25/7/2009 ● Cultura
Veglia funebre [parte I]
Fuoriportaweb pubblica, in esclusiva "prima nazionale", la prima parte del racconto "Veglia funebre" di Domenico Aceto.
Domenico Aceto
Veglia funebre
Parte I
Alle ore 17 di venerdi 17 novembre 1942, viene a mancare all’affetto dei suoi
cari Adamo Santilli, calzolaio. Da tutti conosciuto come «compare Dammuccio». E’
morto all’improvviso; mentre, seduto al suo banco di lavoro, sta risuolando una
scarpa.
La notizia della sua morte si sparge nel quartiere in un baleno, e da qui
rimbalza per il paese. E’ conosciuto da tutti, perché è uno degli unici tre o
quattro socialisti dichiarati. Quelli che, ogni 1° maggio, festeggiavano la
ricorrenza astenendosi dal lavoro e facendo una scampagnata al cimitero.
Ha dimostrato questa sua fede ( e di fede bisogna parlare) in ogni occasione.
Ciò gli ha fatto subire angherie e dispetti di ogni genere da parte dei fascisti
sin dal fatidico 1922. Subito dopo la marcia su Roma, ad esempio, in occasione
del discorso di un gerarca, venuto dalla capitale, aveva osato presentarsi in
piazza con una vistosa cravatta rossa e il giornale l’«Avanti» sotto il braccio,
con il titolo ben in evidenza. Questo giornale, che esibiva molto spesso, era
una vecchia copia, avuta da un avvocato socialista che era stato il suo maestro.
Ma questa volta, la sua esibizione aveva causato la rabbiosa reazione dei
fascisti locali che, la sera dello stesso giorno, lo avevano preso di sorpresa e
gli avevano fatto ingurgitare una bottiglia di olio di ricino.
E’ anche conosciuto come un incallito anticlericale. A Cola, suo compagno di
fede politica, che aveva appena avuto un figlio, aveva suggerito di chiamarlo
«Anticlero». Cosa che regolarmente avvenne. Così, questo incolpevole bambino,
per tutta la vita, testimonierà l’amicizia di suo padre per compare Dammuccio.
Dai suoi concittadini, in sintesi, è ammirato o disprezzato, secondo i punti di
vista.
Lascia la moglie Maria, benpensante e spesso in contrasto con lui, e la figlia
Giulia, quasi quarantenne, nubile. Il padre adoperava questo termine al posto di
«zitella», poiché aveva un significato più vago e perché, da come suonava, aveva
qualcosa di nobile.
Alle grida accorrono tutte le donne del vicinato che, in breve riempiono la
casa, manifestando ognuna il proprio stupore per l’improvvisa dipartita.
«Chi poteva immaginare una cosa simile!» dice una delle prime accorse. «Era il
ritratto della salute.»
Un’altra, indicando il banco di lavoro, ricorda: «Mi pare di vederlo ancora lì,
seduto al suo banco mentre, cantando, batteva con il suo martello».
«Me lo sentivo che qualcosa doveva accadere», continua a ripetere la moglie, che
dà una sua spiegazione dell’accaduto. «Da tre giorni sentivo una civetta cantare
dal tetto di fronte.»
«Guai a dove guarda la civetta», conferma un’altra comare. «Anche quando è morto
la buonanima (allude al proprio marito), c’era una civetta che, per quasi un
mese, tutte le notti ha cantato dal tetto della casa di fronte. A nessuna viene
in mente che, forse quella povera civetta cantava da quel tetto semplicemente
perché lì aveva fatto il suo nido.
Intanto continua ad arrivare gente. Giunge anche la moglie del podestà, che
abita poco distante. Anche lei, come il marito, fascista della prima ora. «Ma»,
come aveva detto entrando, «di fronte alla morte, la politica non conta.» Anche
se poi, andando via, aveva confidato alla moglie del panettiere: «Sì, compare
Dammuccio era una brava persona, per l’amor di Dio, Ma era un po’ disfattista.
Io stessa, da casa mia, spesso l’ho sentito cantare certe canzoni… a dir poco da
traditore. Conosci quella che dice: «Adesso viene il bello, adesso viene il
bello, Inghilterra, Inghilterra, la tua fine è segnata già»? Ebbene, sai come la
cantava lui? “Adesso viene il bello, adesso viene il bello, senz’olio nella
padella non si può cucinar.” D’altronde, non è un mistero che non potesse
soffrire i fascisti, specialmente perché gli avevano fatto bere l’olio di
ricino».
Cominciano ad arrivare anche gli uomini. Ci sono i due cugini di compare
Dammuccio, alcuni amici del vicinato e Cola il rosso, l’inseparabile compagno di
fede politica. Ha questo soprannome non solo perché socialista, ma anche per via
della capigliatura e di una folta barba color rosso Tiziano. Insieme hanno
sostenuto tante lotte.
Tutti fanno una visitina al capezzale del defunto, poi si sistemano nel vano
d’ingresso, dove possono anche fumare. Cola invece, contempla l’amico più a
lungo e scuote il capo con un’espressione d’incredulità. Poi, quasi con tono di
rimprovero, gli dice: «Potevi aspettare ancora un po’ prima di andartene! Non
hai potuto vedere questi pagliacci vestiti di nero finire nella polvere»
(allude, è chiaro, ai fascisti). «Ma, porco mondo, io ci sarò!», aggiunge con
determinazione. «E ci sarò anche per te!» Quindi raggiunge gli altri uomini e si
arrotola una sigaretta.
Nella camera dove c’è il morto intanto le donne, sedute attorno al letto,
iniziano la veglia funebre alternando preghiere a discussioni sul destino degli
uomini, la caducità delle cose e l’aldilà.
«Di sicuro, ora ha già incontrato tutti i parenti», dice una delle pie donne.
«Chi lo sa?» ribatte un’altra. Poi, con aria sicura, come se ne fosse appena
tornata, aggiunge: «Credete forse che l’altro mondo sia una piazzetta? Con tutti
i morti che ci sono, soprattutto ora che c’è la guerra, mica è facile trovare le
persone!».
«Ma che dici!» Interviene una terza, tutta scandalizzata. «Quelli, i paesani si
mettono riuniti. Io sono sicura che ha già incontrato anche mia madre.» Quindi,
rivolta al morto, aggiunge: «Ti raccomando, compare, portale tanti saluti. Dille
pure che poteva aspettare ancora un po’ a morire. Almeno fino a quando finivamo
di zappare la vigna».
«A me deve fare un piacere più grande», interviene un’altra comare, che vuole
anche lei approfittare di compare Dammuccio, in viaggio per l’altro mondo, per
regolare una questione di famiglia col proprio padre, morto qualche anno prima.
Spiega quindi alle presenti: «Deve dire a mio padre che sono arrabbiata perché
ha lasciato tutti i beni a mio fratello Antonio. Tutto ad Antonio, capite? La
vigna, il casino, la casa. Non ero forse anch’io sua figlia?». Mentre tutte
approvano con il capo e con un viso di circostanza, lei con ostinazione continua
a ripetere: «Tutto ad Antonio, tutto ad Antonio!». Infine, rivolto al morto, gli
ingiunge: «Compare, questo favore me lo devi proprio fare. Ricordati che io sono
stata sempre tua cliente». E qui marca il tono della voce.
Ma ciò non piace alla figlia del defunto che le risponde: «Ora, solo perché è
stata cliente, una può chiedere tutti i servizi che vuole. Sì, qualche saluto
passi, ma queste sono faccende da avvocati. E mio padre, che ne sa di queste
cose?».
«Certo ora chiarirà ogni cosa con il Padreterno.» Interviene un’altra,
introducendo il tema politico, per allentare la tensione che si sta creando.
«Gli dirà anche perché era socialista.» Ma qui è comare Maria che, prendendo le
difese del marito, ribatte: «Perché i socialisti non sono figli a Dio? Mio
marito la pensava come la pensava, perché vedeva troppe ingiustizie e voleva
cambiare questo mondo schifoso. Al contrario di tanti che vanno in chiesa tutte
le mattine, ma non si curano del prossimo».
«Per carità, comare Maria», ribatte la donna, «volevo solo dire che quello, il
Padreterno, vede tutto e capisce tutto.»
«D’altronde ognuno ha qualcosa da farsi perdonare», interviene un’altra. «Perciò
c’è il purgatorio.» Poi, con tono rassegnato, aggiunge: «E chi non deve fare
qualche annetto di purgatorio?»
Mentre si svolge questa discussione di teologia popolare, dalla strada si odono
all’improvviso delle grida che, man mano, aumentano d’intensità. Viene
interrotto il discorso sull’aldilà e si leva un brusìo sommesso: «E’ la comare
Assunta!».
«Sta arrivando la sorella del morto!»
Costei, da sempre in contrasto con la cognata, appena entrata, va al capezzale
del fratello e, alludendo evidentemente alla cognata, comincia la sua orazione:
«Fratello mio, l’ho sempre detto che, prima o poi, questa ti avrebbe fatto
morire di crepacuore». Punta sul vivo, comare Maria ribatte: «E che! Doveva
forse campare in eterno? L’ho sempre accudito come un re». E, chiamando a
testimoni i presenti, aggiunge: «E’ vero o non è vero? Lo avete visto qualche
volta con una camicia sporca? Gli facevo anche la scriminatura ai capelli prima
che uscisse di casa».
L’antica ruggine esistente fra le cognate riaffiora più viva che mai. E vengono
ricordati i maltrattamenti ai suoceri, un vano di casa conteso, la dote promessa
e non data e perfino le spese per il matrimonio, avvenuto più di quarant’anni
prima.
Le donne presenti non perdono una parola, approvando o disapprovando con
l’espressione del viso, quanto viene detto.
Questa sceneggiata va avanti a lungo, finché una donna più anziana, rispettata
da entrambe le contendenti, dice: «Su, non rivanghiamo il passato! Pensiamo
piuttosto all’anima di compare Dammuccio», come se fossero loro a decidere della
sorte di quell’anima. Detto ciò, inizia a recitare il rosario.
Le due cognate, forse anche perché stanche, accettano la tregua e iniziano a
recitare le preghiere assieme alle altre. Ma, al terzo mistero doloroso, comare
Assunta, come se fosse stata punta all’improvviso da uno spillo, sovrastando la
voce di tutte, che avevano cominciato, prorompe: «E poi, quando è morto mio
padre, che era anche il padre di tuo marito, non hai forse fatto indossare a tua
figlia una veste rossa?».
Tirata in ballo, interviene la figlia-nipote: «Poiché era morto mio nonno,
dovevo dismettere un vestito che avevo appena fatto? Mi dovevo seppellire viva?
Ai morti non interessa il colore dei vestiti».
«Ma ai vivi i soldi dei morti interessano!» ribatte la zia-cognata.
[Fine prima parte, continua con prossima pubblicazione su Fuoriportaweb].