18/6/2009 ● Cultura
Dall'intervista al filosofo Paolo Rossi: la memoria, l'identità e i luoghi
Il tema della memoria non è solo un problema filosofico, ma è
radicato profondamente nell'uomo, che ha il terrore di essere dimenticato. Il
nostro desiderio di immortalità, indipendentemente dal fatto che crediamo o meno
all'anima immortale, è comunque forte. Vorrei citare, a questo proposito, un
famoso esempio letterario. Perfino dall'oltretomba ci è giunta, nella
letteratura, l'espressione di questo profondo desiderio di non essere
dimenticati, perché nei versi de La Divina Commedia, c'è uno che si rivolge a
Dante e gli dice:
"Quando tu sarai nel dolce mondo
priegoti che alla mente altrui mi rechi".
Questo uomo che sta nell'altro mondo desidera che Dante ricordi il suo nome
sulla terra affinché esso non venga dimenticato. Questo tema del non essere
dimenticati è una cosa così vasta che trova un'espressione peculiare; siamo
pieni di oggetti che richiamano alla memoria qualcosa; per limitarci alle
persone, i cimiteri sono luoghi che ci richiamano alla memoria le persone
scomparse, come anche i monumenti, le stele, le lapidi, insomma sono modi per
rendere in un'immagine fisica una presenza che non c'è più, per richiamare
qualche cosa alla memoria, perché questo è indubbiamente un valore.
Si può affrontare questo tema su un piano di filosofia alta e ci si può anche
rendere conto della sua presenza guardando ai prodotti culturali, per così dire,
non accademici, che non appartengono alla cosiddetta alta cultura. C'è un film
molto bello, Blade Runner, dove compaiono dei "replicanti", esseri artificiali
assolutamente identici agli esseri umani, che vivono in mezzo a loro e che non
sanno di essere dei replicanti. Il loro problema è proprio questo. Nel momento
in cui si affaccia nella mente di una di queste replicanti, che nel caso
specifico era una donna, il dubbio di essere tale, di non essere un vero essere
umano, ma un automa (quindi qualcuno che ha una memoria che gli è stata inserita
nel cervello come in una macchina e che non è la memoria vera), allora
sopravviene una crisi e questa donna, guardando delle vecchie fotografie
ingiallite su un pianoforte, si domanda se sono ricordi veri o sono falsi. Il
dubbio che quei ricordi siano falsi la getta in una angoscia terribile, perché è
una persona che non può avere nostalgia del passato.
L'assenza della nostalgia, l'assenza della memoria è, come si dice comunemente
(mi sembra un'espressione ancora valida), una perdita dell'identità. Se non
avessimo la nostra memoria non sapremmo chi siamo.
L'identità personale è fondata sulla memoria, sulla propria autobiografia. Io so
che sono lo stesso di quando avevo tre anni e questa è un'assoluta certezza,
direbbe David Hume, anche se non è in nessun modo dimostrabile: è un'assoluta
certezza che deriva dalla memoria e dall'uso che faccio della memoria. Quella
della memoria collettiva è soltanto un'analogia. Come la mia identità è data
dalla memoria personale, allo stesso modo, entro certi limiti, posso dire che
l'identità di un gruppo è data dalla sua memoria, tant'è vero che ogni gruppo,
ogni partito o qualunque collettività umana, anche un club di persone che si
riuniscono per giocare a carte, costruisce dei simboli che sono quelli che
richiamano le finalità o gli scopi per i quali queste persone in qualche modo si
trovano.
Viene da dire che il tema della dimenticanza non è un problema marginale; la
memoria e la dimenticanza sono due cose collegate. Anche qui vale un'analogia
forte. Che cosa vuol dire ricordare, ad esempio ricordare la propria vita? Vuol
dire selezionare, ricordare pezzi, istanti, momenti.
Se una persona ricordasse tutto, si troverebbe in una situazione spaventosa,
patologica. C'è un racconto di Borges molto bello che si intitola Funes el
memorioso. Funes è un uomo che non può dimenticare nulla e, poiché non può
dimenticare, non ha ricordi, ma ha una folla sterminata di cose che gli uccidono
la mente, gli uccidono il cervello. Dice Borges: non ricorda soltanto il
bicchiere su un tavolo, ma vede tutti gli acini dei grappoli d'uva, che formano
la pergola che sta sopra il tavolo, ricorda tutto il tessuto che ha visto, quel
bicchiere in quel modo specifico: ricorda, quindi, i singoli atti, istante per
istante.
Quindi se non c'è dimenticanza, non c'è neppure memoria; avremmo soltanto quella
specie di cosa spaventosa che sarebbe il ricordare tutto.
(…) Da una parte abbiamo dimenticato che la memoria è una storia, e cioè che è
esistita un'epoca, nella nostra cultura, vicina — perché si tratta di pochi
secoli fa — in cui la memoria veniva coltivata e rafforzata artificialmente
negli esseri umani. Sì, c'erano delle vere e proprie arti della memoria e
c'erano persone che utilizzavano quest'arte o si presentavano al pubblico,
dicendo di aver utilizzato quest'arte e raggiungevano effetti abbastanza
sbalorditivi, non proprio come quelli del paziente di Lurija ma andavano molto
vicino. La cosa che mi ha interessato di più era: la comprensione di che cosa
fosse quest'arte. Non è una gran cosa, nel senso che non è una cosa
particolarmente difficile da spiegare e non ha nulla di sublime. E' una cosa che
c'è in Cicerone, c'è in Quintiliano, c'è nella retorica antica, in Tommaso
d'Aquino e c'è nei grandi mnemonisti del Quattro, del Cinquecento. La tecnica è
abbastanza semplice: si prende un luogo fisico, per esempio una chiesa o una
casa che abbia molte finestre, molte colonne — insomma un luogo geometricamente
rappresentabile nella mente con facilità — e si memorizzano, in modo completo e
assoluto, essendo sicuri di non sbagliare i luoghi, i cosiddetti "loca", i
"luoghi" della memoria. Diciamola ancora questa parola: luoghi della memoria. Su
questi luoghi si collocano delle immagini. Loro dicevano: i luoghi sono come la
carta, le immagini come la scrittura. Cioè, i luoghi sono fissi e non li posso
più cambiare, cioè, posso farlo, ma allora costruisco un altro sistema, le
immagini sono mobili, sono come la scrittura sulla carta. In questo casa l'arte
della memoria consiste nel collocare le immagini nei luoghi. Allora, se
l'ambiente mi è molto familiare, ripercorrendo i luoghi, io rivedo una dopo
l'altra le immagini. Queste immagini sono tali, per associazione o per
contrasto, da richiamarmi la cosa che devo ricordare.
Una cosa abbastanza complicata, se uno ci pensa, perché è più complicata di
quello che comunemente facciamo quando ci ricordiamo. Queste immagini, che
caratteristiche devono avere? Pietro da Ravenna, che era il più famoso dei
teologi dell' "ars memorativa" del Rinascimento, dice: devono essere immagini
che eccitino l'immaginazione, tanto che lui dice di esitare molto a rivolgersi a
un pubblico che, evidentemente, deve essere casto e non peccatore, non deve
avere immagini peccaminose. Però, il miglior suggerimento che può dare è quello
di collocare delle fanciulle nude nei luoghi, perché, dice, gli uomini ricordano
con più facilità l'immagine di una fanciulla nuda che qualunque altra immagine.
(…) Una delle mie fortune fu di studiare con Eugenio Garin e quindi, in qualche
modo, di sbarcare su due territori poco frequentati dai filosofi, dei quali uno
era quello della tradizione ermetica o della tradizione magica della filosofia
del Rinascimento, e l'altro, appunto, era questo dell'arte della memoria, ai
quali io arrivai per una strada, per così dire, casuale, che è quella
dell'importanza attribuita alla memoria che avevo riscontrato nei testi di
Francis Bacon. Lui parlava esplicitamente di un'arte della memoria. Fui
incuriosito da questo e partii su queste basi. Naturalmente il tema è rilevante
nella tradizione filosofica. Basta pensare ai due grandi nomi canonici di ogni
storia della filosofia, che sono Platone da una parte e Aristotele dall'altra.
Quando Platone dice che ogni sapere è reminiscenza questo concetto ,
evidentemente, ha qualcosa a che fare con la memoria, anzi è strettamente legato
alla memoria. Cioè, ogni cosa che sappiamo è il ricordo di ciò che abbiamo
appreso in un'altra vita, in un altro mondo, prima di scendere in questo mondo.
Nella filosofia di Aristotele la memoria occupa una parte estremamente
importante e rilevante, però l'ottica è completamente diversa. Aristotele ha un
atteggiamento che, in modo un po' affrettato, potremmo definire, scientifico.
Cioè Aristotele si occupa di una delle facoltà della mente umana e distingue con
grande cura, opera una distinzione, che poi era stata classica per tutto il
Medioevo, per una larga parte dell'età moderna, tra memoria e reminiscenza. La
memoria è quel fenomeno per cui ci vengono in mente cose del passato, la
reminiscenza è quando cerchiamo nel passato di riafferrare un pezzo che è
scomparso. Quindi, la reminiscenza ha un aspetto di consapevolezza che nella
memoria è in qualche modo assente. E' ovvio che queste sono due ottiche, due
modi di guardare la memoria, che in parte si intrecciano alla storia della
filosofia, ma nella sostanza restano fortemente alternative, fortemente diverse.
Voglio fare un solo riferimento alla filosofia, alla cultura contemporanea.
Nella cultura contemporanea c' è un enorme interesse per la memoria, questo
interesse per la memoria non è solo dei filosofi, ma è prevalentemente dei
neurologi, degli psicologi, degli psichiatri, degli studiosi del cervello in
generale. C'è poi una riflessione filosofica sulla memoria, anch'essa rilevante.
Questa è una faccia, un aspetto del problema. L'altro - siamo nell'altra
direzione, nell'altra dimensione - il tema della memoria ha a che fare
maggiormente con questa tradizione platonica a cui accennavo prima. Faccio un
solo esempio: se si pensa alla tematica dell'oblio dell'essere nella filosofia
di Heidegger, ecco, quando si pensa a questo, allora ci si accorge che
quell'antico tema del sapere, come reminiscenza o della presenza nel mondo
dell'uomo come decadimento non è un tema scomparso nemmeno nella filosofia
contemporanea. Si tratta, quindi di due tradizioni diverse, che, nel passato,
hanno avuto dei rapporti e che tuttavia continuano a coesistere nel nostro
stesso mondo.
[Fonte: Interviste, Paolo Rossi, La memoria, 29/11/1994]
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Paolo Rossi, è nato a Urbino nel 1923. Si è laureato a Firenze con Eugenio Garin.
Nel 1947, sempre con Garin, ha conseguito il diploma di perfezionamento in Studi
Filosofici. Dal 1950 al 1959 è stato, a Milano, assistente di Antonio Banfi.
Libero docente in Storia della Filosofia nel 1954, è stato professore incaricato
di Filosofia della Storia nella Facoltà di Lettere dell'Università di Milano dal
1955 al 1961. Ordinario di Storia della Filosofia dal 1961, ha insegnato nelle
Università di Cagliari e di Bologna e, dal 1966, nell'Università di Firenze. Nel
1959 ha conseguito un "Research Grant" presso il Warburg Institute della London
University. Nel 1970 è stato "Visiting Fellow" presso il Wolfson College della
Università di Cambridge. Nel 1972 è stato eletto membro del Comitato 08 del
Consiglio Nazionale delle Ricerche e rieletto nel 1977. Dal 1980 al 1983 è stato
Presidente della Società Filosofica Italiana e, dal 1983 al 1990, presidente
della Società Italiana di Storia della Scienza. Nel 1981 è stato eletto Socio
Corrispondente della Accademia Pontaniana di Napoli. Nel 1985 gli è stata
conferita dalla "History of Science Society" (U.S.A.) la "Sarton Medal" per la
Storia della Scienza. Nel 1988 è stato eletto Socio Corrispondente della
Accademia Nazionale dei Lincei e, nel 1992, Socio Nazionale. Dal 1989 è membro
dell' Accademia Europea.