata, e prima di
andare via lo ripose più volte nella tasca del suo grembiule blu. In segreto
aveva sussurrato qualcosa alla maestra, che rimase turbata, e non poco.
Il suono della campanella arrivò presto e non riuscimmo a scrivere la risposta
al problema di matematica. Fu il giorno in cui imparammo le equivalenze metriche
delle superfici, una nozione che compresi senza grosse difficoltà. Il tempo di
raccogliere il libro, il quaderno e l’astuccio delle penne, disordinatamente
infilati nella mia vecchia cartella a spalla - la portavo con me dalla terza
elementare - ed ero già fuori, sul prato della scuola. Quel giorno non avevo
nemmeno il peso del cappotto.
Ricordo il cielo, di colore azzurro, sospeso tra le scie di una nuvola bianca
che da poco non c’era più. Cercavo la corsa delle rondini, che fuori dalla
scuola mi sembrava ancora più inquietante del loro cinguettare. Ali trepidanti,
adombrate dai bagliori del sole e nascoste dietro i rami del grande mandorlo in
fiore, sopra di me. Vicino al cancello della scuola c’erano le solite mamme, in
pantofole e già al corrente dell’uscita anticipata. Guglionesi, il paese sulle
amene colline del Molise, sapeva, ma ignoravo cosa.
Sono figlio e nipote di emigranti, nato a Milwaukee (nel Wisconsin, uno stato a
nord degli Stati Uniti d’America) durante il soggiorno dei miei genitori nella
terra del lavoro. Da qualche anno una parte della famiglia era tornata per
cercare un futuro qui, a Guglionesi. Restava tra i parenti una vecchia
abitudine, portata via dall’America: dialogare in inglese tra gli adulti nelle
occasioni particolari, in modo che noi bambini non fossimo al corrente del loro
argomentare.
Invano ascoltavo quelle parole, che talvolta sembravano avere un senso per
l’ansia della pavida voce. Così a casa mi fu difficile capire cosa stesse
succedendo, e continuavo ad ignorare il motivo di quella giornata tanto strana.
Due anni prima avevo vissuto una situazione simile in famiglia, un lungo periodo
di discussioni in inglese fino a quando nacque il mio secondo fratello. Questa
volta, però, non riuscivo ad associare il pianto di Italia, l’uscita anticipata
dalla scuola con l’eventualità di un terzo fratello!
Fu il telegiornale a svelarmi il dramma del 16 marzo 1978. Un’edizione
straordinaria alla TV - ancora in bianco e nero - annunciò la tragedia di Via
Fani a Roma, dove un commando di terroristi, con il nome di Brigate Rosse,
sequestrò l’onorevole Aldo Moro, trucidando nell’agguato, a colpi di arma da
fuoco, le cinque guardie della scorta. Tra gli agenti, uccisi senza alcuna
pietà, c’era un giovane di Guglionesi, Giulio Rivera. Un noto settimanale
italiano scrisse del tremendo destino che perseguita, come una maledizione
antica, le povere donne di campagna. Mettono al mondo dei figli che vogliono
sfuggire dalla miseria di una vita poco generosa di prospettive, entrando come
Giulio nel corpo della Polizia, inconsapevoli del destino che li attende.
Nelle immagini televisive furono mandate in onda vari luoghi di Guglionesi,
Castellara, la chiesa Madre, un vicolo del borgo antico, la casa di Giulio, fino
allo straziante dolore della mamma, china sulla salma del figlio. Giulio aveva
ventiquattro anni e da quattro anni era arruolato nella Pubblica Sicurezza. Chi
lo ha conosciuto racconta di un giovane socievole, allegro, tanto vivace quanto
sensibile. Muore crivellato da otto proiettili, sul sedile dell’auto bianca che
stava guidando per l’ultimo viaggio, dietro quella dello statista Moro.
Nel pomeriggio ci aspettava un incontro di catechismo nell’asilo infantile
gestito dalle suore, uno dei tanti momenti di preparazione alla prima comunione.
La casa di Giulio si trovava a poche porte dall’istituto delle religiose, e
ricordo i numerosi manifesti di cordoglio che coprivano le vecchie mura di
quelle umili dimore del centro storico. L’incontro di catechesi incominciò con
una preghiera alla memoria del giovane agente e forse per la prima volta
pregammo davvero, e tutti insieme. La notizia aveva commosso le famiglie di
Guglionesi, ovunque se ne parlava ed ognuno aggiungeva un tassello alle vicende
umane della famiglia Rivera.
Passai le notti insonni, a chiedere un bicchiere d’acqua, senza alcuna sete, per
spezzare l’inquietudine del buio, dove si riflettevano quelle immagini di
tragedia e di panico.
Nella domenica successiva (domenica delle palme), il giorno del funerale -
tenutosi tre giorni dopo l’agguato di via Fani -, la gente di Guglionesi, un po’
curiosa e un po’ affranta, era quasi tutta tra le strade, sotto una pioggia a
tratti insistente, avvolta da un freddo tornato per cancellare le premesse della
primavera. Ero uno dei chierichetti che nel corteo presbiterale precedeva la
bara coperta dalla bandiera tricolore, portata a spalla dagli amici di Giulio,
scortata da una schiera di poliziotti con i mitra in braccio, accompagnata dalle
lacrime dei familiari e da un silenzioso seguito di gonfaloni istituzionali. Si
sentiva trascinante il rumore dei passi sulle vecchie basole vesuviane, scandito
dal lento rintocco dell’ultima campana.
Esperina, la mamma, pianse durante l’intero rito funebre. “Ciao Giulio” fu il
suo estremo saluto a quel figlio che aveva servito la patria – dissero gli
uomini di Stato -, che aveva svolto fino in fondo il suo dovere – commemorarono
i suoi superiori –, che era stato sacrificato per un’ideologia – rivendicarono i
suoi giustizieri -, che resterà nella storia – giudicarono gli eruditi - e che
oggi avrebbe compiuto cinquant’anni – ricordano quanti gli hanno voluto bene.