1/8/2009 ● Cultura
"Rivestiti di Cristo" di Nicola Mattia
L’uso delle vesti liturgiche ha
origini antiche ed è un’esigenza che accomuna tutte le esperienze religiose. Le
civiltà mediterranee precedenti e coeve al popolo israelita, pur avendo i propri
culti, non avevano in proposito consuetudini tali da giustificare la nascita di
un’arte rituale come quella dei paramenti. Il primo vero e proprio riferimento
all’abito cultuale, lo troviamo con certezza nella Bibbia, nel Libro dell’Esodo
(28, 26 – 30) e nel Libro del Levitico (8, 1 – 29).
Nell’Antico Testamento, l’abito è un segno della misericordia di Dio verso
l’uomo. Nell’evolversi del mistero della salvezza, l’abito diviene anche segno
della gloria di Dio e mezzo attraverso il quale Israele esprime il suo stare al
cospetto di Dio. Nel libro dell’Esodo, Dio stesso stabilisce come vestire i suoi
sacerdoti Aronne e i suoi figli. Così l’abito nell’Antico Testamento diviene
anche segno della sacralità della persona che lo riveste e del suo ruolo nel
contesto cultuale.
Nel Nuovo Testamento, accade l’inatteso, l’insperato: Dio riveste la nostra
natura umana; nel mistero dell’Incarnazione, Dio si riveste di umanità per
salvare l’umanità. Così l’abito diviene segno dell’Incarnazione e
contemporaneamente, il segno del Battesimo attraverso il quale, il cristiano si
riveste di Cristo. Nel libro dell’Apocalisse (libro biblico rituale per
eccellenza) al quale si conformerà tutto il Sacro Pontificale terrestre che si
svolge contemporaneamente a quello celeste, l’Onnipotente, che presiede sul
trono questo rito perenne, è descritto nelle sue vesti abbaglianti e tutto il
rito è descritto nei minimi particolari.
Sull’origine dell’uso dei paramenti sacri, e in modo specifico sul loro apparato
sartoriale, possiamo evidenziare varie teorie anche se buona parte dei
liturgisti concorda nell’individuare la base primaria delle vesti indossate
nelle celebrazioni cristiane negli abiti indossati dalla corte imperiale e dalla
nobiltà romana. L’Ordo Romanus I (tardo VII sec.) cerca di normare l’uso
dell’abito liturgico e Innocenzo III (papa dal 1178 al 1180) impone le regole
per l’abbigliamento sacro e dobbiamo a lui la prima designazione dei colori
liturgici per determinati giorni con corrispondenti significati. Frutto del
Concilio di Trento, le Rubriche del Messale riformato da san Pio V (1570)
ammettono la legittimità dei colori proposti da Innocenzo III e il Coerimoniale
Episcoporum (1600) introduce l’uso del colore rosa per le domeniche Gaudete (3
domenica di Avvento) e Laetare (4 domenica di Quaresima). Le Instructiones
Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae di san Carlo Borromeo, pubblicate nel
1577, offrono una esatta descrizione di tutti i “tessili d’altare”; quindi, non
solo le vesti liturgiche dei ministri, ma anche dei lini e delle tovaglie per
l’altare. Il santo ambrosiano ci dona in dettaglio la descrizione tipologica
pezzo per pezzo di un parato completo, mettendo in evidenza fogge e misure e
senza tacere sugli ornati.
A partire dal XIX sec. si cerca di semplificare gli abiti sacri, ormai divenuti
dei capolavori dell’arte tessile e del ricamo. Il Movimento Liturgico del XX
sec. ha cercato di ridare alle vesti liturgiche una forma più conforme a quella
originaria. Il Concilio Vaticano II e l’Istruzione Pontificale Ritus del 1967
propongono soluzioni più pratiche eliminando alcuni abiti e rendendo facoltativi
altri. Frutto maturo della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II,
l’Ordinamento Generale del Messale Romano Editio Tipica III promulgata il 20
aprile 2000 con approvazione della Sede Apostolica il 25 gennaio 2004, dice che
la diversità delle vesti ha lo scopo di manifestare esteriormente la diversità
dei compiti delle varie membra del Corpo di Cristo nell’azione liturgica. Devono
essere pertanto segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Ricordano sia ai
ministri che a tutta l’Assemblea Celebrante che essi non agiscono in forma
privata o a nome proprio ma come ministri di Cristo e della Chiesa. Le vesti
aiutano a percepire e vivere la celebrazione mostrandone la bellezza e la
nobiltà; insieme al canto e alle immagini e altri segni, sono gli elementi più
comprensibili del carattere di ogni celebrazione.
Nel suo amore materno, la Chiesa mai smette di guidare i suoi figli verso il
mistero pasquale di Cristo; per questo l’attenzione che essa riserva alla
celebrazione dei divini misteri e in particolare dell’Eucarestia è ancora oggi
minuzioso.
Benedetto XVI nell’omelia alla Messa del Crisma del 5 aprile 2007 afferma: “(…)
Il “rivestirsi di Cristo”, viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa
Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici (...). Il fatto che stiamo
all’altare con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai
presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un altro”. Gli indumenti
sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda
espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei, per tanto,
spiegare (…) l’essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti
liturgici, che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi
“rivestirsi di Cristo”, parlare e agire in persona Christi. (…) “Il Sangue
dell’Agnello” è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide
le nostre vesti sporche; che (…) trasforma noi stessi in “luce del Signore”. (…)
Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo
nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale,
di cui Egli ci parla nella parabola del Banchetto di Dio. (…) “Il vestito
dell’amore” (…) (nella parabola n.d.r.) il re trova alcuni che non portano il
vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo. Ora che
ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa, dovremmo domandarci se
portiamo quest’abito dell’amore…”.
È importante rilevare che fino alla riforma liturgica conseguente al Concilio
Vaticano II, l’assunzione dei paramenti liturgici era accompagnata dalla
preghiera. Ad ogni abito corrispondeva una preghiera cosi lo stesso rivestirsi
degli abiti diventava culto. L’atteggiamento orante nell’assumere le sacre vesti
è ancora una prassi nel mondo ebraico.
La pianeta o casula:
Giogo soave di Cristo che aiuta a conseguire i gaudii sempiterni (Gregorio di
Automn sec. XI).
Dal latino casa, capanna, copertura. Evoluzione del manto da viaggio, è il
primo, il più antico ed importante abito liturgico occidentale. Originariamente
è un grande semicerchio di tessuto dell’altezza della persona, con una cucitura
anteriore per tre quarti e con alla sommità un’apertura a formare lo scollo la
cui forma varia a seconda degli ambiti geografici.
La pianeta o casula è l’abito della dignità sacerdotale e viene indossato
esclusivamente per la celebrazione eucaristica e in nessun caso per altri riti,
a meno che non siano inseriti nella messa.
La dalmatica:
Proveniente dalla Dalmazia (da cui il nome), nella tarda antichità è una divisa
di corte. Venne concessa in uso ai vescovi da Costantino. Essendo essenzialmente
un’uniforme, è sempre stato l’abito del servizio. Questo paramento nel corso dei
secoli non ha mutato quasi per niente la sua forma: un abito lungo e svasato
verso il basso fornito di maniche e decorato con due lunghe clavii le quali
scendono paralleli dallo scollo fino all’orlo inferiore dell’abito. La dalmatica
è l’abito proprio del diacono e si usa in tutte le celebrazioni liturgiche nelle
quali il diacono è presente.
La stola:
Lunga striscia di stoffa che si porta intorno al collo e pendente sul davanti
del celebrante. Abito proprio del ministero ordinato che però indossa la stola
in modo differente. Anticamente il vescovo lasciava cadere la stola in avanti il
presbitero, la incrociava sul petto e il diacono da un omero al fianco. Oggi il
vescovo e il presbitero indossano la stola allo stesso modo, il diacono come
sempre.
Il piviale:
Probabilmente nasce come evoluzione della cocolla monastica. Alcuni lo derivano
dalla tunica vetero testamentale visto che come quella era adornata di sonagli,
questo lo è di frange che rappresentano le preoccupazioni di questo mondo. È un
paramento indistinto per tutte le dignità e per tutte le funzioni liturgiche ed
è utilizzabile anche dai ministri istituiti. Il paramento è uguale nella sua
forma per tutti: un semicerchio chiuso da un fermaglio in mezzo al petto e
provvisto di cappuccio che molte volte, a partire dal XV–XVI sec., si è evoluto
in uno scudo che cade al centro delle spalle ed è generalmente molto ornato
Il manipolo:
Appeso al braccio sinistro, per molto tempo ridotto a un asciugatoio per
detergersi durante le celebrazioni. È stato spesso considerato un simbolo della
fatica umana. Oggi, la ricerca tende a riconoscere al manipolo una derivazione
dalle vitte consolari latine che come altre parti dell’abbigliamento erano
simboli del potere civile, legate ad effettivi privilegi statali, concessi
dall’imperatore Costantino ai vescovi. Il fatto che il manipolo sia collocato
sul braccio sinistro sembra avvalorare la tesi della sua funzione cerimoniale.
Secondo Rabano Mauro, il manipolo è il segno delle opere buone compiute dagli
uomini santi che cercano di imitare Cristo. Insieme ad altre insegne ne è stato
abolito l’uso nel 1967 dal papa Paolo VI.
La mitria:
Copricapo del vescovo composta da due valve appuntite disgiunte nella parte
sommitale. Dalla parte posteriore pendono due strisce dello stesso materiale che
poggiano sulle spalle dette infule. Un primo documento certo che attesta l’uso
della mitra nella liturgia è una bolla di Leone IX (1049). Nel sec. X la mitra
diviene insegna liturgica del vescovo, ma viene concessa come privilegio anche
agli abati. La mitra lungo i secoli ha conosciuto diverse evoluzioni fino alla
forma attuale che risale (con degli accorgimenti) al sec. XII. Anche se si
trovano mitre dei diversi colori liturgici in effetti la mitra ha conservato
soprattutto i colori originali di bianco, oro o rosso.
Il camice o alba:
Comune a tutti i ministri di ogni ordine e grado, rappresenta la veste candida
battesimale. È ricordata fin dai primi secoli come veste liturgica sacerdotale
(Concilio di Cartagine can. 60). Dall’VIII sec. entra nell’uso liturgico vero e
proprio, e dal IX sec., per disposizione di Papa Leone IV è necessario usare
un’alba apposita per il servizio liturgico. Anche il camice lungo i secoli ha
visto diverse trasformazioni a seconda delle necessità cultuali. Nel XII sec. il
camice viene ampliato e comincia ad essere decorato. Dal 1500, con l’apertura
dei mercati nordici e l’accesso alle produzioni dell’Est Europa si sviluppa un
forte commercio di lino sia sotto forma di stoffe che di merletti, ciò avrà
un’influenza diretta anche sul camice liturgico e sulla sua ornamentazione.
Il velo omerale:
Fin dai tempi più antichi era segno di profonda venerazione non toccare le cose
sacre a mani nude e a questo scopo si usava coprirle con un tessuto (questo
criterio spiega anche il velo del calice e il copri pisside). Già in uso attorno
all’VIII sec. per l’accolito o il suddiacono che con il velo omerale portavano
gli oggetti sacri e soprattutto la patena. Dal XV – XVI sec. usano il velo
omerale anche i sacerdoti per coprire la pisside e soprattutto per la
benedizione eucaristica.
Il conopeo:
È il velo che copre il tabernacolo.
In uso per proteggere i vasi sacri e per indicare la presenza reale di Cristo
nell’Eucarestia conservata nelle chiese, il conopeo è accomunato alla tenda nel
deserto dell’esodo che conserva l’Arca e al velo del Tempio di Salomone a
Gerusalemme dove il velo era posto davanti al Sancta Sanctorum, ove si
conservava l’Arca dell’Alleanza. Al conopeo possono essere accomunati il velo
del calice, il copri pisside, il baldacchino della cattedra, il baldacchino
processionale e l’ombrello liturgico.
Il paliotto o veste dell’altare:
Paramento molto particolare che non riveste la persona del ministro ma un
elemento cultuale fondamentale quale, appunto, l’altare. La sacralità
dell’altare è tale che deve rimanere invisibile e accogliere dignitosamente le
cose sacre, in particolare le specie del pane e del vino che sull’altare vengono
transustanziati.
I colori liturgici:
Anche con i colori la Chiesa esprime i misteri della fede che celebra. Fin dalle
origini il cristianesimo ha sviluppato un sistema di pensiero simbolico attorno
ai colori; il Libro dell’Apocalisse può esserne una prova, oltre che un
riferimento.
I primi riferimenti espliciti ad abiti liturgici colorati si hanno in epoca
carolingia e in questo periodo abbiamo diverse testimonianze di vesti liturgiche
anche a più colori. A lungo i colori delle vesti liturgiche furono quasi del
tutto rimessi alla sensibilità del celebrate e, in ogni caso, variarono molto da
luogo a luogo fin verso l’XI–XII sec. Con il XII sec. notiamo una variazione
cromatica nei tempi liturgici. Innocenzo III (1160 – 1213) cerca di dare ai
colori una prima codificazione simbolica e strutturata: “Quattro sono i colori
principali in uso nella Chiesa di Roma: il bianco, il rosso, il nero e il
verde”. Innocenzo III motiva con il simbolismo l’uso di questi colori nelle
liturgie romane. Anche in seguito al Concilio Lateranense IV (1215), la Curia
Romana fa testo in ambito liturgico presso le altre Chiese occidentali,
soprattutto dopo che Durando di Mende (1296) raccoglie tutti i canoni conciliari
e li diffonde con il suo Rationale; ai colori di Innocenzo IIII, Durando
aggiunge il viola e il giallo oro. Con un salto di diversi secoli, nel 1570, a
seguito della Controriforma e della promulgazione del messale di S. Pio V, i
colori liturgici restano ancora quelli indicati da Innocenzo III. Dopo il
Concilio Vaticano II l’Ordinamento Generale del Messale Romano al cap. IV numeri
345, 346, 347 parla dei colori delle vesti liturgiche e del loro uso nel
calendario liturgico.
Il colore bianco, argento, i colori chiari, l’oro:
Per Gregorio di Tours (538–594) il bianco è sempre riferimento pasquale. Rabano
Mauro definisce l’argento simbolo dell’eloquio spirituale, nitore dell’eloquenza
divina e difinisce l’oro simbolo della stessa divinità di Dio, dello splendore
del paradiso, della carità, della sapienza divina,della vita sacerdotale. Il
bianco si assume come colore liturgico nel Tempo di Pasqua, di Natale, in tutte
le Solennità e feste del Signore, della Vergine Maria, dei santi confessori,
delle sante vergini non martiri, delle vedove.
Il rosso, porpora, scarlatto, rosa, marrone:
Dice Rabano Mauro chi il rosso è il colore dell’ardore della carità, è il segno
della predilezione di Dio e del prossimo, è la passione del Signore. È il
simbolo dell’energia vitale rappresentata dal sangue. Secondo san Gregorio
Magno, il roso in tute le sue sfumature è il segno del servizio e della passione
sacerdotale. Il rosso è il colore liturgico della Passione di Cristo, della
Pentecoste e della memoria degli apostoli (eccetto san Giovanni) e dei martiri.
Il viola e i colori scuri:
Scrive Guglielmo di Durando: “(…) La Chiesa romana usa il colore viola (…)
quando digiuniamo noi maceriamo, crocifiggendolo, il nostro corpo affinché,
divenuto livido, si conformi al colore del corpo di Cristo, dalle cui ferite noi
fummo guariti (…)”. Viola scuro, violaceo e turchino in ambito liturgico erano
spesso considerati simili al nero. Il suo uso nei tempi di avvento e quaresima e
nei funerali.
Il nero:
È il colore degli abiti della magistratura che Costantino concede come
privilegio al clero e in particolare al Papa. Secondo Rabano Mauro il nero è il
colore dell’umiltà e della tribolazione. Il nero è associato a penitenza,
rinuncia, avversità, umiltà, consapevolezza del peccato, tristezza e morte.
Lungo il corso dei secoli diviene il colore usato dal clero fuori dal contesto
liturgico. L’uso del nero doveva sembrare un modo di non indossare paramenti
almeno all’origine dell’uso di questo colore nella liturgia; il non mutare
d’abito era espressione del dolore. Era il colore del Venerdì Santo e per
estensione passerà al rito delle esequie. Il nero è ancora un colore liturgico
che può essere usato nel rito delle esequie dove gli usi e i costumi lo
consentono.
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Testo redatto da Nicola Mattia per la mostra "Rivestiti di Cristo. Vesti
liturgiche della Diocesi di Termoli-Larino” è il titolo della mostra, aperta al
pubblico a Termoli, presso la chiesa di Sant’Anna, dal 1° al 22 Agosto (ore
21-23).