BLOG FONDATO NEL GIUGNO DEL 2000
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Un viaggio nella cultura non ha alcuna meta: la Bellezza genera sensibilità alla consapevolezza.

Luigi Sorella (blogger).
Nato nel 1968.

Operatore con esperienze professionali (web designer, copywriter, direttore di collana editoriale, videomaker, fotografia digitale professionale, graphic developer), dal 2000 è attivo nel campo dell'innovazione, nella comunicazione, nell'informazione e nella divulgazione (impaginazioni d'arte per libri, cataloghi, opuscoli, allestimenti, grafiche etc.) delle soluzioni digitali, della rete, della stampa, della progettazione multimediale, della programmazione, della gestione web e della video-fotografia. Svolge la sua attività professionale presso la ditta ARS idea studio di Guglionesi.

Come operatore con esperienza professionale e qualificata per la progettazione e la gestione informatica su piattaforme digtiali è in possesso delle certificazioni European Informatics Passport.

Il 10 giugno del 2000 fonda il blog FUORI PORTA WEB, tra i primi blog fondati in Italia (circa 3.200.000 visualizzazioni/letture, cfr link).
Le divulgazioni del blog, a carattere culturale nonché editoriale, sono state riprese e citate da pubblicazioni internazionali.

Ha pubblicato libri di varia saggistica divulgativa, collaborando a numerose iniziative culturali.

"E Luigi svela, così, l'irresistibile follia interiore per l'alma terra dei padri sacra e santa." Vincenzo Di Sabato

Per ulteriori informazioni   LUIGI SORELLA


1/8/2009 ● Cultura

"Rivestiti di Cristo" di Nicola Mattia


  Nicola Mattia ● 2460


L’uso delle vesti liturgiche ha origini antiche ed è un’esigenza che accomuna tutte le esperienze religiose. Le civiltà mediterranee precedenti e coeve al popolo israelita, pur avendo i propri culti, non avevano in proposito consuetudini tali da giustificare la nascita di un’arte rituale come quella dei paramenti. Il primo vero e proprio riferimento all’abito cultuale, lo troviamo con certezza nella Bibbia, nel Libro dell’Esodo (28, 26 – 30) e nel Libro del Levitico (8, 1 – 29).
Nell’Antico Testamento, l’abito è un segno della misericordia di Dio verso l’uomo. Nell’evolversi del mistero della salvezza, l’abito diviene anche segno della gloria di Dio e mezzo attraverso il quale Israele esprime il suo stare al cospetto di Dio. Nel libro dell’Esodo, Dio stesso stabilisce come vestire i suoi sacerdoti Aronne e i suoi figli. Così l’abito nell’Antico Testamento diviene anche segno della sacralità della persona che lo riveste e del suo ruolo nel contesto cultuale.
Nel Nuovo Testamento, accade l’inatteso, l’insperato: Dio riveste la nostra natura umana; nel mistero dell’Incarnazione, Dio si riveste di umanità per salvare l’umanità. Così l’abito diviene segno dell’Incarnazione e contemporaneamente, il segno del Battesimo attraverso il quale, il cristiano si riveste di Cristo. Nel libro dell’Apocalisse (libro biblico rituale per eccellenza) al quale si conformerà tutto il Sacro Pontificale terrestre che si svolge contemporaneamente a quello celeste, l’Onnipotente, che presiede sul trono questo rito perenne, è descritto nelle sue vesti abbaglianti e tutto il rito è descritto nei minimi particolari.
Sull’origine dell’uso dei paramenti sacri, e in modo specifico sul loro apparato sartoriale, possiamo evidenziare varie teorie anche se buona parte dei liturgisti concorda nell’individuare la base primaria delle vesti indossate nelle celebrazioni cristiane negli abiti indossati dalla corte imperiale e dalla nobiltà romana. L’Ordo Romanus I (tardo VII sec.) cerca di normare l’uso dell’abito liturgico e Innocenzo III (papa dal 1178 al 1180) impone le regole per l’abbigliamento sacro e dobbiamo a lui la prima designazione dei colori liturgici per determinati giorni con corrispondenti significati. Frutto del Concilio di Trento, le Rubriche del Messale riformato da san Pio V (1570) ammettono la legittimità dei colori proposti da Innocenzo III e il Coerimoniale Episcoporum (1600) introduce l’uso del colore rosa per le domeniche Gaudete (3 domenica di Avvento) e Laetare (4 domenica di Quaresima). Le Instructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae di san Carlo Borromeo, pubblicate nel 1577, offrono una esatta descrizione di tutti i “tessili d’altare”; quindi, non solo le vesti liturgiche dei ministri, ma anche dei lini e delle tovaglie per l’altare. Il santo ambrosiano ci dona in dettaglio la descrizione tipologica pezzo per pezzo di un parato completo, mettendo in evidenza fogge e misure e senza tacere sugli ornati.
A partire dal XIX sec. si cerca di semplificare gli abiti sacri, ormai divenuti dei capolavori dell’arte tessile e del ricamo. Il Movimento Liturgico del XX sec. ha cercato di ridare alle vesti liturgiche una forma più conforme a quella originaria. Il Concilio Vaticano II e l’Istruzione Pontificale Ritus del 1967 propongono soluzioni più pratiche eliminando alcuni abiti e rendendo facoltativi altri. Frutto maturo della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, l’Ordinamento Generale del Messale Romano Editio Tipica III promulgata il 20 aprile 2000 con approvazione della Sede Apostolica il 25 gennaio 2004, dice che la diversità delle vesti ha lo scopo di manifestare esteriormente la diversità dei compiti delle varie membra del Corpo di Cristo nell’azione liturgica. Devono essere pertanto segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Ricordano sia ai ministri che a tutta l’Assemblea Celebrante che essi non agiscono in forma privata o a nome proprio ma come ministri di Cristo e della Chiesa. Le vesti aiutano a percepire e vivere la celebrazione mostrandone la bellezza e la nobiltà; insieme al canto e alle immagini e altri segni, sono gli elementi più comprensibili del carattere di ogni celebrazione.
Nel suo amore materno, la Chiesa mai smette di guidare i suoi figli verso il mistero pasquale di Cristo; per questo l’attenzione che essa riserva alla celebrazione dei divini misteri e in particolare dell’Eucarestia è ancora oggi minuzioso.
Benedetto XVI nell’omelia alla Messa del Crisma del 5 aprile 2007 afferma: “(…) Il “rivestirsi di Cristo”, viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici (...). Il fatto che stiamo all’altare con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un altro”. Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei, per tanto, spiegare (…) l’essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici, che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi “rivestirsi di Cristo”, parlare e agire in persona Christi. (…) “Il Sangue dell’Agnello” è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che (…) trasforma noi stessi in “luce del Signore”. (…) Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del Banchetto di Dio. (…) “Il vestito dell’amore” (…) (nella parabola n.d.r.) il re trova alcuni che non portano il vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo. Ora che ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa, dovremmo domandarci se portiamo quest’abito dell’amore…”.
È importante rilevare che fino alla riforma liturgica conseguente al Concilio Vaticano II, l’assunzione dei paramenti liturgici era accompagnata dalla preghiera. Ad ogni abito corrispondeva una preghiera cosi lo stesso rivestirsi degli abiti diventava culto. L’atteggiamento orante nell’assumere le sacre vesti è ancora una prassi nel mondo ebraico.

La pianeta o casula:
Giogo soave di Cristo che aiuta a conseguire i gaudii sempiterni (Gregorio di Automn sec. XI).
Dal latino casa, capanna, copertura. Evoluzione del manto da viaggio, è il primo, il più antico ed importante abito liturgico occidentale. Originariamente è un grande semicerchio di tessuto dell’altezza della persona, con una cucitura anteriore per tre quarti e con alla sommità un’apertura a formare lo scollo la cui forma varia a seconda degli ambiti geografici.
La pianeta o casula è l’abito della dignità sacerdotale e viene indossato esclusivamente per la celebrazione eucaristica e in nessun caso per altri riti, a meno che non siano inseriti nella messa.

La dalmatica:
Proveniente dalla Dalmazia (da cui il nome), nella tarda antichità è una divisa di corte. Venne concessa in uso ai vescovi da Costantino. Essendo essenzialmente un’uniforme, è sempre stato l’abito del servizio. Questo paramento nel corso dei secoli non ha mutato quasi per niente la sua forma: un abito lungo e svasato verso il basso fornito di maniche e decorato con due lunghe clavii le quali scendono paralleli dallo scollo fino all’orlo inferiore dell’abito. La dalmatica è l’abito proprio del diacono e si usa in tutte le celebrazioni liturgiche nelle quali il diacono è presente.

La stola:
Lunga striscia di stoffa che si porta intorno al collo e pendente sul davanti del celebrante. Abito proprio del ministero ordinato che però indossa la stola in modo differente. Anticamente il vescovo lasciava cadere la stola in avanti il presbitero, la incrociava sul petto e il diacono da un omero al fianco. Oggi il vescovo e il presbitero indossano la stola allo stesso modo, il diacono come sempre.

Il piviale:
Probabilmente nasce come evoluzione della cocolla monastica. Alcuni lo derivano dalla tunica vetero testamentale visto che come quella era adornata di sonagli, questo lo è di frange che rappresentano le preoccupazioni di questo mondo. È un paramento indistinto per tutte le dignità e per tutte le funzioni liturgiche ed è utilizzabile anche dai ministri istituiti. Il paramento è uguale nella sua forma per tutti: un semicerchio chiuso da un fermaglio in mezzo al petto e provvisto di cappuccio che molte volte, a partire dal XV–XVI sec., si è evoluto in uno scudo che cade al centro delle spalle ed è generalmente molto ornato

Il manipolo:
Appeso al braccio sinistro, per molto tempo ridotto a un asciugatoio per detergersi durante le celebrazioni. È stato spesso considerato un simbolo della fatica umana. Oggi, la ricerca tende a riconoscere al manipolo una derivazione dalle vitte consolari latine che come altre parti dell’abbigliamento erano simboli del potere civile, legate ad effettivi privilegi statali, concessi dall’imperatore Costantino ai vescovi. Il fatto che il manipolo sia collocato sul braccio sinistro sembra avvalorare la tesi della sua funzione cerimoniale. Secondo Rabano Mauro, il manipolo è il segno delle opere buone compiute dagli uomini santi che cercano di imitare Cristo. Insieme ad altre insegne ne è stato abolito l’uso nel 1967 dal papa Paolo VI.

La mitria:
Copricapo del vescovo composta da due valve appuntite disgiunte nella parte sommitale. Dalla parte posteriore pendono due strisce dello stesso materiale che poggiano sulle spalle dette infule. Un primo documento certo che attesta l’uso della mitra nella liturgia è una bolla di Leone IX (1049). Nel sec. X la mitra diviene insegna liturgica del vescovo, ma viene concessa come privilegio anche agli abati. La mitra lungo i secoli ha conosciuto diverse evoluzioni fino alla forma attuale che risale (con degli accorgimenti) al sec. XII. Anche se si trovano mitre dei diversi colori liturgici in effetti la mitra ha conservato soprattutto i colori originali di bianco, oro o rosso.

Il camice o alba:
Comune a tutti i ministri di ogni ordine e grado, rappresenta la veste candida battesimale. È ricordata fin dai primi secoli come veste liturgica sacerdotale (Concilio di Cartagine can. 60). Dall’VIII sec. entra nell’uso liturgico vero e proprio, e dal IX sec., per disposizione di Papa Leone IV è necessario usare un’alba apposita per il servizio liturgico. Anche il camice lungo i secoli ha visto diverse trasformazioni a seconda delle necessità cultuali. Nel XII sec. il camice viene ampliato e comincia ad essere decorato. Dal 1500, con l’apertura dei mercati nordici e l’accesso alle produzioni dell’Est Europa si sviluppa un forte commercio di lino sia sotto forma di stoffe che di merletti, ciò avrà un’influenza diretta anche sul camice liturgico e sulla sua ornamentazione.

Il velo omerale:
Fin dai tempi più antichi era segno di profonda venerazione non toccare le cose sacre a mani nude e a questo scopo si usava coprirle con un tessuto (questo criterio spiega anche il velo del calice e il copri pisside). Già in uso attorno all’VIII sec. per l’accolito o il suddiacono che con il velo omerale portavano gli oggetti sacri e soprattutto la patena. Dal XV – XVI sec. usano il velo omerale anche i sacerdoti per coprire la pisside e soprattutto per la benedizione eucaristica.

Il conopeo:
È il velo che copre il tabernacolo.
In uso per proteggere i vasi sacri e per indicare la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia conservata nelle chiese, il conopeo è accomunato alla tenda nel deserto dell’esodo che conserva l’Arca e al velo del Tempio di Salomone a Gerusalemme dove il velo era posto davanti al Sancta Sanctorum, ove si conservava l’Arca dell’Alleanza. Al conopeo possono essere accomunati il velo del calice, il copri pisside, il baldacchino della cattedra, il baldacchino processionale e l’ombrello liturgico.

Il paliotto o veste dell’altare:
Paramento molto particolare che non riveste la persona del ministro ma un elemento cultuale fondamentale quale, appunto, l’altare. La sacralità dell’altare è tale che deve rimanere invisibile e accogliere dignitosamente le cose sacre, in particolare le specie del pane e del vino che sull’altare vengono transustanziati.

I colori liturgici:
Anche con i colori la Chiesa esprime i misteri della fede che celebra. Fin dalle origini il cristianesimo ha sviluppato un sistema di pensiero simbolico attorno ai colori; il Libro dell’Apocalisse può esserne una prova, oltre che un riferimento.
I primi riferimenti espliciti ad abiti liturgici colorati si hanno in epoca carolingia e in questo periodo abbiamo diverse testimonianze di vesti liturgiche anche a più colori. A lungo i colori delle vesti liturgiche furono quasi del tutto rimessi alla sensibilità del celebrate e, in ogni caso, variarono molto da luogo a luogo fin verso l’XI–XII sec. Con il XII sec. notiamo una variazione cromatica nei tempi liturgici. Innocenzo III (1160 – 1213) cerca di dare ai colori una prima codificazione simbolica e strutturata: “Quattro sono i colori principali in uso nella Chiesa di Roma: il bianco, il rosso, il nero e il verde”. Innocenzo III motiva con il simbolismo l’uso di questi colori nelle liturgie romane. Anche in seguito al Concilio Lateranense IV (1215), la Curia Romana fa testo in ambito liturgico presso le altre Chiese occidentali, soprattutto dopo che Durando di Mende (1296) raccoglie tutti i canoni conciliari e li diffonde con il suo Rationale; ai colori di Innocenzo IIII, Durando aggiunge il viola e il giallo oro. Con un salto di diversi secoli, nel 1570, a seguito della Controriforma e della promulgazione del messale di S. Pio V, i colori liturgici restano ancora quelli indicati da Innocenzo III. Dopo il Concilio Vaticano II l’Ordinamento Generale del Messale Romano al cap. IV numeri 345, 346, 347 parla dei colori delle vesti liturgiche e del loro uso nel calendario liturgico.

Il colore bianco, argento, i colori chiari, l’oro:
Per Gregorio di Tours (538–594) il bianco è sempre riferimento pasquale. Rabano Mauro definisce l’argento simbolo dell’eloquio spirituale, nitore dell’eloquenza divina e difinisce l’oro simbolo della stessa divinità di Dio, dello splendore del paradiso, della carità, della sapienza divina,della vita sacerdotale. Il bianco si assume come colore liturgico nel Tempo di Pasqua, di Natale, in tutte le Solennità e feste del Signore, della Vergine Maria, dei santi confessori, delle sante vergini non martiri, delle vedove.

Il rosso, porpora, scarlatto, rosa, marrone:
Dice Rabano Mauro chi il rosso è il colore dell’ardore della carità, è il segno della predilezione di Dio e del prossimo, è la passione del Signore. È il simbolo dell’energia vitale rappresentata dal sangue. Secondo san Gregorio Magno, il roso in tute le sue sfumature è il segno del servizio e della passione sacerdotale. Il rosso è il colore liturgico della Passione di Cristo, della Pentecoste e della memoria degli apostoli (eccetto san Giovanni) e dei martiri.

Il viola e i colori scuri:
Scrive Guglielmo di Durando: “(…) La Chiesa romana usa il colore viola (…) quando digiuniamo noi maceriamo, crocifiggendolo, il nostro corpo affinché, divenuto livido, si conformi al colore del corpo di Cristo, dalle cui ferite noi fummo guariti (…)”. Viola scuro, violaceo e turchino in ambito liturgico erano spesso considerati simili al nero. Il suo uso nei tempi di avvento e quaresima e nei funerali.

Il nero:
È il colore degli abiti della magistratura che Costantino concede come privilegio al clero e in particolare al Papa. Secondo Rabano Mauro il nero è il colore dell’umiltà e della tribolazione. Il nero è associato a penitenza, rinuncia, avversità, umiltà, consapevolezza del peccato, tristezza e morte. Lungo il corso dei secoli diviene il colore usato dal clero fuori dal contesto liturgico. L’uso del nero doveva sembrare un modo di non indossare paramenti almeno all’origine dell’uso di questo colore nella liturgia; il non mutare d’abito era espressione del dolore. Era il colore del Venerdì Santo e per estensione passerà al rito delle esequie. Il nero è ancora un colore liturgico che può essere usato nel rito delle esequie dove gli usi e i costumi lo consentono.
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Testo redatto da Nicola Mattia per la mostra "Rivestiti di Cristo. Vesti liturgiche della Diocesi di Termoli-Larino” è il titolo della mostra, aperta al pubblico a Termoli, presso la chiesa di Sant’Anna, dal 1° al 22 Agosto (ore 21-23).

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