6/10/2009 ● Cultura
6 Ottobre 1943 [parte II]
[6 ottobre 1943 - Domenico Aceto (parte II)] - (...) Ai primi di dicembre, riaprono le scuole. Non tornano nell’edificio
scolastico, poiché è stato requisito dagli inglesi e adibito a prigione
militare, ospedale e uffici, mentre nella palestra hanno messo le cucine.
Per quest’anno le varie classi sono sistemate in case private. Anch’egli torna a
scuola, ma controvoglia. Dovrà ripetere la terza classe, perché l’anno
precedente è stato rimandato e non ha potuto fare l’esame di riparazione. Non
trova la sua vecchia maestra, ma una nuova. Anche i compagni sono quasi tutti
nuovi.
A contatto con gli altri bambini, avverte ancora di più la sua menomazione
fisica. Ciò lo rende insofferente a tutto, anche se l’insegnante è molto
disponibile nei suoi confronti.
Comincia allora a pensare di compensare questa sua menomazione fisica con una
superiorità intellettuale; ma questa superiorità deve evidenzargliela la maestra
mettendogli sempre i voti più alti, anche se non li merita. Se fa una lode a un
compagno, deve subito farne una anche a lui. E se non viene accontentato,
minaccia di buttarsi dalla finestra. Ormai è diventato un ritornello quotidiano:
quando non ottiene ciò che vuole, saltellando sull’unica gamba, si dirige verso
la finestra urlando: «Ora mi butto giù!». E, ogni volta, è un accorrere dei
compagni e della maestra per impedirglielo. Con questo
ricatto continuo, la maestra non può contraddirlo mai ed è costretta a dargli i
voti che lui chiede.
Un giorno questa fa la correzione di un dettato e, come al solito, gli deve dare
10, anche se non è il voto giusto. Questa volta però, spunta un altro dieci; e
questo è meritato. Ma lui non può subire un affronto simile. Non può essere pari
a un altro. Eccolo allora che, saltellando, si avvicina alla cattedra e dice
alla maestra: «Signorina, Arduino ha avuto un voto uguale al mio».
«Certo», gli risponde la maestra. «Perché, come te, non ha fatto errori.»
«Va bene, ma io l’ho corretto prima di lui», le fa presente, adducendo il primo
motivo che gli viene in testa.
«Non è una buona ragione per avere un voto più alto», ribatte la maestra.
«Si, ma io non ho il padre», risponde pensando a suo padre che è morto in
guerra.
Per lui, nella formulazione di un voto, c’entrano anche queste cose, e forse qui
non ha torto. «E poi», aggiunge abbassando gli occhi, «lui ha tutte e due le
gambe.»
Questa volta la maestra non lo contraddice e, rompendo la scala di valutazione,
al 10 aggiunge un più, dandogli quindi 10+.
Ormai lo si vede dappertutto, spostarsi saltellando sull’unica gamba, con
l’inseparabile pallone sotto il braccio. Ha capito che in lui i compagni non
vedono uno zoppo, ma il padrone di un pallone vero. Un pallone uguale ce l’hanno
solo quelli della società di calcio. Ha anche scoperto che può avere un ruolo
nella squadra: può fare il portiere.
A tale scopo, si allena di continuo. Si tuffa, senza paura di nulla, anche sulle
basole delle strade. Ha sempre i gomiti e l’unico ginocchio sbucciati, ma sono
gli inconvenienti del ruolo. Su una maglietta si è fatto attaccare il numero uno
e va in giro sempre con questa tenuta.
Ora torna anche a organizzare le partite. Della sua squadra devono far parte
sempre gli elementi migliori, perché egli non può perdere. Se qualcuno protesta,
viene escluso. Le regole le stabilisce lui, e chi non le accetta non gioca.
Superfluo dire che i gol che subisce sono segnati tutti in fuorigioco, e che
ogni pallone che passa appena sopra la sua testa, è «alto».
È curioso vedergli calciare la palla per la rimessa dal fondo: dopo aver pulito
con cura il punto preciso dove colloca il pallone, pam, pam, pam, saltellando
sull’unica gamba, esegue una breve rincorsa e via, lo colpisce di punta
mandandolo nella metà campo avversaria.
Poiché gli inglesi, con i loro mezzi, tende, cucine da campo e altro hanno
occupato tutti gli spiazzi dove prima erano soliti giocare, i ragazzi ora sono
costretti a disputare i loro incontri per le strade. Ciò comporta molti
inconvenienti: devono sospendere l’incontro ogni volta che passa un camion, un
carretto, eccetera.
In breve, questa situazione di emergenza modifica anche le loro abitudini.
Infatti, non avendo dove poter giocare, ora si riuniscono attorno ai camion
degli inglesi, per raccogliere le cicche che questi buttano, perché ormai fumano
quasi tutti. Antonio però resta in disparte. Odia gli inglesi che, con le loro
bombe, lo hanno mutilato. Non può cancellare dalla sua memoria quei musi lucenti
di aerei che sparavano su tutti. Tutto quel sangue sparso per terra e quelle
grida disperate. Si, questi inglesi, che ora sorridono pure, sono stati crudeli
e lui non li vuole avvicinare.
Un po’ alla volta però, i compagni gli fanno capire che costoro non sono gli
inglesi degli aerei. Questi combattono a terra e ricevono anch’essi le bombe
dall’alto. E poi, il pallone non glielo ha forse regalato un capitano inglese?
Infine, convinto da queste argomentazioni, anch’egli comincia ad avvicinarsi a
questi soldati, fino ad allora, temuti e odiati.
Le prime volte che lo vedono, alcuni di loro, a segni, gli chiedono cosa gli sia
successo. Quando lo vengono a sapere, si dimostrano molto dispiaciuti. In breve
diventa il loro beniamino e gli danno sempre più cioccolata e chewing-gum
rispetto agli altri. Tutto sommato, questi uomini non sono più cattivi degli
altri; anzi spesso si dimostrano perfino generosi.
Ormai, tutti i ragazzi del quartiere passano molto tempo attorno ai camion
inglesi. E quando, nelle fredde giornate invernali, i soldati, per scaldarsi
bruciano la benzina in bidoni tagliati a metà, accorrono a frotte per
approfittare di quei falò e scaldarsi pure loro. Solo che, quando tornano a
casa, hanno tutti vistosissime occhiaie per via del fumo nero che si sprigiona
dalla combustione del carburante.
Hanno perfino imparato le abitudini dei vari soldati. Di alcuni conoscono anche
il nome. Jimmy e William sono bravi perché buttano via più della metà di ogni
sigaretta; per questo motivo sono chiamati le «mezze». Ce n’è uno invece che,
accesa una sigaretta, la lascia consumare in bocca fino alla fine, buttando la
cicca solo quando si brucia le labbra. È un tipo che non parla mai, nemmeno con
gli altri soldati. Sta sempre a pulire il suo camion, in silenzio. I ragazzi lo
chiamano «il taciturno». Gli altri, di cui non conoscono il nome, si chiamano
tutti John.
Ogni giorno poi, verso mezzogiorno, sciamano per tutto il campo ad avvisare che
c’è la vecchietta delle pizzette. Costei infatti, per guadagnare qualcosa, ogni
giorno viene a vendere pizzette fritte coperte di zucchero, di cui gli inglesi
sono ghiotti, e uova fresche. Si mette all’ingresso del campo e comincia il suo
ritornello: «John uan «pizzella» uan lira; uan egg uan lira.». Vende tutto a una
lira.
Ma, aggirandosi per l’accampamento inglese, questi ragazzi, non hanno solo la
possibilità di scaldarsi; possono rimediare qualche saponetta, coperta,
chewing-gum o altro. Ormai tutti conoscono le parole «soap, blanket, canned beef,
shoes».
Un giorno, uno dei ragazzi ha rubato un telo da tenda. Tutti a dirgli: «Ma che
te ne fai? Non serva a niente».
Qualche giorno dopo però, hanno visto lui e i suoi fratelli andare in giro con
dei pantaloni rigidi fatti con quel telo, ma tinti di un altro colore. Per
prenderlo in giro gli gridavano: «Hallo, telo da tenda».
Nel campo inglese ormai lo conoscono tutti e lo chiamano per nome regalandogli
molte cose. Un giorno gli danno un pallone da rugby. Nessuno dei ragazzi ne
aveva mai visto uno simile. Con quella curiosa forma ovale. Provano a giocarci a
calcio, ma rimbalza in modo strano ed è impossibile controllarlo. Lo tiene a
casa per qualche tempo, poi un giorno la madre, col cuoio del copertone, ci fa
aggiustare le scarpe dei fratelli.
Dove invece non possono avvicinarsi, sono le cucine. In quella zona del campo,
gira di continuo un sergente e, con urlacci li manda subito via inseguendoli con
una moto. Per non farsi raggiungere, sono costretti a trovar scampo buttandosi
giù per una ripida scarpata, dove lui non potrà seguirli.
Questo sergente, a causa della sua figura bassa e tarchiata, dai ragazzi è
chiamato «sette culi». È un po’ l’edizione inglese dello «sfrogiato» tedesco.
Ogni giorno, sul paese, c’è un continuo andirivieni di aerei che vanno a
bombardare a nord. Talvolta, le formazioni in volo sono così numerose da coprire
il sole, come tante nuvole. I ragazzi, col naso all’insù, cercano di contarli,
ma sono tanti che è impossibile riuscirci.
Qualcuno invece, ancora scosso dal bombardamento che ha causato tanti morti,
appena li vede apparire e sente il loro rombo continuo che fa vibrare il suolo,
interrompe qualunque gioco stia facendo e si precipita verso casa per mettersi
al sicuro vicino alla mamma.
Nei due anni dell’occupazione alleata, nel paese si alternano truppe di varia
nazionalità: polacchi, scozzesi, indocinesi, canadesi. I ragazzi fanno amicizia
con tutti, adeguandosi alle diverse abitudini dei vari occupanti.
I polacchi sono bravi. Tutte le domeniche vanno in chiesa e, durante la messa,
non si sente volare una mosca. Quando vengono gli scozzesi, tutti contenti
seguono la loro fanfara di cornamuse che fa il giro del paese tutti i giorni.
Gli indocinesi li incuriosiscono più degli altri, perché hanno tutti dei visi da
bambini. Sembra impossibile che siano soldati.
I canadesi si ubriacano spesso e molestano tutti. Non li amano molto, anche se,
pure da loro, ogni tanto ricevono qualche sigaretta. Solo quando vengono gli
indiani, con quei
loro turbanti e le lunghe barbe, nessuno osa avvicinarsi al loro accampamento.
Hanno messo in giro la voce che mangiano i bambini. Fatto curioso di questi
soldati è che non fumano mettendo la sigaretta fra le labbra, ma aspirano il
fumo dalla mano, chiusa a pugno, che tiene la sigaretta verticale fra indice e
medio.
Un bel giorno, questi soldati non ci sono più. Sono spariti. Devono essere
andati via durante la notte. Subito bande di ragazzi sciamano per tutto il paese
e si riappropriano degli spazi prima interdetti. Rovistano dappertutto, nella
speranza di trovare qualche sigaretta, un pezzo di sapone o altro.
Senza tutti quegli automezzi militari, le strade sembrano più larghe, ma, nello
stesso tempo il paese mostra, in modo più evidente le sue ferite: case sventrate
e tetti crollati. Certi muri, crivellati da schegge di granate, sembrano
ricamati con tanti ghirigori disegnati da qualche autore bizzarro.
Sugli uomini e sulle cose si è abbattuta un’immane tempesta lasciando segni
indelebili. Tempesta scatenata da adulti, che però ha coinvolto anche i bambini,
che ne resteranno segnati per sempre.
[6 Ottobre 1943, di Domenico Aceto, Parte I]