21/12/2010 ● Cultura
La precarietà giovanile e la nuova dimensione del tempo
Una società che non ama i suoi giovani è una società che non ama il futuro. I
giovani oggi rappresentano una categoria tenuta “fuori dai giochi”, una risorsa
preziosa della società lasciata senza voce, ignorata da una generazione adulta
come quella attuale un po’ (molto?) egoista e autoreferenziale. La sfiducia dei
giovani è un sintomo di una crisi non tanto “esistenziale” quanto “culturale”,
da riferirsi al fatto che la nostra cultura conosce come unico generatore
simbolico di tutti i valori esclusivamente il denaro, da conseguire con ogni
mezzo, ivi compresa la condizione del “prendere o lasciare” in mancanza di
potere contrattuale. Perché – come osserva Umberto Galimberti, docente presso
l’università ‘Ca Foscari’ di Venezia - chi non è “mezzo di profitto”, sia che si
tratti dell’immigrato o di uno qualunque di noi che lavora in una fabbrica o in
un ufficio a qualsiasi condizione gli venga imposta, non ha diritto di
cittadinanza. E tutto questo perché l’economia globalizzata ha reso
concorrenziale anche il costo del lavoro sempre più al ribasso.
Ciò detto, dove volge lo sguardo dei governanti? Della mancanza di futuro dei
giovani al momento si occupano in pochi e ai problemi del nuovo sistema
produttivo-contrattuale vengono dedicati studi approfonditi da parte degli
esperti (vedi l’economista Tito Boeri e il giuslavorista Pietro Ichino, per
citare), ma rimangono confinati nell’ambito degli addetti ai lavori. Poi c’è il
grande problema dei ricercatori italiani costretti ad espatriare per mancanza di
prospettive in Italia.
Ignazio Marino – medico e senatore – denuncia che “la straordinaria carenza
di finanziamenti riflette la scarsa importanza che da noi si dà alla ricerca
come strategia dello sviluppo di tutta la società”. In America, dove non
solo la ricchezza ma anche la crisi è assai più grande che da noi, nel 2011
saranno spesi in ricerca 30 miliardi di dollari (25 miliardi di euro) pari alla
nostra intera manovra finanziaria. Molti studenti italiani pensano che tutta la
politica di questo governo sia premeditatamente rivolta a impoverire
l’istruzione pubblica per favorire quella privata e che la mancanza di
programmazione nell’insegnamento pubblico equivalga ad ammazzarlo. Così
l’istruzione tornerà privilegio di ceto (in barba alla nostra Costituzione
vigente). La rivolta di gran parte dei giovani è dunque una ribellione anche di
carattere sociale e nasce da un disagio reale (molti di essi sono stati definiti
come appartenenti alla “web class” e sono al penultimo posto in Europa per
garanzie di occupazione). Ai giovani – secondo il filosofo Giacomo Marramao – è
stata tolta la dimensione del tempo storico lineare garantito. Con la
conseguenza che ogni atto che cada come sale sulla loro ferita crea quella che
Machiavelli chiama l’ “occasione” e i greci avevano chiamato ‘kairòs’: la nuova
dimensione del tempo, sussultorio, violento, che altera i comportamenti
individuali normali, trasformandoli in rabbia, rottura, come ha fatto la fiducia
al governo, piovuta nel mezzo della protesta anti-Gelmini. Naturalmente è anche
un problema di classe dirigente. “Francamente non si capisce perché -
sottolinea Federico Orlando (Europa, 18 dicembre) – non solo il PD ma tutte
le opposizioni non abbiano chiesto… almeno una pausa di riflessione sulla
riforma, sollecitandone il rinvio di qualche settimana; e non si capisce perché
rettori docenti ricercatori precari studenti non abbiano promosso per tempo una
conferenza nazionale dell’università, per avanzare un’autonoma proposta di
riforma. Eppure, in tutti i rami dello studio, ci sono nelle università punte di
altissimo valore”. E’ sperabile pertanto che in futuro ci si coordini
meglio.
Tornando ora al tema della precarietà, in termini più generali, trovo pertinente
chiedersi: come si fa, oggi, a rimettere al centro l’uomo e non solo il
profitto? L’indicazione del filosofo Franco Totaro in ‘Non di solo lavoro’ è
quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come
“produzione”, ma anche e soprattutto al lavoro come “servizio”, di cui la nostra
società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si
dedicano all’assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che
potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo
riconoscimento finanziario, se l’economia non pensasse solo alla produzione, ma
anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone. In questo
scenario forse viene prefigurato anche il segreto di una maggiore felicità
sociale, che certamente non è data dall’ultima generazione di automobili o di
telefonini, come la pubblicità cerca di farci credere. Infatti tra i
pubblicitari nessuno desidera la nostra felicità, perché la gente felice non
consuma.