14/5/2020 ● Scuola
"La nuova quotidianità" (di Giada Borrelli, laboratorio giornalistico)
Riceviamo e pubblichiamo (da V.Tanno - Ufficio Stampa Istituto Pertini Montini Cuoco)
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“Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle” (O. Wilde)
Per la Rubrica rest@casa della redazione giornalistica on line OFFICINA D’AUTORE
le riflessioni della futura dottoressa – perché questa sarà la sua professione
da grande – Giada Borrelli. Ormai prossima al diploma, la studentessa della V F
dell’Istituto Biotecnologico Pertini Indirizzo Biotecnologie sanitarie ha voluto
regalarci le sue considerazioni in merito alla difficile situazione che tutti
noi stiamo vivendo a causa dell’emergenza Covid-19, come invito a onorare la
vita, a rispettare l’altro, a seguire comportamenti responsabili, pensando prima
agli altri e poi a sé stessi. Come invito a ringraziare i medici e tutto il
personale sanitario perché quella degli operatori sanitari non è una semplice
professione ma è una missione.
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LA NUOVA QUOTIDIANITA’ di GIADA BORRELLI
21 febbraio 2020. Tutto è iniziato così, un venerdì di febbraio, nessuno poteva
crederci e invece l’epidemia, da quella cittadina in provincia di Lodi, Codogno
si è diffusa, a macchia d’olio, nella nostra Penisola, regione dopo regione,
attraversando montagne, colline e mari fino a giungere nelle isole. Un mese
prima, il 10 gennaio 2020 la notizia della presenza di un nuovo virus,
estremamente contagioso, veniva divulgata in tutto il mondo. È proprio vero, è
insito nella natura dell’essere umano non dare peso a tutto ciò che è lontano, i
problemi acquisiscono importanza solo quando li si vive da vicino.
“Qui non arriverà mai”, questo il pensiero degli Italiani, degli Europei, degli
Americani, eppure i 7562 Km che separano l’Italia dalla Cina non sono bastati,
il SARS-COVID 19 è arrivato anche nelle nostre case. L’11 marzo 2020, l’OMS
dichiara che il coronavirus è una pandemia.
Guardiamo indietro, il passato insegna e la storia si ripete, mai queste frasi
furono così vere.
Non ci sembrerà vero, ma dobbiamo catapultarci ai tempi dei Greci, precisamente
nel 430 a. C, anno in cui, secondo la testimonianza di Sofocle, autore della
tragedia Edipo re, si affronta il tema di una “grande malattia”, la peste.
“Nella città di Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini al
Pireo, così che da questi fu detto, che i Peloponnesiaci avevano gettato dei
veleni nei pozzi, infatti, là non vi erano ancora fontane. Poi raggiunse anche
la città alta e già molto di più morivano. Dica, dunque, riguardo a ciò ciascuno
a seconda delle sue conoscenze sia il medico sia il profano, da che cosa era
probabile che essa fosse sorta, e dica quali cause di un simile sconvolgimento
ritiene siano capaci di avere una forza tale da provocare il cambiamento (dello
stato di salute)”. Queste sono le parole dello storico greco Tucidide attraverso
le quali è facile notare come tutto risulti molto familiare alla situazione che
anche noi, con il dilagare del coronavirus, stiamo vivendo: come la peste,
questo nuovo flagello si è abbattuto, improvvisamente e inaspettatamente, sul
nostro mondo in cui tutti credono di non aver bisogno degli altri, tutti si
sentono superiori, in cui l’amore ormai è percepito, a mio avviso, come un
sentimento raro, introvabile come l’acqua nel deserto, un mondo in cui ci si
sente invincibili e, soprattutto, in cui ognuno pensa di poter essere “il
cambiamento” quando, in realtà, siamo tutti omologati, schiavi del consumismo e
del conformismo di massa. Dunque, oggi come all’ora, si va alla ricerca degli
untori, in Grecia li avevano identificati nei Peloponnesiaci, noi, prima abbiamo
additato i Cinesi e, purtroppo, da qualche giorno, anche nella nostra piccola
comunità campobassana abbiamo riversato le nostre ansie, i nostri timori, le
nostre preoccupazioni sui cittadini molisani, di origine rom, insediati, da
secoli, nel capoluogo molisano. In realtà, dopo diverse settimane in cui la
curva epidemiologica dei contagi in Molise era scesa ai livelli di sicurezza non
allarmanti, nell’arco di pochissimi giorni, decine di componenti della comunità
rom sono risultati positivi ai test, la notizia è rimbalzata, come un boomerang,
tra gli abitanti della città e del resto del territorio e, come spesso accade,
il pregiudizio popolare ha avuto il sopravvento e non ha tardato a palesarsi
fomentato anche da un certo tipo di stampa che ha diffuso notizie e articoli di
stampo discriminatorio. C’è ancora un altro aspetto, a mio avviso molto
significativo, che si evince dalle parole di Tucidide, è la modalità con cui
ciascuno di noi, in queste situazioni, esprime la propria idea senza che essa
abbia, necessariamente, basi razionali o scientifiche, ciò, di conseguenza,
genera il panico che, a sua volta, diventa psicosi grazie al potente ed
ingestibile strumento, Internet, che permette, a chiunque, di scrivere qualsiasi
cosa e di diffonderlo in tutto il mondo, in brevissimo tempo. L’odio razziale si
è manifestato questa mattina, (12 maggio 2020 ndr) a Isernia, città in cui è
stato vietato l’accesso, ad un supermercato, a un giovane di etnia rom e non
posso non far riferimento a ciò che ho appreso quest’anno, studiando il
totalitarismo fascista in Italia e l’emanazione delle leggi razziali del 1938
che proibivano l’accesso ai luoghi pubblici, ai negozi degli Ebrei. Mi sono
interrogata su ciò che è avvenuto e mi sono chiesta: perché sappiamo distinguere
ciò che è vero da ciò che falso leggendo le numerosissime fake news che si sono
diffuse sui giornali e nella stampa on line, come ad esempio il fatto che il
virus potesse trovarsi nel cibo o che le persone abbiano smesso di frequentare
alcuni ristoranti di sushi giapponesi e cinesi e non riusciamo a capire che ogni
persona è diversa dall’altra e non bisogna discriminarla solo perché appartiene
a un’etnia, in questo momento sotto accusa? Ma il sushi non è giapponese? Certo
che si, quel ragazzo è uno zingaro? Certo che sì, ma è ormai consuetudine
prendere tutte le notizie per buone, colpevolizzare senza conoscere, senza
informarsi e, di conseguenza, sviluppare un proprio pensiero critico fidandosi
dei luoghi comuni. Qual è la parola che più spesso sentiamo nominare in questo
periodo quando si parla di fake news e dell’influenza che esse hanno sulla
società? Psicosi. Cosa vuol dire? Ci viene in aiuto Freud che, nel suo scritto
Nevrosi e Psicosi, pubblicato quasi un secolo fa, nel 1923, chiarisce la
differenza tra questi due termini che stanno ad indicare due diverse patologie,
pertanto, ad oggi, si fa un uso improprio di questa parola per indicare la paura
che, portata all’esasperazione, diventa morbosa.
Personalmente, mi ritengo molto fortunata perché, anche se fosse stato facile
lasciarsi convincere dalle innumerevoli notizie circolanti in Internet,
soprattutto all’inizio, quando tutti ci siamo ritrovati, dall’oggi al domani,
catapultati in una situazione così complicata, sono riuscita, grazie a ciò che
questa scuola mi ha insegnato, a discriminare ragionando, senza allarmarmi
inutilmente.
Non è affatto una situazione facile ma, sin dal primo giorno, ho capito quanto
fosse importante seguire tutte le direttive impartite dal governo per il bene di
tutti, ritengo davvero egoista il comportamento di chi non ha affatto rispettato
le restrizioni, soprattutto per tutti coloro che sono considerati i soggetti più
a rischio, ossia i nostri nonni e bisnonni che hanno contribuito a ricostruire
il paese dopo due grandi guerre, che hanno lottato per ottenere tanti di quei
diritti che, ad oggi, ci sembrano così scontati e che, con tanto amore, hanno
lasciato in eredità ai nostri genitori e ai noi. Non nego che questo periodo mi
abbia scossa e catapultata in una realtà che, fino ad oggi, avevo soltanto
studiato sui libri di storia: il numero sempre maggiore di morti, le immagini
strazianti trasmesse dai telegiornali, le testimonianze delle persone
ricoverate, la sofferenza delle persone che, anche se non sono state affette dal
virus, pagano le conseguenze delle innumerevoli chiusure, mi hanno resa
partecipe, inevitabilmente, del loro dolore e ciò condiziona anche le mie
aspettative per il futuro che, conseguentemente, sono più che mai incerte.
Tuttavia ho capito è che, se fino ad oggi mi sono sentita come Italo Svevo,
un’inetta, adesso so che voglio e posso realizzare il mio sogno sin da quando ne
ho memoria: aiutare gli altri, tutti indistintamente, mi impegnerò affinché
possa diventare una brava dottoressa come i tanti medici-guerrieri che
combattono, quotidianamente, contro il loro nemico, il COVID-19.
Sono fiduciosa, credo nei ricercatori di tutto il mondo che hanno deciso di
dedicare la loro vita alla scienza, mi auguro che ognuno di noi riesca a trarre
un qualcosa di positivo da questa esperienza, probabilmente sbaglio, ma credo
che si possa sempre trovare, anche se a volte è più difficile, un modello
d’insegnamento, uno scopo per lottare e guardare, serenamente, al futuro con la
speranza che il mondo intero capisca che andare sulla Luna o esplorare nuovi
pianeti non rende noi persone invincibili se non impariamo ad amarci di più.
Concludo con una citazione di Oscar Wilde che, a mio avviso, è molto
significativa in questo periodo ma che riassume il mio pensiero di oggi e di
domani. “Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle”.