12/11/2008 ● Cultura
"Esperienze di vita di scuola", Ferdinando Gizzi, cap. 7
Ferdinando Gizzi
Esperienze di vita di scuola
(diario di un direttore didattico)
7
[...] Qui non trovo spazio per sognare, ma solo occhio rivolto alla realtà:
sento forte il desiderio di lavorare e studiare e, se è possibile, faccio di
tutto per dimenticare o almeno lenire il dolore che mi procura il ricordo dei
sacrifici fatti nel periodo della guerra, che qui è passata col suo rullo
compressore a produrre distruzioni e morte. Non voglio più pensare a quel brutto
periodo della mia vita, alle privazioni, alle paure, alla scalata di monte
Morrone alla ricerca di un sicuro rifugio per sfuggire alle retate dei Tedeschi
che cercavano uomini validi per deportarli in Germania; non voglio più pensare
agli Alleati e alle loro truppe di occupazione, al rumore assordante dei cannoni
e dei carri armati, agli Americani, agli Inglesi, ai Neozelandesi, ai
Marocchini, vero flagello delle immediate zone del Garigliano; ai gloriosi fanti
e bersaglieri italiani impegnati nell’attacco delle tre vette di Montelungo.
Guardo, invece, la realtà che mi circonda e trovo sollievo e conforto nel
mistero della natura che si rinnova. E’ primavera, e primavera da queste parti è
incontro. Si ha modo di notare le gemme spuntare, crescere, infittirsi, farsi
rami e foglie talmente spesse da non lasciare vedere la stradina che porta ad
altri campi. Non bisogna andare oltre. Basta dare un’occhiata al vicinissimo
“pastiniello” di don Eduardo, dove mi fermo ad osservare, intervallando la
visione dello stupendo scenario, con le mie letture preferite. Ho modo anche di
fare serie riflessioni, ma che presto svaniscono per fare posto al dolce fascino
della natura. Particolarmente cara mi è la fitta vegetazione di zia Rachele, che
quasi nasconde la casa dove abito. Osservo gli alberi nel loro crescere,
intrecciarsi, coprirsi e, nell’autunno, spogliarsi delle loro foglie. Odo il
loro cupo lamento quando il vento li tormenta e li piega. D’estate una quercia
posta proprio a confine con l’altro muro di cinta mi offre una fresca ombra. E’
con lo sguardo rivolto a questa quercia che, nella stagione calda, mi applico a
studiare, inerpicandomi su uno scosceso sentiero non lontano dal vigneto
adiacente.
Abito a qualche centinaio di metri dalla scuola. Percorro il tragitto di andata
e ritorno a piedi. Quando è domenica mi reco nella vicina Cassino ad assistere a
qualche bel film nell’unico cinema “Arcobaleno”, e come sempre (sono fatto così)
mi immedesimo nei personaggi e partecipo alle loro storie. Quando la trama è
tragica, il mio stato d’animo si identifica a tal punto con gli attori fino al
punto di farmene un vero tormento. Quando, invece, la storia del film è a sfondo
sentimentale, penso all’amore e al giorno in cui anche per me esso dovrà
arrivare. Allora mi chiedo: “come nasce, come dura, come finisce questo
sentimento che è considerato soggetto e motivo di vita e di morte, di vittorie e
di sconfitte? Come contano i sentimenti, il cuore, i pensieri, la vita! Sarà
anche per me così?”
Nelle serate calde cammino fra stradine solitarie o lungo il viale della
stazione dove giganteggiano i platani che, riunendo i loro alti rami alla
sommità creano una caratteristica galleria di verde frescura. Oppure con Mario,
Nello, Totonno, Raffaele, Adelfo, Domenico, Pasquale, Aurelio, mi ritrovo al bar
che fu dell’ “Impero”” dove Giulio ci fornisce le carte da gioco per il nostro
tradizionale consueto “scopone scientifico”.
Un fischio e uno stridio di freni alle prime luci dell’alba di un giorno di fine
aprile mi fanno sobbalzare dallo scomodo sedile di legno dell’ “accelerato” che
mi riporta a casa, al termine del più lungo soggiorno a Roma. Ho ottenuto dal
compiacente direttore il permesso di assentarmi per 5 giorni onde seguire più da
vicino le lezioni universitarie. Tutti i professori tengono molto alla frequenza
in particolar modo il professor Tescari (Latino), il prof. Silva (Storia) e non
ultimo il prof. Lombardi (Pedagogia). Mi affaccio al finestrino ed alla debole
luce dell’alba, che annuncia già dietro le montagne l’arrivo del sole, vedo il
lungo convoglio fermo al disco rosso, che segnala la prossima fermata a Mignano.
Immerso nei miei pensieri e stropicciandomi gli occhi socchiusi, vedo la
campagna ancora sonnecchiante e appena luccicante sotto una leggera patina di
rugiada. Se fossi un artista, potrei imprimere su di una policroma tela i
lineamenti inconfondibili della terra che mi accoglie e che tanto amo. Ma
pittore non sono. Mi accontento di ammirare quel paesaggio quasi fiabesco, dove
la natura mostra tutta la sua bellezza, dove la gente vive orgogliosa della sua
storia passata e recente. Ma anche gente che vive immersa nel tormento di una
vita grama e piatta. Nel pallido chiarore rossastro dell’incipiente alba mi
appaiono monti tappezzati di verde, dalla sagoma ondulata, dal profilo
serpeggiante con gobbe ripetute di cime tonde e da morbide curve, con declivi
che degradano verso le ampie vallate, dove il Rivo ed il Peccia scorrono per poi
abbracciarsi. E su tutto, un silenzio. Un silenzio che non significa morte ma
vita, come colui che dorme vegliando. E’ un aspetto insolito per me, in quanto
sono solito rimirare questo paesaggio quando il sole è alto sull’orizzonte e
dardeggia. Un aspetto scenico, plastico e spirituale, che è anche sintesi del
carattere schietto e laborioso della gente.
Mentre le montagne sulla destra e sulla sinistra forniscono abbondanti motivi
lirici, scenici e decorativi per la morbidezza delle linee, per la varietà dei
colori, per la magia delle ombre e delle sfumature, sulla sinistra, invece, le
tre rocce di Montelungo col cimitero di guerra e la Madonnina in cima, quasi
schematiche, stereometriche, a tinte piatte ed uniformi di un rosso bruciato,
più idonee ad essere scolpite che dipinte.
I monti, nella loro pace serafica, mi appaiono dotati di voce umana, che
trascende la terra e la vita, in un oblio profondo che coincide con la voce
dell’infinito, oltre il tempo e lo spazio. Le rocce, invece, mi appaiono come
sentinelle sempre a guardia della lunga vallata.
I monti, l’espressione titanica e dinamica della potenza dell’uomo, con i suoi
confini, i suoi tormenti, i suoi travagli; le rocce la penosa e perenne
immobilità come sintesi di pensiero e azione, di forza e ardimento.
La mia permanenza per cinque giorni a Roma è certamente una delle più
interessanti e fruttuose esperienze dal punto di vista dello studio e
dell’arricchimento culturale. Intanto ho conosciuto che cosa sia un vero teatro.
Su consiglio di Totonno e Alfredo, due amici mignanesi che studiano alla facoltà
di medicina, ho avuto la fortuna di assistere in terza giornata di replica ad un
capolavoro interpretato da Eduardo e Tina De Filippo dal titolo “Filumena
Marturano” ed ho conosciuto il notissimo critico d’arte Silvio D’Amico. Ma
quello che più mi rende felice è l’incontro avuto col professore di Pedagogia,
il quale non ha risparmiato di rivolgermi le più difficili domande per misurare
la mia preparazione.
Ho discusso con lui gli argomenti del suo studio monografico raccolto in
dispense dal titolo “Il concetto della libertà negli ultimi cento anni”. Credo
di avergli saputo esprimere nel migliore dei modi le sue tesi, che portano alla
conclusione del vero concetto della libertà, intesa non già come la intendeva
Rousseau, cioè alle origini dell’umanità, ma come un ideale termine che si cala
e si glorifica nella storia della società civile ed umana redenta.
Ho concordato con lui sul concetto pratico di libertà, che è tutto ciò che noi
stessi siamo e facciamo e che nel camminare ci padroneggiamo, perché il cammino
è “un continuo cadere”, come lui stesso avverte. Ho evitato, però, di far cadere
il discorso sulla sua nota sul “materialismo storico” e su quello metafisico;
sulle dottrine storico - sociologiche di Marx e di Engels, sulla dialettica
delle classi. Con un filosofo impegnato come lui è facile condividere tesi sul
concetto di libertà “pesante”, che ingloba il peso delle nostre miserie, degli
affanni, della stanchezza, delle malattie, della vecchiaia, della fame, della
paura, dell’altrui violenza e minaccia fisica e, di più, della coartazione
morale. Fuori da questo contesto la libertà è un concetto astratto.
Torno soddisfatto da questa prova.
Sta per concludersi qui a Mignano la mia parentesi giovanile ed anche la mia
ventennale permanenza.
Fra pochi mesi mi ricongiungerò a mia moglie ed a mia figlia da poco nata e
rientrerò al mio paese natio, a Guglionesi.
Rimangono pochi giorni ed io conto le giornate lunghe che seguono alle giornate
lunghe; bramo il giorno, e del giorno non passano mai le ore. Guardo le pareti e
il soffitto e i mobili della mia camera da letto e nella penombra un buchino nel
muro, il gioco della luce che penetra dalle fessure di una finestra che ha tanto
bisogno di essere riparata, perché conserva ancora i segni delle schegge dei
proiettili dell’infuriare della guerra. Ancora tracce di ricordi? Lunghe
giornate in cui i pensieri si affollano alla mente.
Quanti anni di scuola: prima alunno, poi maestro.
Quanto cammino!
Posso ritenermi felice?
Il pensiero della terra natia (con il suo richiamo e la voce dei miei cari)
riemerge in ogni momento.
RITORNO AL COLLE
GUGLIONESI
1952. Osservo il Biferno con la stupenda vallata e le sue non più chiare acque;
i versanti del Colle ancora coperti di vigneti ed uliveti, i campi verdeggianti,
i dossi degradanti, i peschi ed i ciliegi in fiore, le macchine che aiutano
l’uomo a lavorare la terra. Odo il canto delle donne che non sono più a zappare
la terra; il garrire delle prime rondini che volteggiano nell’aria incontro al
vecchio nido. Vedo da lontano e da vicino una miriade di strisce d’asfalto,
segno di nuove vie di comunicazione, e più lontano, dal Portello, il lago di
Guardialfiera, gioiello di ingegneria architettonica. Vedo da Castellara il mare
azzurro dell’Adriatico e le Tremiti, le vette della Maiella e del Gran Sasso
ancora innevate.
Vedo vecchi vicoli e il grattacielo che, maestoso, svetta sui tetti bassi delle
case del borgo antico e nuovo; vedo gli alberi, il laghetto, le radure, le
aiuole di Castellara.
Ma dove sono gli amici di un tempo? Il mio è un ritorno che mi procura un atroce
tormento interiore.
Ho lasciato Mignano, ma a Mignano spesso penso e ritorno col pensiero e con il
ricordo.
Nostalgia. Solo nostalgia?
Torno nel mastodontico edificio che mi vide scolaro attento ed interessato allo
studio. Rivedo il mio vecchio maestro di quarta e quinta e provo un certo
imbarazzo. Come lo chiamerò? Collega? Ma no, non è possibile, anche se ci
troviamo fianco a fianco nell’opera d’insegnamento alle nuove generazioni. Gli
anni sono passati, ma la sua conformazione fisica è rimasta la stessa di allora.
E la mia stima per lui non è venuta mai meno. L’ambiente scolastico è tra i
migliori della provincia: il corpo docente è tra i più qualificati e impegnati
nelle nuove metodologie didattiche. Il metodo globale, il lavoro libero a
gruppi, quello individualizzato sono dei punti qualificanti di tutta l’azione di
adeguamento del processo di maturazione degli alunni all’azione di un proficuo
insegnamento. Ci sono riunioni in cui si discutono i vari problemi. Mi sento a
mio agio in tale fervore di riflessione e di studio. Per quanto riguarda
l’insegnamento della lingua, sono chiamato a discutere e presento una relazione,
che riscuote l’unanimità dei consensi, in particolare dei miei Superiori,
direttore ed Ispettore, oltre che dei colleghi. Ecco il testo della relazione
che presentai e che ha come argomento “L’avviamento al comporre nel 1° ciclo.
Riflessioni e suggerimenti tratti dall’esperienza”:
In genere s’intende per comporre quel determinato esercizio di lingua, ad
esempio pensierini, composizione, ecc., con cui il fanciullo manifesta il
proprio pensiero. Ritengo ciò errato, per lo meno non esatto. Ogni qualvolta
l’alunno spiega a se stesso un’ osservazione, un fatto, una constatazione, ossia
definisce chiaramente ogni contatto con il mondo esterno, in quel momento egli
compone. L’attimo della composizione è dunque acquisizione di una nuova
conoscenza, che lo spirito determina in forma reale col pensiero, scaturito non
da un’astrazione, ma da un fatto concreto di vita, cui lo spirito partecipa con
piena consapevolezza.
(omissis …)
Tuffarsi nel clima di profonde, sentite innovazioni,, è per me motivo di immensa
soddisfazione. E’ un clima che mi aiuta a coltivare gli studi intrapresi, anche
se Roma è ormai lontana nel pensiero e nella realtà. Immerso nella mia attività
docente e nei miei numerosi impegni familiari, trovo il tempo di dedicarmi ad
osservare la natura che mi circonda e che mi è stata amica negli anni della mia
fanciullezza. Ma non tralascio nessuna occasione per arricchire il mio
patrimonio di conoscenze, favorito dalla lettura di numerosi classici di
pedagogia e dalle riflessioni sulle diverse esperienze pedagogiche. Mi sono
accanto Pasquale e Vincenzo, impegnati anch’essi e collocati sulla mia stessa
lunghezza d’onda.
Con loro parlo spesso di problemi di scuola, con loro discuto, con loro formulo
progetti per un avvenire migliore. Chissà se un giorno non saremo premiati;
chissà se arriverà anche per noi il momento di realizzare i nostri sogni, che
sono sogni di chi vuole emergere, salire più in alto, far carriera nella scuola.
Carriera: ecco la meta verso la quale sono convogliati tutti i miei sforzi.
[...]
Da sinistra: l'autore Dir. Ferdinando Gizzi, l'ispettore Di
Biase (nascosto dai fogli), sconosciuto,
direttore Vincenzo Rocchia [Archivio famiglia Gizzi].
Da sinistra: l'insegnante Mimi' Del Torto, il direttore Ugo
Della Porta, l'ispettore scolastico Pasquale Di Biase,
l'autore dir. Ferdinando Gizzi, l'insegnante Francesco Del Torto [Archivio
famiglia Gizzi].
Scolaresca di Guglionesi, anni Sessanta [Archivio famiglia Gizzi]
Edificio scolastico di Guglionesi [Archivio famiglia Gizzi].
Il sacrario di Mignano Montelungo [Archivio famiglia Gizzi]
[Continua con prossima pubblicazione su Fuoriportaweb]