21/3/2009 ● Cultura
"Esperienze di vita di scuola", Ferdinando Gizzi, cap. 8
Ferdinando Gizzi
Esperienze di vita di scuola
(diario di un direttore didattico)
8
S E C O N D A P A R T E
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La preparazione teorica si arricchisce ogni giorno di più e si sposa con la
pratica. Vivo una vita densa di impegni che mi vengono ripagati dalla stima e
dalla favorevole considerazione di tutti.
Le mie sono sperimentazioni che mi danno tanto tormento, ma che, a risultato
ottenuto, si rivelano molto proficui.
Un esperimento di tal genere è dato dall’introduzione nella mia classe di una
nuova tecnica didattica: la digitopittura.
I risultati del mio lavoro sono così evidenti e positivi che sono chiamato ad
illustrarlo ai superiori e colleghi. Ancora una relazione. Non nascondo di
essere tanto soddisfatto. Ecco la mia relazione:
Dice il Marcucci:” lo spirito è un fascio di attività, che hanno un unico
centro espresso dal pronome personale “io”. Come lo spirito, anche il sapere è
unità e vive finché è nello spirito”.
(…) omissis
Lo stesso Hessen chiarisce nella sua opera “Struttura e contenuto della scuola
moderna” questo concetto, quando asserisce che la lingua, il disegno, il lavoro
manuale, non costituiscono materie isolate, ma sono dei mezzi espressivi dello
scolaro e, quindi, elementi o aspetti dell’insegnamento collegato.
Non senza significato, quindi, noi preferiamo parlare (applicando i programmi
che molti continuano chissà perché a chiamare nuovi pur dovendo tra breve
celebrare la loro decennale vitalità) di attività (formative, informative,
espressive, strumentali, manuali e pratiche), più che da materie separatamente
collegate.
Attività cioè come centro della lezione e in cui il maestro appare come
coadiutore e collaboratore alle ricerche ed alle esperienze degli scolari.
Ma (mi direte) noi dobbiamo discutere di cose più modeste, e la mia digressione
che vi può apparire alquanto noiosa, diventa necessaria per i motivi che andrò
ad illustrare.
Oggi ci stiamo occupando, in questo nostro incontro delle attività espressive e
in particolare di quelle grafiche. Dico in particolare perché si sa che
l’espressione, in senso strumentale, può essere grafica, plastica, orale,
canora, mimica.
Il disegno, la pittura, il mosaico, la decorazione, la digitopittura, sono
attività che costituiscono forme di espressione in cui il fanciullo si mostra al
maestro più spontaneamente per “quello che è”, ed in cui è possibile, con
l’armonioso incontro tra docente e discente, realizzare il “dover essere”
dell’alunno.
Quante volte, infatti, l’uso di un colore anziché di un altro, la composizione
di un paesaggio, la monotona ripetizione di una forma, di un movimento, non ci
danno, anche se in maniera non proprio scientificamente sicura, la sensazione di
quelle che sono le esigenze dell’educando, i suoi tormenti, i suoi bisogni !
Quante volte non ci si palesano drammatiche situazioni psicologiche, come
l’insicurezza di un affetto, il bisogno di una mano carezzevole ! Oppure quante
volte quel disegnino estroso non ci indica la necessità di stringere la briglia
ad una fantasia malata, di porre un freno, a tempo e luogo, ad un triste andare
alla deriva ! È Proprio così. E non occorre davvero scomodare Freud e tutti gli
altri psicanalisti, psicologi o alienisti per comprovare quanto quotidianamente
il più superficiale di noi osserva, rileva, studia al fine di trovarvi gli
elementi positivi che possano far fruttificare il proprio magistero.
D’altronde mi sembra che molto chiaramente traspaia questo riconoscimento
dell’importanza pedagogica e didattica di tali attività, da tutti i programmi
che si sono succeduti dal 1923 al 1955.
Consensi, poi, per tutto quello che si è tentato di fare in questo campo, non ci
vengono solo dal Rousseau, ma insieme dal Pestalozzi, dal Fröebel, da Gabrielli,
dal Tolstoi, dal Lombardo Radice. Non a caso, poi, in particolare, gli attuali
programmi affermano esplicitamente la necessità che il fanciullo sia lasciato:
a) libero di esprimersi a modo suo attraverso l’attività grafica e pittorica,
così come effettivamente pensa, sente, fantastica;
b) libero di esprimersi sugli argomenti che più lo interessano o che egli
predilige ad altri per qualche motivo sentimentale, affettivo o altro;
c) libero anche di usare i mezzi grafici, pittorici, plastici a lui più graditi.
La scuola italiana per lungo tempo si è limitata nell’espressione grafica
all’uso della matita e dei pastelli. Se noi esaminiamo il disegno dal punto di
vista psicologico, dobbiamo convenire che si è seguita una strada limitata.
Nessuno può disconoscere, infatti, il primo mezzo grafico e pittorico che il
bambino usa spontaneamente è il suo “ditino” e non la matita. Col ditino fa i
suoi disegni per terra, sulla sabbia, sui vetri appannati della finestra.
Peraltro non bisogna trascurare di sottolineare quelli che sono gli aspetti
puramente ricreativi di tale attività. Bisogna però intendersi sul significato e
sulla ragione d’essere della cosiddetta “ricreazione”. A me sembra che la
scuola, quella degna di questo nome, non possa essere che ricreativa; cioè la
scuola non può essere organizzata in maniera tale che alcune materie siano
impositive ed altre ricreative. In altri termini: tutte le materie, ovverosia
tutte le attività scolastiche, tutto il “fare scuola” devono essere una
ricreazione, cioè una nuova creazione della cultura, del sapere. Infatti solo
quando si realizza questo ri-creare, si apprende con gioia, senza imposizioni
dall’esterno, con atto autonomo e quindi con libertà. Solo in questo senso mi
sembra che debbono essere considerate ricreative le attività espressive
grafiche, al pari cioè di tutte le altre attività.
Tutto ciò premesso, è giunto il momento di illustrare l’esperimento di
digitopittura.
Non conoscevo i prodotto SIDOL che attraverso alcuni annunci su giornali e
riviste scolastiche. I miei scolari, che sono ora di quinta classe, hanno
cominciato sin dalla terza, mediante opportune esercitazioni, ad acquisire una
certa tecnica che, in un certo senso, molto sembrava togliere alla pura
spontaneità.
In quarta classe eseguivano a puntino il disegno a matita (dal vero e a memoria)
e quindi iniziavano la colorazione, influenzandosi a vicenda, e non poco, per
dosare i colori, nel distribuirli secondo determinati (e vorrei dire
predeterminati) rapporto di tonalità e di equilibrio. Parecchi di essi si
rivelarono piccoli autentici capolavori.
Ciò nonostante decisi di tentare altre vie, indirizzando loro verso altri mezzi
espressivi.
Una bella mattina (eravamo verso la metà del primo trimestre) portai a scuola
una scatola di colori-dita.
Non nego che ero molto perplesso ed esitavo ad affidare questi vasetti di creme
colorate ai miei ragazzi. Mi prefiguravo una scena di mani sporche, di baffi
rossi, di sberleffi. Dovetti constatare subito, per la verità, che il mio era un
timore senza ragione, quasi una incomprensibile paura che spesso attanaglia chi
vuole spingersi avanti ed uscire dal vuoto formalismo, per realizzare una scuola
di gioia e d’impegno per il fanciullo. Dunque, portai i colori-dita e,
prudenzialmente li affidai ad un solo ragazzo. Ricordo che gli alunni lavoravano
intorno ad una relazione scritta su di un momento storico da poco studiato.
Ognuno aveva fatto a casa le personali ricerche ed io avevo chiarito loro i
punti oscuri, illustrando determinati aspetti del periodo storico studiato. Si
trattava, in particolare, della resistenza opposta dai fiorentini all’invasore
Carlo VIII. Mentre i ragazzi erano interessati al loro lavoro, chiamai uno di
loro a cimentarsi con i colori-dita per illustrare il personaggio. Lo lasciai
libero di fare.
Per la verità tracciò un disegno prima a matita e poi cercò di colorarlo. Dico
“cercò” perché in effetti non poté rendere quello voleva esprimere. Aveva
disegnato, infatti, su di un foglio di carta di media grandezza un soffitto ad
ampie arcate di un palazzo gentilizio con alla parete di fondo alcune finestre e
sotto, troppo in piccolo, una folla di cortigiani con le figure, in maggior
risalto, di Carlo VIII seduto e di Pier Capponi in piedi e con il braccio teso,
in atteggiamento fiero. Io, che di tanto in tanto sbirciavo il suo disegno, lo
lasciai fare, non tacendomi la difficoltà che avrebbe incontrato nel colorarlo
con le dita, ben più massicce di un pennello.
Continuò, giostrando col mignolo e mentre le finestre riuscirono di grande
effetto, la folla si perse e riuscirono malconci Carlo VIII e Pier Capponi. Si
era rotto il gelo, però! La paura mi era passata e tutti i ragazzi osservarono
interessati il lavoro del compagno.
I colori erano vivacissimi e, ad osservare bene, da lontano si capiva meglio la
scena. Da vicino disturbavano forse di più gli sconfinamenti al di là del
disegno nero della matita, di quel vivido rosso, di quel bianco sporco, di quel
giallo brillante. Non mi riuscì difficile far loro notare che non occorreva
usare prima la matita e che le dita, da sole, avrebbero potuto stabilire
l’ampiezza della figura e il contorno di un oggetto. Continuarono così gli
esercizi, che in un certo senso, piacquero di più ai miei ragazzi. Fu così che,
successivamente, furono realizzate composizioni vivaci, paesaggi multicolori e
di immediata intuizione, figure anche se goffe ed incerte ma di grande realismo
e cariche di evidente drammatica espressività.
Questa tecnica innovativa ancor oggi è da me inquadrata in tutto l’insegnamento,
in aderenza a quell’unità, di cui ho parlato all’inizio della relazione. E’ un
mondo meraviglioso quello che scoprono i ragazzi con la digitopittura.
Correggere i loro lavori?
Ma nemmeno per sogno. Se ci ponessi mano, distruggerei tutto.
Rileggiamo, a tal proposito, un passo del 2° libro dell’Emilio roussoniano, che
mi pare assai significativo e la cui chiarezza, vivacità ed attualità è sempre
valida:
Tutti i bambini si ingegnano a disegnare, ed io vorrei che Emilio si
dedicasse a questa arte ... Mi guarderei bene, però, di dargli un maestro di
disegno. Io voglio che gli sia maestra solo la natura, e modello gli oggetti che
essa presenta. Né voglio che dell’esercizio del disegno sia solo a godere; egli
mi avrà come suo emulo. Ma non gli farò sentire la distanza fra me e lui, e
stimolandone, senza averne l’aria, il progresso, andrò di pari passo con lui. E
avremo colori e pennelli e allumineremo, dipingeremo, pasticceremo insieme.
E’ tutto qui, ieri come oggi e come sempre, il più grande e significativo valore
della scuola: guidare l’alunno affinché egli possa cominciare a risolvere da sé
i problemi della vita e della sua interiorità.
PARTE TERZA
SEMPRE PIÙ IN ALTO
a) Coadiutore di Pedagogia
1966 - Nominato dal provveditore agli studi, oggi prendo possesso della cattedra
di Esercitazioni didattiche nell’Istituto Magistrale di Guglionesi. Sono passato
dal 1° al 3° piano dove ha sede la scuola, ho lasciato i miei alunni di IV
elementare mista per insegnare nelle classi III e IV dell’Istituto Metodologia,
didattica, letteratura informale. Mi rendo subito conto che con i giovani è
necessario tenere un diverso atteggiamento e rapporto.
Primo giorno di scuola, primo impatto con una nuova realtà.
Anche oggi annoto il dramma del primo giorno di scuola. Il programma da svolgere
s'articola in una parte teorica ed una pratica. Per rompere il ghiaccio comincio
subito con una nota pratica, suggeritami da un'alunna, la quale mi chiede come
ci si debba comportare dinanzi a dei bimbi che arrivano per la prima volta a
scuola.
Il primo giorno di scuola è veramente drammatico per tutti: per i figli i quali
iniziano un’esperienza vitale nuova; per i genitori che li aiutano a staccarsi
dalle loro cure premurose e a volte soffocatrici, anche se un po' attenuate
dalle prime amicizie con i coetanei; per i maestri che, consapevoli della grande
responsabilità del loro compito, interrogano in ogni sguardo di bimbo a loro
ancora sconosciuto, l’altro sconosciuto, cioè l’uomo che essi s'apprestano a
formare. Quello che bisogna subito dire è che tutto quello che sto dicendo non
riguarda chi nella missione educativa ha una lunga esperienza. Essi già sanno
cosa sia la scuola dalla cattedra; sanno cosa significhi insegnare e come
insegnare.
Tutto quello che sto dicendo - dico loro - riguarda coloro che maestri come voi
ancora non sono, ma intendono farsi, vorranno farsi. E non per favorire
l’illusione che voi possiate trovare nelle mie parole tutte le risposte, più o
meno prefabbricate, ai numerosi e concreti problemi che l’insegnamento porrà a
voi innanzi giorno per giorno. Anzi tutto quello che penso e dico è per
eliminare dalla vostra mente il presupposto per cui far scuola sia cosa facile.
Essere maestro vuol dire farsi maestro. E maestro si fa soltanto chi chiede alla
sua interiore ispirazione il consiglio, attimo per attimo, su ciò che deve fare
e come lo deve fare.
Non si è maestri soltanto perché si è conseguito un diploma che abilita ad una
delle professioni più difficili, non si è maestri perché si sono superati gli
esami in un concorso.
Maestri si diventa e si è realmente soltanto il giorno in cui si sarà superato
il più difficile esame che impongono i bambini che si incontrano per la prima
volta in un’aula scolastica sovraccarica di aspettazioni e di ansie da parte di
tutti: degli scolari e del maestro.
Il dramma del primo giorno di scuola a questo tende: mettere subito a fuoco la
condizione, anzi le condizioni in cui, lasciati i banchi al Magistrale e
sollevato l’animo dalle preoccupazioni di dover ripetere la lezione al
professore che ascolta, un’altra e ben più grave preoccupazione s’impadronisce
dell’animo del maestro alle prime armi: che fare? come fare?
Ricordo sempre la confessione che mi fece un vecchio amico maestro dopo il primo
contatto con gli scolaretti di una seconda elementare:
Quando appena diciottenne - mi diceva - ottenni la prima supplenza e fui solo
con gli alunni nel chiuso di un’aula scolastica, mi sentii preso dallo sgomento.
Il mio primo pensiero e il mio primo istinto furono di scappare via. Venticinque
alunni mi “squadravano”; cinquanta orecchie erano pronte ad ascoltare le mie
parole. Venticinque sorrisi carichi di malizia e di aspettazione dubbiosa mi
circondavano di un’atmosfera che non era proprio favorevole. E tutto ciò,
naturalmente, accresceva il mio sgomento. Che cosa dovevo dire e, soprattutto,
che cosa dovevo fare? Ripensai a tutti gli anni passati tra i banchi delle
Magistrali, a tutto quanto avevo studiato: al latino, all’italiano, all’algebra,
a tutte le lezioni impartite dalla cattedra. Speravo di ricevere un aiuto da
quello che avevo imparato. Speravo che mi porgessero un gancio al quale
sospendere la mia inesperienza. Quanta pedagogia avevo studiato, o avevo creduto
di studiare! Quanta letteratura! Quanta geometria e quanta algebra! Sapevo
risolvere le equazioni di secondo grado, estrarre le radici quadrate e cubiche;
sapevo anche un po' di inglese e di storia dell’arte.
Non sapevo da dove cominciare. Non sapevo nemmeno che linguaggio adoperare. Ai
miei tempi - chiariva - non c’era il tirocinio e nessun contatto preventivo
avevamo con la scolaresca. Mi sentii disperatamente solo e senza aiuto. Nel
silenzio, che sempre più si caricava di impaccio, d’improvviso mi venne un’idea:
e se domando a questo bambino del primo banco come si chiama, e inizio con loro
un colloquio che cercherò poi di continuare con gli altri? Ma come comincerò il
mio discorso? Volevo dire: dovrò parlare in lingua o servirmi del dialetto?
Mi attenni al dialetto e subito la prima sensazione di disagio disparve.
Ho ancora oggi presente queste parole, nel momento in cui mi
trovo a contatto con giovani che presto saranno maestri e si sederanno su di una
cattedra. Per tale ragione mi propongo, in questo mio nuovo impegnativo lavoro,
più che ad ampliare la cultura pedagogica, ad offrire ai futuri maestri delle
esperienze perché li aiutino a prepararsi al grande momento del “fare scuola” e
non li costringo ad uno studio solo teorico ma essenzialmente pratico, in modo
da centrare i problemi vivi e concreti dell’insegnamento.
Per tale motivo mi propongo di tenermi lontano da ogni indicazione teoretica,
che avrebbe soltanto carattere di un complemento, più o meno utile, allo studio
della pedagogia generale della Storia della pedagogia. Preferisco perciò
l’orientamento pratico, l’esempio, che vale più di un discorso ben fatto, ed è
più utile a promuovere lo spirito del maestro, confortato da quello che scrive
in questi giorni un Maestro della Pedagogia italiana, Luigi Volpicelli, il quale
appunto mette in guardia coloro che, in nome di una preparazione solo teorica,
evitano di proporre proprio i problemi veri e concreti, quelli di cui ragionano
Rousseau nell’Emilio o nel Contratto Sociale, o Locke nei Pensieri
sull’Educazione.
Anche quando il pensiero va al Pathèma di Platone di fronte all’immortalità
dell’anima o alla problematica ansiosa di Pestalozzi o Fröebel ed alle loro
grandi questioni del pensiero pedagogico la mente si rivolge ai problemi vivi
dell’insegnare.
Né tralascio di delineare il problema del metodo, o quello del carattere
dell’educazione come fatto ambientale, come prosecuzione ed approfondimento
della prima educazione familiare, come fatto etnico o folcloristico, e quindi
come fatto essenzialmente naturale di attività spontanea.
Intorno a questi momenti essenziali dell’educare secondo natura, ossia secondo
l’ambiente e il reale sviluppo psichico del fanciullo i miei argomenti si
articolano sui problemi dell’autorità e della libertà, sui fini dell’educazione
e i compiti della scuola. particolare attenzione mi propongo di riservare alla
scuola intasa solo come scuola del leggere, scrivere e far di conto, per mettere
in evidenza il carattere della scuola di oggi, che ha altre mete ed altri
compiti, divenendo sempre più scuola di orientamento e di sviluppo delle
attitudini al lavoro ed alla professione qualificata; scuola di prima
qualificazione delle attività umane che tenga conto dello sviluppo assunto dalla
vita sociale della tecnica al servizio della scienza e dell’economia al servizio
dell’umanità.
Per quanto riguarda le esperienze di tirocinio (da fare sul campo) esse bisogna
che siano orientate dal contatto con i giovani alle migliori e più ispirate
soluzioni delle difficoltà poste all’insegnamento. Né mi propongo di tralasciare
di evidenziare, man mano che se ne presenterà l’occasione, le migliori e più
ispirate soluzioni delle difficoltà poste dall’insegnamento effettivo.
Non senza aver anche solo in forma teorica tratteggiato il problema
dell’avviamento alla scrittura e lettura secondo il metodo globale del Decroly,
quello di insegnare a risolvere i problemi col metodo attivo, uno sguardo va
dato anche al materiale didattico sussidiario proprio del nostro tempo ed al suo
uso pratico: la radio, il film, la televisione e a tutte quelle esperienze che
hanno dato vita alle scuole nuove ed ai metodi di lavoro per gruppo, dei
progetti, dei laboratori, delle cooperative, delle stamperie. Questo, a somme
linee, il programma che mi propongo di svolgere nella mia attività di docente di
un Istituto superiore.
Spero soltanto che esso rispecchi le attese dei giovani affidati da oggi alle
mie cure.
1967 - È passato solo un anno e sento più che mai il desiderio di migliorare la
mia preparazione professionale, la quale spazia per ora per altri campi del
sapere. Mi è di aiuto la vasta biblioteca dell’Istituto, ricca di opere di
grande valore letterario e culturale. La biblioteca è stata affidata a me per
farla funzionare nel modo migliore e arricchirla di nuovi acquisti.
Divento così “topo di biblioteca”, leggo, leggo sempre, anche in quei pochi
ritagli di tempo, nelle ore considerate dei buchi tra un insegnamento in una
classe e l’altra.
1968 - Oggi si è riunito il Collegio dei Professori e sono stato eletto membro
del Consiglio di Presidenza. Con un altro collega, Tonino, bisogna collaborare
col Preside al fine di assicurare un buon andamento della scuola. E’ per me
motivo di orgoglio ed intima soddisfazione. Il Collegio è stato chiamato anche a
discutere il modo in cui, su suggerimento ministeriale, bisogna celebrare il
settimo centenario della nascita di Dante.
Sono stato pregato di tenere una relazione in proposito. Ecco la relazione , che
viene letta nel teatrino della Scuola alla presenza del Corpo docente e di tutti
gli alunni che frequentano l’Istituto.
(…) omissis
C) Visita alle classi
1968 - Il piano di visite alle classi rientra nella parte pratica del programma
e viene attuato proprio “sul campo”.
Oggi ci rechiamo in una classe Prima, dove un maestro s’impegna ad applicare un
suo metodo personale, ed è chiamato ad illustrare agli allievi-maestri il suo
personale approccio all’insegnamento in una prima classe.
Il suo metodo o espediente consiste nella esposizione di tanti quadratini in
legno bianco, sui quali sono scritte le lettere dell’alfabeto nella loro doppia
forma, maiuscola e minuscola.
L’azione comincia con lo scompigliare i quadratini; poi ne prende uno a caso, lo
alza alla vista di tutti e domanda: “Che cosa è questo?”
Tutti insieme rispondono esattamente. Qualcuno, però, sbaglia; allora egli si
ferma a fargli osservare la particolarità della lettera mal conosciuta, aiutando
la memoria con gli esempi, le somiglianze ed altri espedienti mnemonici. Gli
alunni debbono ricordare che la S somiglia al serpente; la B a due gobbe
sovrapposte, e via dicendo.
Poi riprende a far leggere mettendo due quadratini accostati l’uno all’altro
dando corpo alla sillaba e così via.
Ecco la sua novità: insegnare a leggere e scrivere con i legnetti!
Gli allievi-maestri si sono molto interessati a questo espediente didattico. Ma
mi si permetta una parentesi: il metodo usato da questo maestro non è lo stesso
usato da un certo Autore Giulio Bassillo, il faceto autore di ben trenta romanzi
nel lontano 1842?
Non somiglia un po' il suo al metodo globale usato oggi in quasi tutte le prime
classi delle elementari? E allora dove sta la novità?
D) Il Tirocinio è indispensabile?
E’ passato oltre un lustro da quando sono entrato nell’Istituto Magistrale ad
insegnare didattica e metodologia.
Forse tra poco lascerò anche questo incarico per un altro più prestigioso e
remunerativo.
Ho fatto il concorso direttivo ed attendo l’esito delle due prove (una di
cultura generale ed un’altra di Diritto e legislazione scolastica) che spero a
me favorevole. Alcune considerazioni debbo pur fare prima di lasciare
quest’incarico. Il tirocinio è utile?
Nessuno lo nega e tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto un tirocinio nella
vita. La vita è maestra.
Alle allieve-maestre, che in tono accorato , mi hanno sempre chiesto in questi
cinque anni di non sapere da dove cominciare a fare scuola e a svolgere un tema
di didattica (come io pretendo sempre), ho sempre risposto di far ricorso ai
ricordi della loro vita di scuola, e rendere quei ricordi attuali; ai ricordi,
cioè, di quella maestra di prima classe la quale presentava loro le figurine di
...... per insegnare la lettera dell’alfabeto corrispondente; oppure a quella
maestra di terza classe che incominciava il suo insegnamento facendo osservare
le erbe, i fiori, gli animali, il paese.
A tutte ho sempre unito l’esempio di figure di educatrici ed educatori, di cui
sono pieni le pagine di pedagogia.
Come non parlar loro di Ada Negri, la poetessa dell’impeto lirico, la quale ad
appena diciotto anni si metteva in viaggio con sua madre, da Lodi, dove abitava,
per Motta Visconti, chiamata a supplire, in quella località, la maestra di prima
elementare maschile, la quale era improvvisamente partita per l’Argentina?
Ada Negri aveva condotto sino ad allora una vita claustrale, tutta nascosta
nella sua povertà. Abitava con la mamma due stanze al secondo piano di una casa.
Le stanzette erano bianche di calce, lucenti di pulizia e dai balconi si poteva
osservare il vasto giardino recintato tutto verde e silenzioso.
Più che una casa, sembrava un convento. La madre usciva di casa alle cinque del
mattino per recarsi al lavoro nel lontano e buio opificio e rientrava a casa
solo a tarda sera.
La poetessa rimaneva sola in casa, dopo le ore trascorse a scuola. Trascorre
così tutta la sua adolescenza. Come non accennare al primo giorno di scuola
quando, chiamata a Motta Visconti, si avvicinò col cuore stretto e la testa alta
alla sua prima cattedra, e a quei rumorosi ragazzi, laceri, sporchi, disordinati
nel vestire, nel gesto, nella voce, che quasi quasi non si accorsero della sua
entrata nell’aula, accolta da uno schiamazzo generale di ben 109 alunni?
E a tutti i suoi tentativi per intimorirli col rigore, per attrarli a sé con la
dolcezza, per destare la loro attenzione e simpatia, alla prima note insonne
dopo il primo impatto con quella realtà così tumultuosa, cruda e diversa dal
silenzio del suo angolo di casa sua?
E come non parlare loro della sua intima soddisfazione nel vedere, solo dopo una
settimana, i visi freschi dei suoi scolari, che, al suo ingresso nell’aula, le
sorridevano, come per infonderle coraggio?
E della sua dedizione allo studio dell’ambiente in cui quei poveri ragazzi
vivevano, immersi nella miseria e nell’abbandono?
Come non descrivere loro il luogo dove questa educatrice, autrice di “Fatalità”:
due gradini di mattoni rotti e un uscio screpolato che apre la scuola, la quale
si raggiunge attraversando un vasto cortile fangoso, su cui s’aprivano le stalle
e dove guazzavano le oche?
Ecco un esempio da imitare: un’educatrice fisicamente esile, una coraggiosa,
altera della sua virtù e del suo ingegno e che, pur tra tante difficoltà e
delusioni, ha saputo trovare la sua strada e il suoi metodo di maestra del
popolo nella conquista pacifica dei cento e più suoi allievi.
Nel lasciare questi giovani che ho preso per mano in questi sei anni di
permanenza nell’Istituto Magistrale, guidandoli verso l’approccio verso la
scuola viva, ripeto col Poeta: “Messo t’ho innanzi. Or per te ti ciba.”
Occasione dei festeggiamenti del I° centenario dell'Unità d'Italia [Archivio
famiglia Gizzi].
I tre giorni del sud 14-10-1961 [Archivio famiglia Gizzi].
1960 - La tecnica entra nella scuola [Archivio famiglia Gizzi].
Scolaresca guglionesi [Archivio famiglia Gizzi].
Scolaresca guglionesi [Archivio famiglia Gizzi].
[Continua con prossima pubblicazione su Fuoriportaweb]