19/4/2021 ● Cultura
Gente frentana
“Em saput chi ’cs u pork li saput bon plà,daj nu’con ca l’ema assaggià
daj nu’con ca l’ema prvà”
Nel buio di quel freddo mattino di gennaio, la nostra Fiat 850 tossiva da
fumatore incallito.
Le sue bocchette mandavano aria calda al puzzo di benzina, mentre alle nostre
spalle, l’antica Collenisyus figlia della ancor più antica Usconium si faceva
sempre più lontana.
L’Alfa senza filtro tra le dita di mio padre, veniva aspirata avidamente dal
deflettore e mia madre, era scomparsa dentro il suo paltò.
Io e i miei due fratelli, strappati al miglior sonno, sdraiati dietro sull’uno
sopra l’altro sul sedile in fredda similpelle.
Fuori dai finestrini appannati, la campagna ingioiellata di brina brillava
mentre la Madre Maiella era totalmente bianca della sua neve.
Poco più in là, verso destra, le cime del Gran Sasso d'Italia.
Dopo mezz’ora, arrivammo alla masseria dello zio Cesario, fratello di mamma, per
tutti zi’ Gesarij, nel territorio della antica Petazio.
Ancora prima di arrivare, lo scorgemmo intento a portare con la carriola, le
balle sotto la gigantesca quercia. Così mamma raccontò per l’ennesima volta, la
lotta tra quella pianta e lo zio che avrebbe voluto tagliarla.
Al primo tentativo, la motosega nuova di negozio, non volle mettersi in moto.
E non lo fece neanche quando zio andò in paese e prelevò di forza il meccanico
il quale decretò la morte dell’attrezzo.
Lo zio non ci dormì e la mattina seguente, su tutte le furie, andò in garage.
L’intento era di riportare l’utensile al negozio dove l’aveva comprato ma,
all’apertura, fu assalito dal fumo della motosega che trovò in moto.
Desistette, ma qualche anno, rispolverò il proposito dell’abbattimento.
La sera precedente ne parlò con sua madre e lei cercò di dissuaderlo definendo
“un peccato davanti a Dio” quello che aveva in mente ai danni di quell’albero
antico e in pieno vigore.
Zio non si fece convincere ma la mattina seguente, mentre attaccava il mulo al
traìno, gli arrivò la triste notizie della morte improvvisa dell’anziana donna.
Passò altro tempo e dopo le passate esperienze, decise che era meglio lasciare
ad altri il lavoro.
Così vendette la quercia a un boscaiolo che valutò un ricavo di circa dieci
canne di legna.
Arrivarono di buon mattino al casolare e dopo i convenevoli, si misero al
lavoro.
Zio si mise a distanza di sicurezza ma prima ancora la catena scalfisse il
tronco, un dolore lancinante lo prese alla schiena.
Urlò di dolore in modo disumano, cadde a terra contorcendosi nella polvere.
Il boscaiolo dovette portarlo in ospedale e spaventato dalla nomea che aveva
ormai il gigante vegetale, non reclamò neppure la restituzione del pagato.
Zio rimase in ospedale più di un mese e quando ormai i medici si preparavano a
operare, il calcolo uscì spontaneamente. La pietra, come monito, la conservava
sulla mensola del camino.
La pianta da allora è un’amica benevola a guardia della roba, della famiglia e
della sua salute.
La nostra macchina fu circondata dai cani latranti e zia Santina, moglie di zi’
Gesarij, ci venne incontro con il termos del caffè.
Nonostante le occhiatacce di mia madre, ne bevemmo anche noi ragazzi. Poi
abbracciamo gli zii scambiandoci gli auguri per il Natale che era appena
passato.
Si avvicinarono quindi, anche altri parenti zii e cugini sospendendo le varie
attività in cui erano già impegnati. Zi’ Gesarij lasciò la carriola ed entrò nel
casolare.
Ne uscì con un “trùfl” di vino nuovo sotto il braccio. Zia Santina si aggiunse
con un vassoio di bruschette calde e salsicce, caciocavallo e primo sale. Mia
madre ci guardò torva e poi si arrese-Solo perché oggi è oggi se no…!- e
accompagnò la frase con il gesto come a dare una sberla.
Consumammo quella inusuale e sostanziosa colazione per la giornata faticosa da
affrontare in cui avremmo riproposto l’antica tradizione del maiale.
Zi’ Gesarij allevava animali da cortile e tre o quattro maiali ogni anno.
Amava ripetere a noi ragazzi – Imparate e mettete da parte! Ricordatevi che
quando tutto manca la terra non tradisce mai! -.
Lo zio era un tipo allegro e festaiolo. Amava la compagnia e per questa
occasione, invitava tutto il parentado.
Era bello scoprirsi parte di una grande famiglia. Alcuni dei componenti
tornavano da città lontane o anche da altre nazioni.
Ormai il sole era uscito dal mare e risplendeva nel cielo terso e gelido.
Altri parenti si erano uniti nel frattempo e la campagna adesso era piena di
voci, abbracci e bambini che giocavano in quel campo giochi anarchico, dove
sporcarsi era la regola.
Dal retro della masseria giungeva l'odore delle anguille sui carboni mentre Leo,
unico figlio maschio di zio, seguiva mi padre come un’ombra perché voleva
imparare da lui.
Uno dei primi ad arrivare, era stato zio Fedele,”Zi’ Fdel” marito di zia Lucia,
una delle sei sorelle di mamma insieme a suo figlio Natale, Lillino per tutti.
Zi’ Fdel si era dato il compito in perpetuo di bollire l’acqua in quantità
sufficiente per la pelatura e per le altre necessità. Con estrema perizia teneva
allegro il fuoco bruciando i rami d'olivo delle potature. Lillino, suo figlio,
era un uomo dal fisico possente a differenza di suo padre che era quasi
scheletrico con gambe lunghe e sottili.
Era il nostro cugino più grande, sposato e già con una bimba, a lui il compito
di bloccare la zampa anteriore, la più pericolosa, all’atto dello scannaggio.
Gli stivali in gomma erano irrigiditi dal freddo e per infilarli dovemmo
scaldarli al fuoco di zi’ Fdel.
Così quest’ultimo si trovò ad avere compagnia intorno al fuoco e quale migliore
occasione per raccontarci ancora una volta dei patimenti sofferti in Africa, in
tempo di guerra.
Lui era stato fatto prigioniero dagli inglesi in Cirenaica, nella battaglia di
Bardia e poi internato in Sud Africa.
Sapeva appena scrivere ma in prigionia, aveva tenuto un quaderno a mò di diario.
La copertina riportava:
“Sud Africa-Ricordo della mia prigionia di guerra. Età più bella, giorni più
tristi.”
Aveva candidamente riportato su carta, lo stato d’animo di un giovane molisano,
cresciuto a pane e moschetto, desideroso di servire con onore e impegno la
patria ma che, al tempo stesso, non avrebbe mai voluto lasciare i suoi cari e la
sua terra.
Una bella pagina era dedicata a una struggente “preghiera del prigioniero”
che recitava ogni sera prima di dormire.
“Signore Iddio, che mia madre mi insegnò a chiamare con il dolce nome di
Padre perché mi sei veramente tale, mi hai creato, mi hai conservato nella vita
fra tanti pericoli, dall’alto dei cieli ascolta pietoso la mia preghiera.
Sono un povero tuo figlio, lontano dalla patria e dalla mia casa per aver
compiuto il mio dovere di soldato, soffro ora questa prigionia e questa forzata
lontananza dalle persone che mi hai dato a conforto e sostegno della mia vita...”
Nelle ultime pagine del piccolo quaderno con la copertina nera, un lungo elenco
di parole in colonna. A sinistra in italiano e a destra in inglese. Così, che
“pronto” corrispondeva a “ridi” e “duro” ad “ard”.
C’era anche una pagina per le parole offensive con riportato testualmente
“vaffacoff” e “sanana bic”. Vaffanculo e figlio di puttana!
La libertà arrivò dopo nove anni e si sposò, quindi, con la sorella maggiore di
mia madre.
Zi’ Fdel era un uomo simpatico che sapeva stare agli scherzi, educato e
rispettoso di tutti con il costante timore di poter offendere qualcuno. “Scusa,
scusa, non volevo offendere…”
Era esilarante poi quando, per rafforzare una sua asserzione, si dava un
schiaffo con la sua manona ossuta, sul ginocchio esclamando “Madonn!”.
Zi’ Fdel si sfregò le mani alla fiamma e prese a intrecciare una “zok” da
imballaggio.
-Zì Fdel si stà preparann ! ( zio Fedele si sta preparando!)- disse zi’
Gesarij ridendo forte per farsi sentire da tutti e la cosa suscitò l’ilarità
nell’aia. -Oj Fdè, k tdà npenn!- (Fedele, che devi impiccarti?) disse
come sfottò sua moglie rifacendo ridere tutti quanti.
-Va bè, ridete ridete…se scappa…po…po..po… v voj vedè... madonn!-.
Poi “l’acqu vooll!” (l’acqua bolle) urlò, “jamme ja!” risposero in coro
gli uomini.
Mio padre aspirò dal mozzicone tenuto ormai tra le unghie e arrotolò le maniche
della camicia fin sotto alle ascelle, mentre mamma gli allacciò un grembiule
fiorato palesemente piccolo.
Prese dunque la piccola cassetta di legno dove conservava i coltelli per
l'occasione e la posizionò sotto la quercia.
Erano coltelli di Frosolone, la sannita Fresilia, paese di forgiatori
disseminati ormai in tutto il mondo.
Nel sangue dei suoi abitanti non scorre il sangue ma metallo fuso di generazione
in generazione.
Il primo coltello con lama lunga e stretta, “u scannatur” lo
scannaturo e il secondo della stessa lunghezza ma panciuto e poco
tagliente,” u plator ” il pelatore.
Tornò quindi alla porta della stalla e prima di entrare, si girò verso tutti noi
per assicurarsi che ognuno fosse al proprio posto. Ci fece segno con la mano di
tenere sgombro il percorso che avrebbe dovuto percorrere il maiale. Prese poi
una “zok” corta ed entrò.
Ora era calato un silenzio surreale, si udiva solo il crepitare del fuoco e la
voce di mio padre dentro la stalla, che con fare calmo chiedeva ai maiali di
cedergli il passo per raggiungere il prescelto.
Un veloce scalpitare d'unghie sul pavimento di cemento e qualche breve grugnito
ci dava conferma dei movimenti in quello spazio angusto e pericoloso.
Improvvisamente “Hiiiiii ”, un grugnito lancinante dell’animale squarciò
l’aria e fece sobbalzare anche i nostri cuori.
Divenne un coro quando si unirono anche gli altri suini.
Il malcapitato trascinato inesorabilmente, uscì strisciando sul sedere.
Papà gli aveva stretto la zok oltre i denti, in modo che più si ritraeva più il
cappio stringeva.
Uomo e animale presero a percorrere la strada verso l'ara sacrificale.
Gli altri attori si accodarono vocianti, spingendo e guidando il maiale da
dietro.
Arrivato a destinazione il corteo si fermò e la tensione sembrò allentarsi.
Anche il maiale smise di urlare e si calmò illudendosi che fosse tutto finito.
Zi’ Fdel, attuò la sua tecnica personale, passò la sua (zok) fune intorno alla
zampa posteriore e si nascose dietro la quercia.
Noi ribaltatori ci allineammo al fianco del maiale ora tra noi e le balle e “Oooh!!!”
al comando di papà l’animale venne sollevato all'unisono, sdraiato sulla paglia
e bloccato con tutti noi addosso.
Io tenevo il piede posteriore sinistro, zi’ Fdel quello destro, ma la sua
tecnica lasciava a desiderare.
Gli strattoni allentavano la corda e la zampa mi sfiorava continuamente la
faccia.
Tenni la testa di lato, rimanendo però con i muscoli tesi a contrastare le
reazioni dell'animale.
Con il maiale così bloccato era tutto pronto ma, come da usanza antica, il
bambino più piccolo presente, doveva tenerlo per la coda. Quell’anno toccò a mio
fratello.
Papà immerse rapido la lunga lama nella fossa sternale e nel retrarla, il sangue
esplose fumante a inondargli mano, braccio e parte del viso.
La reazione dell’animale fu energica ma non ebbe scampo, i più forti eravamo
noi.
Appena si affievolì la resistenza del maiale, le donne timorose e chine
raccolsero in una bacinella, il sangue che usciva a fiotti regolari e lo
giravano con un mestolo perché non coagulasse.
Quel sangue sarebbe diventata la nostra “nutella” ante litteram, sangue, cacao
in polvere e bucce d’arancia. Uno ultimo debole sussulto poi un lungo fremito e
l’animale si arrese.
-Ha scacchiet l’ogn-(ha allargato le unghie), segno che è morto.
Zi’ Fdel riempì una pignatta d’acqua bollente e la versò nell’orecchio
dell’animale. Nulla, nessuna reazione.
-E’ iuto! Iamme a pelà! – (È andato forza a pelare!). Su di una scala a
pioli portammo il maiale al casolare.
Zi’ Fdel si occupò dei piedi e staccò le unghie con le tenaglie.
Lillino ripulì il muso dalle setole più ispide con il coltello e poi, premendo
con forza con un sacco di malvone, spellò le orecchie.
Noi altri ci alternammo a pelare il corpo, prima da un lato e poi dall’altro.
Papà incise per estrarre i tendini delle zampe posteriori e ci infilò il “Gamjer”,
una sorta di gruccia fatto con duro legno di quercia, attrezzo prezioso che
passa da una generazione all'altra.
Appesero quindi l'animale a testa in giù e con le zampe posteriori allargate.
Qualcuno portò una brocca di acqua tiepida che papà usò per lavare tutta la
carcassa e l'asciugò usando il dorso del coltello come uno strigile.
Si pose poi di fronte al ventre e cominciò a tagliare seguendo la linea ideale
di mezzeria. Recise la parte pubica e la buttò ai cani che si contesero il dono
Venne estratta la vescica per la ventricina e gonfiata prima di essere appesa ad
asciugare su un ramo. Lo stomaco venne svuotata del suo contenuto e poi spellata
con acqua calda da zi’ Gesarij e da sua moglie.
Mi padre intanto stava recuperando le budella dell'intestino tenue. Io lo aiutai
raccogliendole sul mio braccio man mano che le staccava dal pencio.
Feci attenzione a fare le spire della stessa misura, quelle sarebbero diventate
“pieghe” di salsiccia.
Portai il grosso gomitolo da mamma che lo tagliò in un sol colpo in basso
svuotandolo del contenuto. Insieme con le zie, poi le lavò rigirandole e
raschiandole con i cucchiai.
Alla fine, le misero in una ciotola con acqua e bucce di limone.
Papà intanto, con Leo a fargli da assistente, aveva diviso il maiale a metà
lasciandolo unito solo attraverso la punta del grifo.
Staccò la sugna dalla pancetta e distanziò le due metà interponendo una canna a
contrasto perché si asciugasse.
Cuore, lingua, polmoni e fegato avvolti nella pleura furono appesi vicino alla
vescica. La milza e la cistifellea vennero dati ai cani.
Le donne tagliarono dalla gola del maiale, le parti più insanguinate e mio zio
ci aggiunse la carne che recuperata dalla testa.
Questa era la materia prima per il soffritto che venne messo a cuocere in grossi
tegami di ferro insieme a una grande quantità d'aglio rosso lasciato vestito.
Estratto il cervello, venne fritto nell'uovo e dato da mangiare ai bambini
perché molto nutriente.
Zia Santina con il suo vassoio passava da una persona all’altra con salumi e
formaggi e, visto che tutti avevano le mani sporche, le imboccava lei.
Raccoglieva così i complimenti di tutti soprattutto per la sua famosa “ventricina”.
L'insaccato piccante tipico abruzzese, che a lei riusciva particolarmente bene
essendo originaria di Castilenti.
Da lì a poco l'inebriante odore del soffritto si profuse per tutta la campagna,
così che vicini e passanti si affrettarono ad avvicinarsi a salutare la
compagine festante.
“Santo Martino!” e tutti insieme “Bon mnut!” (Ben venuto!).
Gli zii fecero gli onori di casa con le presentazioni tra i convenuti legati
amicizie, da parentele lontane o sangiovanni (compari e commare).
Vino e carne da assaggiare, pena offesa grave al padrone di casa.
Gli uomini seduti davanti al maiale ancora appeso, fumavano o bevevano
disquisendo sulla percentuale tra parte grassa e parte magra.
-Sol quatt dat d grass sopi spall! (solo quattro dita di grasso sulle
spalle)- disse mio padre. – È sciut bon pe nu porc d du quintal! (E’
buono considerando che il maiale pesava due quintali) - ribatté zi’ Gesarij
soddisfatto.
Zi’ Fdel batté con anticipo sulla gamba e poi- “Na vot chiù grass gher e miy
ieva. Mò ku stu caz d polistirol…!”. (Una volta più grasso era e meglio era.
Adesso con questo polistirolo…)
La grande tavolata venne allestita, usando tavoli e sedie di ogni sorta.
I bambini facevano un gran baccano, inseguendo cani e gatti. Le faraone urlavano
stridule mentre oche e polli svolazzavano brevemente ad ogni tentativo di
cattura.
A pranzo ormai in corso, arrivarono anche le due sorelle adolescenti di Leo,
vestite con il vestito della domenica. Un bambino correndo le schizzò di fango
e… apriti cielo! Alle loro strilla di disperazione simili a quelle delle faraone
ridemmo a crepapelle.
Zi’ Gesarij le riportò in paese e tornò poco dopo con un carico di panettoni,
bottiglie di spumante e, “u markscianill” (L’organetto a due botti).
Quest'ultimo era stato di mio nonno che portava le serenate e gli auguri a
Capodanno, Sant’Antonio Abate e a San Sebastiano.
Lo zio suonava ad orecchio, ma poco male, ballammo fino a notte fonda.
I miei si congedarono mentre noi già dormivamo sul sedile posteriore e la 850
riprese la strada di casa.
Siamo rimasti in pochi a continuare la tradizione del maiale che, oltre ad
assicurare un anno di abbondanza in dispensa, rinserra i legami tra le comunità
e scandisce in qualche modo, anche il tempo che ci è dato da vivere.
Tanti però sono i molisani che anche vivendo e lavorando lontano, tornano per
l’occasione e si salutano poi, dandosi appuntamento in modo scaramantico
all’anno successivo.
Il Molise esiste, nonostante le battute gratuite di qualche ignorante e
custodisce gelosamente i suoi costumi, le tradizioni e il senso dell’onore.
Tra i nostri monti e le nostre valli riecheggia ancora il grido di guerra dei “Viteliù”,
il termine osco che in latino si traduce “Italia”.
La nostra nazione deve molto a questa stirpe di pastori guerrieri.
Silla fece di tutto per cancellare ogni traccia storica della confederazione dei
popoli italici sanniti che solo per un caso fortuito del destino non fece
capitolare la Roma antica.
I fieri sanniti furono massacrati ma mai domati e avendo avuto riconosciuti gli
innegabili meriti, costituirono di fatto l'ossatura civile e militare da cui
Roma prese il volo.
Senza di loro niente Roma, niente Impero, niente Italia.