29/9/2009 ● Cultura
6 ottobre 1943
[6 ottobre 1943 - Domenico Aceto (parte I)] - È una tiepida giornata d’autunno. Di quelle tipiche giornate ottobrine,
caliginose e dai colori sfuocati pervase da un dolce languore che avvolge ogni
cosa e crea un’atmosfera evanescente, quasi irreale.
Non c’è un alito di vento. Nell’aria c’è una strana calma, di quelle che
precedono immani calamità naturali.
Anche la natura sembra riflettere le ansie degli uomini, i quali stanno vivendo
giorni di trepidazione e di attesa. In ognuno c’è un’angoscia celata; generata
da un oscuro presentimento. Confuso ma certo: presto accadrà qualcosa di
terribile.
Da vari giorni, la gente si è rintanata negli scantinati, nelle stalle e, in
genere, in tutti i locali sotterranei, per paura delle bombe che, sempre più
spesso, cadono sull’abitato. La guerra è arrivata anche da queste parti. Per le
strade deserte del paese, si odono soltanto voci straniere e passi duri sulle
basole. Qualche raro passante cammina rasente i muri e si affretta a raggiungere
il rifugio. È tempo di vendemmia. Ma quest’anno è una strana vendemmia: nelle
vigne l’uva è matura, ma non viene raccolta.
Da una quindicina di giorni, i tedeschi hanno occupato Guglionesi, un piccolo
centro del basso Molise, a 15 km. dal mare, e stanno fortificando tutta la zona
per contrastare l’avanzata degli inglesi che, inaspettatamente, sono sbarcati a
Termoli, sulla costa adriatica, e puntano verso l’interno per aggirare la loro
linea difensiva.
Si era cominciato a parlare dell’imminente arrivo di truppe tedesche sin dalla
seconda metà di settembre, quando alcuni carabinieri, fuggiti da Termoli, si
erano spostati nell’interno portando su un carretto, tirato da un mulo, armi e
munizioni.
Dopo pochi giorni, le prime avanguardie del Terzo Reich giungono anche qui. Sono
pochi soldati e un ufficiale, a bordo di un’auto decappottabile e di un camion.
Il loro arrivo suscita subito una certa curiosità, specialmente fra i ragazzi
che, numerosi, si radunano attorno a loro. Tuttavia nel paese, sin dall’inizio,
nasce un clima di malcelata ostilità nei loro confronti. Mentre sono intenti a
montare un’antenna radio, infatti, alcuni giovani rubano una pistola e delle
munizioni che sono all’interno del camion, con l’intento di organizzare una
qualche forma di resistenza con l’aiuto dei carabinieri.
La risposta tedesca a quest’atto ostile è drastica e immediata: «10 cittadini
saranno fucilati se, entro 24 ore, non sarà riconsegnata la pistola». In questa
circostanza, determinante è la mediazione del parroco don Enrico Castelli, il
quale riesce a far riconsegnare la pistola e convince i tedeschi a desistere dai
loro propositi.
Ma un paio di giorni dopo, c’è la prima vittima civile. Mentre alcuni soldati
sono intenti a spingere un loro autocarro rimasto incastrato in una strada
stretta del centro storico, uno del luogo che passa di lì, si lascia sfuggire:
«Ora ci vorrebbe un aereo inglese».
Qualcuno dei tedeschi deve averlo capito, perché va verso di lui, tira fuori la
pistola e gli spara a bruciapelo, uccidendolo.
A questo fatto di sangue, seguono quotidiane requisizioni di animali e saccheggi
di case. La popolazione risponde con una specie di resistenza passiva, che si
manifesta in mille modi, quali la distruzione di segnaletica militare, fornendo
indicazioni sbagliate o forando le gomme dei camion.
Il caso più evidente di questo tacito scontro è l’abbattimento sistematico di un
palo segnaletico, posto all’ingresso del paese, su cui c’è una freccia con la
scritta STEINER, indicante la sede del comando. Ogni mattina i tedeschi lo
piantano e, puntualmente, la mattina seguente, viene trovato a terra o indicante
una direzione sbagliata. Attorno a questo segnale, ormai si combatte una tacita
guerra psicologica. Alla fine, il comando tedesco è costretto a mettere una
sentinella di guardia, 24 ore su 24.
Di lì a qualche giorno, un altro fatto di sangue peggiora ancora di più i
rapporti fra la popolazione e le truppe occupanti. In una casa colonica, un
soldato tedesco cerca di abusare di una ragazza. Di fronte all’opposizione
energica del padre di costei, li uccide entrambi.
Nei giorni che seguono, è un continuo affluire di soldati e di mezzi. Di sera, è
vietato perfino uscire di casa, perché c’è il coprifuoco. A causa della guerra,
la scuola resta ancora chiusa. I ragazzi tuttavia, nonostante sia pericoloso
andare in giro, non resistono in casa e, appena possono, sfuggono alla
sorveglianza ed escono, andando dappertutto, tedeschi o non tedeschi.
Di solito si riuniscono nel campetto di Castellara, dove c’è un ampio spiazzo
libero in cui giocare, poiché i mezzi tedeschi sono dislocati fuori dal paese,
mimetizzati fra gli uliveti che circondano l’abitato.
Antonio, un ragazzo vivace e molto appassionato di calcio, quel giorno è più
contento del solito. Finalmente, dopo tante insistenti richieste, la madre gli
ha confezionato una palla di pezza. Non vede l’ora di mostrarla agli amici e
provarla.
Ha seguito con religiosa attenzione tutte le fasi della sua realizzazione. Egli
stesso vi ha contribuito raccogliendo gli stracci e spiegando alla madre come
bisognava fare: era necessario serrare le pezze nella giusta misura con un lungo
spago, dando al tutto una forma sferica; se si serra troppo, la palla sarà
troppo dura e farà male nel calciarla o colpirla di testa. Bisognava poi coprire
tutto con un pezzo di stoffa cucito attorno. Per quest’ultima operazione, la
madre ha utilizzato una vecchia gonna decorata con fiori di varia grandezza.
Durante la lavorazione, freme d’impazienza. Alla fine però è molto soddisfatto
del risultato: è venuta proprio una bella palla. Ora anche lui ne possiede una.
Se la mette sotto il braccio e, di corsa, esce di casa in cerca degli amici,
nonostante il divieto della madre.
Li trova tutti al solito posto e, si danno subito da fare per organizzare una
partita. In un baleno tracciano le linee del campo con un pezzo di legno. Con
mucchietti di pietre delimitano le porte e via, passano alla composizione delle
squadre. Per fare ciò, si costituiscono tante coppie, quindi due capitani,
riconosciuti dalla maggioranza, dopo aver fatto la conta si alternano nella
scelta dei propri compagni. Poi, dopo i soliti battibecchi iniziali, comincia la
partita.
Hanno appena iniziato l’incontro quando arriva un tedesco su una motocarrozzetta
il quale, urlando nella sua lingua, li manda via. È sempre lo stesso: ha una V
al braccio e non può vedere i ragazzi giocare. È un vero cane rabbioso. Questi
lo chiamano «lo sfrogiato», perché ha il naso completamente schiacciato, come
certi pugili.
Vanno via tutti. Non Antonio. Lui vuole provare la sua nuova palla, ad ogni
costo.
Va verso la chiesa del Rosario, che sta all’ingresso del paese, e lì resta in
attesa di qualche amico, per andare nel campetto dell’Annunziata, dove non ci
sono tedeschi. Nell’attesa palleggia. Nei palleggi è molto bravo e non teme
rivali. Può eseguirne decine, sia col piede destro sia con il sinistro.
All’improvviso, vede un correre di gente di tutte le età con pentole, secchi e
recipienti vari. Si dirigono tutti verso il frantoio di Fulvio. Nel paese si è
sparsa la notizia della distribuzione gratuita dell’olio dell’ammasso. A fare
avvisare tutti con un pubblico bando, è stato il padrone del frantoio, poiché i
tedeschi gli hanno intimato di vuotare la cisterna dove è ammassato l’olio,
altrimenti avrebbero bruciato tutto: tempo dodici ore.
A questa notizia, Antonio è indeciso. Non sa se andare a casa e cercare un
recipiente per recarsi anche lui a prendere l’olio o attendere gli amici.
È ancora titubante, quando ode un rombo di aerei a cui seguono dei boati cupi e
assordanti. Un violentissimo spostamento d’aria lo scaraventa a terra e, nello
stesso tempo, avverte un lancinante dolore alla gamba sinistra. Dappertutto urla
di terrore e gente che corre in tutte le direzioni, come impazzita. Vede poi
altri aerei che arrivano a volo radente e mitragliano sulla gente che corre.
A qualche metro di distanza scorge la sua palla e, un po’ più in là, una scarpa.
È la sua. Come mai si trova lì? Vuole alzarsi, andare a raccoglierla e fuggire
verso casa, ma non può. Con orrore si rende conto che ha una gamba sola.
L’altra, recisa di netto, sta con la scarpa. Dal moncherino che gli è rimasto, a
fiotti, sgorga una gran quantità di sangue. Terrorizzato chiama la mamma, ma la
vista gli si annebbia e si sente venir meno.
Quando si sveglia, si ritrova in una specie di lettino sotto una grande tenda,
dove ci sono altri feriti. Un carabiniere l’ha raccolto e affidato ai tedeschi
che lo hanno portato nel loro ospedale da campo, situato a ridosso delle loro
linee.
Torna a casa dopo una quindicina di giorni. Viene riportato da un ufficiale
medico e da due infermieri inglesi che lo hanno trovato, assieme ad altri feriti
civili, in un paesino
dell’interno, dove era dislocato l’ospedale da campo tedesco. Costoro gli hanno
regalato un pallone. Un pallone vero, di quelli con camera d’aria e copertone.
Appena a casa, con gli occhi percorre tutta la stanza. Ogni cosa è al suo posto;
è tutto come prima. Non lui. Lui ora è diverso. I fratelli e la madre, che lo
avevano creduto morto, corrono ad abbracciarlo e, se i primi, nella gioia non
notano nulla, all’occhio della madre non sfugge il cambiamento che c’è sul suo
viso. L’aspetto esteriore di una persona non è determinato solo dai suoi tratti
fisici, ma anche dal suo stato d’animo. E quello di Antonio ha reso diversi i
suoi tratti esteriori pur essendo gli stessi di prima. Insomma questo Antonio è
cambiato. Oltre ad avere il viso molto pallido, nei suoi occhi non c’è più
quella vivacità sbarazzina che lo rendevano indisponente, ma simpatico. Da essi
ora traspare solo un’enorme tristezza. Sulla fronte nota anche una leggera
sottile ruga che prima non aveva.
«Deve aver sofferto molto», pensa. I segni della sofferenza sul volto di un
bambino sono una cosa orribile. Tuttavia trattiene le lacrime e stringe al petto
quel figlio mutilato, ma vivo.
I primi giorni a casa, per Antonio sono terribili. Li passa piangendo in
silenzio, mentre, con una mano, accarezza dolcemente e ossessivamente il pallone
che tiene sotto il braccio e che, pochi giorni prima, lo avrebbe reso il bambino
più felice del mondo.
Con una sola gamba, che se ne fa di quel pallone? Ormai è solo un povero zoppo.
Nella testa gli si accavallano tutte le cose che non potrà più fare. Mai più
quelle interminabili partite contro quelli di «Fuori Porta», gli avversari di
sempre. Talvolta duravano anche ore. Sì, perché fra ragazzi, gli incontri di
calcio non hanno un tempo di durata determinato, ma finiscono solo quando si
raggiunge un punteggio stabilito all’inizio. In genere si arriva a cinque gol.
D’estate poi, non potrà più andare al fiume con i compagni. Spogliarsi e,
completamente nudo, immergersi in quell’acqua fresca e rotolarsi poi nella
sabbia cocente. L’estate appena trascorsa, si era perfino tuffato dalle ripe di
«Doddo» che sono le più alte. Ormai, deve dire addio al Biferno e a quelle
scorpacciate di frutta che faceva sulla via del ritorno. Né avrà più motivo di
impolverarsi le parti scoperte del corpo, per nascondere alla mamma la pelle
arrossata per il sole preso al fiume. Solo per arrivarci, ora ci impiegherebbe
un’intera giornata.
Nelle splendide serate estive, con gli amici non potrà più fare i giochi che
erano soliti praticare nell’androne e nel giardino del palazzo ducale. Non li
potrà più fare! Mai più, mai più, mai più. Maledette bombe. Per tutto il tempo
costretto all’immobilità, non pensa ad altro.
La madre e i fratelli cercano di consolarlo. Ma lui non risponde. Continua a
piangere in silenzio. Che ne sanno loro cosa vuol dire non poter più correre,
saltare, arrampicarsi su un albero per vedere i piccoli implumi degli uccelli?
«Devi essere contento di non essere morto come tanti altri», gli dicono. Ma lui
questo non lo capisce. Sa solo che non potrà più fare tutto quello che faceva
prima; e ciò è peggio della morte. Il medico inglese, ogni tanto, viene a
visitarlo e gli medica la ferita. Gli porta sempre caramelle e gomma da
masticare.
Passano così molti giorni, finché la ferita si rimargina del tutto. Per muoversi
gli hanno dato una gruccia su cui appoggiarsi, ma si vergogna ad uscire di casa.
Ricorda una maestra d’asilo che, a causa di una poliomielite avuta da piccola,
camminava aiutandosi con una gruccia. I bambini le gridavano dietro: «La maestra
zopparella, zopparella, zoppappà». Talvolta lo aveva fatto anche lui. Non vuole
che a lui facciano lo stesso.
Alla fine però, dopo tanto indugiare, decide di uscire. Le prime volte va per i
vicoli e le strade meno frequentate. Porta sempre il pallone con sé. Ciò lo fa
sentire più sicuro. Fra i ragazzi, chi possiede un pallone è sempre molto
considerato.
Man mano che passano i giorni, comincia ad abituarsi a questa nuova condizione.
Ora esce anche senza la gruccia. Si sposta saltellando sull’unica gamba rimasta
e si sente più libero. Comincia anche a palleggiare di testa contro il muro. Con
piacere scopre di essere bravo.
[PARTE II]