9/4/2018 ● Cultura
Immagine vs. Identità
La scenografia in cui è ambientata la presente riflessione l’ho già descritta
più volte: la modernità e le peculiari caratteristiche che la stanno connotando
come un’epoca assolutamente straordinaria. I mutamenti, tuttora in corso,
avvengono in maniera così repentina che l’uomo contemporaneo credo abbia
l’impressione di vivere in uno di quei b-movie di fantascienza che si vedeva da
ragazzi. Insomma, quella mutazione antropologica profetizzata mezzo secolo fa da
Pasolini – dalla identità-appartenenza ad una secolare cultura contadina si è
passati all’essere una massa indistinta di apolidi consumatori - si è spinta
oltre ogni immaginazione. In questo caso gli antesignani sono coloro che un
secolo fa, nel loro Manifesto futurista, magnificavano le virtù del mondo nuovo
… la bellezza e l’ebbrezza della velocità, in contrapposizione all’immobilismo
ottocentesco. La progressiva accelerazione ha condotto all’attuale “high speed
society”, che assume il tempo come paradigma di ogni settore del vivere sociale.
La velocità non serve più unicamente a percorrere maggiori quantità di spazio
nell’unità di tempo, ma a guadagnare quella che oramai è diventata una moneta,
una moderna divisa universale che ognuno può coniare da sé, comprimendo il tempo
così da poterlo spendere per ulteriori attività.
E così la velocità ci rende multitasking, e tuttavia sta progressivamente
profanando ambiti in cui la lentezza è tradizionalmente connaturata alla
sacralità del rito sociale. Si pensi allo “speed dating”, l’appuntamento veloce,
in cui la premeditata compressione del tempo viola la principale regola del
galateo dei rapporti interpersonali, l’attenzione e l’ascolto dell’altro, ovvero
il piacere di trascorrere del tempo insieme. Anche nel versante dei rapporti
familiari il tempo va speso con parsimonia? Ok, ecco pronta una locuzione al
servizio della retorica del caso: “quality time”… il tempo è poco ma vale di
più. Per noi italiani, poi, ancor più dissacrante è il concetto di “fast food”:
la nostra cultura gastronomica si è sempre contraddistinta in quanto espressione
di una cucina intesa come manifestazione di una liturgia nel cui ambito le madri
assumevano le vesti di sacerdotesse – la cui investitura proveniva
dall’amata-odiata suocera – officianti quello che rappresentava un vero e
proprio rito all’interno della quotidianità familiare, da consumarsi in
un’esasperante eppur piacevole lentezza, sia nella fase di preparazione che di
consumo dei cibi … non è un caso che proprio in Italia Pedrini battezzi il
concetto di “slow food”.
E così già negli anni’70 il filosofo Paul Virilio conia il termine “dromocrazia”,
il governo della velocità … “se il tempo è denaro, la velocità è potere”. Sarà,
ma risparmiare tempo facendo cose più velocemente non migliorerà la nostra
qualità di vita fintanto che il tempo guadagnato non sceglieremo di convertirlo
in tempo libero (mi viene in mente, del Carosello, la pubblicità del Cynar con
Calindri, seduto in mezzo al traffico, che invitava ad un relax “contro il
logorio della vita moderna …”).
Predisposta la scenografia, entrano in scena i due antagonisti … immagine e
identità. Si chiamano diversamente, eppure oggi si tende a confonderli … da qui
la presente riflessione. Per comodità esplicativa farò riferimento al concetto
di identità artistica, comunque riconducibile alla medesima matrice, ovvero
quell’identità culturale da cui ogni individuo non può prescindere. Lo spunto è
venuto fuori di recente, proprio da un episodio reale. Durante il rito mattutino
del caffè al bar, la radio trasmette un brano dei Queen e, in successione, un
Bowie in versione “dance” anni ’80. Dopo aver magnificato i primi,
l’interlocutore di turno sminuisce la qualità artistica del secondo. Occhio! …
non si parlava di gusti musicali ma … diciamo così … delle coordinate della loro
dimensione artistica. Dunque, vediamo un po’… i Queen: straordinari musicisti ed
un frontman eccezionale, con doti vocali fuori dal comune … tutte circostanze
universalmente riscontrate in occasione del Live Aid. Estetica di qualità, ma
quale narrazione? A sua volta Bowie, per così dire, gareggiava in un altro
sport. Determinato a seguire una carriera musicale, che nella Swinging London
rappresentava un terreno artistico facilmente accessibile, impiegò molti anni
prima di incontrare il successo. All’epoca era normale, per un’etichetta
discografica, produrre album interlocutori ad un artista esordiente, nella
consapevolezza che questi dovesse gradualmente raggiungere la maturazione
artistica … pensiamo a Battiato, De André e alla loro lunga gavetta, oppure alla
evoluzione di Gaber, da cantante di hit di successo ad interprete della forma
teatro-canzone. Nel corso di una trasferta a NY visita la Factory di Warhol,
l’esempio ideale del proficuo connubio tra arti visive, musica e cultura
underground. Lì conosce Lou Reed che, con doti vocali e strumentali non eccelse,
diventa il cantore della NY dei bassifondi. D’altronde l’arte serve a questo,
offre bellezza ma anche informazioni, estetica ed etica. Capisce dunque di dover
trovare una propria identità artistica. La sua immaginazione – si era nel
periodo dei primi viaggi spaziali - partorisce il personaggio di Ziggy Stardust
e una narrazione talmente efficace da indurre in molti fans deliranti la cd
sospensione dell’incredulità … l’alter ego aveva preso il sopravvento. Nella sua
carriera Bowie vivrà più vite artistiche, e darà voce ad altri alter ego – il
“Duca Bianco” sarà il più caratterizzante -, ciascuna delle quali ha lasciato
una traccia nell’immaginario collettivo. Come i Queen ha composto bellissimi
brani, ugualmente esplorando vari generi, tuttavia lui è andato al di là del
fatto estetico: la musica ha rappresentato uno strumento come un altro per
comunicare quanto aveva da dire. Ergo, di Bowie si parlerà anche nel prossimo
secolo, mentre dubito che lo si farà dei Queen. Oggi, nella dromocrazia,
probabilmente il giovane Bowie avrebbe fatto un provino ad un talent. Lì avrebbe
incrociato qualcuno con una preparazione tecnica superiore, oppure capace di
offrire un’immagine maggiormente gradita al pubblico … altrettanto probabilmente
non sarebbe diventato uno degli artisti più influenti del ‘900.
La velocità oggi impone una comunicazione immediata, quindi si offre
un’immagine, ovvero si comunica come si vuole apparire. Lasciamo come al solito
che siano le parole a spiegarsi da sé: la radice di immagine, imare, è la stessa
di “imitazione”. L’immagine è dunque l’imitazione di un’idea preesistente, è un
simulacro, qualcosa di artificiale. La radice di identità è “idem”, stessa cosa
… quindi è l’atto di riconoscersi in qualcosa. Se l’immagine è mera
rappresentazione, informazione di ciò che appare, l’identità è informazione di
ciò che è. L’identità è la narrazione di sé, un racconto che si costruisce nel
corso del tempo, aggiungendo un tassello dopo l’altro. In questo lavoro
esistenziale un aiuto ci viene dall’arte e dalla cultura in genere, ovvero si
tende l’orecchio a chi, in un’opera qualunque … di narrativa, musica, pittura
ecc. … racconta qualcosa di sé per raccontare qualcosa degli altri. Così si
conosce se stessi e si costruisce la propria identità, riconoscendo pezzi della
stessa in coloro che, forti della propria sensibilità, ci hanno comunicato
informazioni che riconosciamo come autentiche.
Dunque non è l’identità psicologica, ovvero la semplice percezione di sé in
rapporto alla società, che ci definisce, bensì è quella culturale. La prima non
dice nulla di noi, mentre è la seconda che racconta chi siamo, definisce quale
persona abbiamo scelto di essere tra le innumerevoli maschere che potevamo
indossare. E siccome la nostra mente formula pensieri narrativi, l’identità è il
racconto di noi stessi, delle nostre diversità, delle specificità nei
riferimenti culturali. L’omologazione va combattuta proprio perché disinnesca il
processo di identificazione, con cui il particolare si specchia nell’universale.
Questo meccanismo di proiezione è un fattore dinamico: la narrazione della
nostra identità si arricchisce di nuovi tasselli ogniqualvolta scopriamo
qualcosa di noi grazie alla rivelazione di coloro che scegliamo come nostri
punti di riferimento. È un movimento circolare quello della costruzione ed
esibizione della propria identità, una sorta di catena di Sant’Antonio, una rete
di corsi d’acqua che vanno a sfociare nell’immaginario collettivo. Ciascuno
arricchisce la propria narrazione di sé grazie ai riferimenti esterni,
diventando a sua volta un riferimento per gli altri: da questo processo virtuoso
si innesca il progresso umano, a cui ciascuno di noi può a suo modo contribuire.
E ripeto per la terza volta la definizione di Leibniz sull’essenza umana … siamo
punti di vista. Il punto di vista di ciascuno, unico e insostituibile, è
un’informazione che contribuisce alla rappresentazione della realtà; l’artista è
semplicemente colui che assolve a questo compito in maniera più efficace, perché
riesce a rendere interessante le informazioni che dà, confezionandole meglio
grazie ad uno spiccato senso estetico.
Il rock è stato visto come un segno di decadenza, la musica del diavolo. Certo,
per gli amanti dello status quo … cattolicesimo in primis. Eppure non “sono solo
canzonette”. La musica moderna ha veicolato l’emancipazione di quei giovani che
sino ad allora non esistevano come soggetti attivi, non avevano identità. Una
società che esclude i giovani dal processo di crescita culturale è una società
sterile, incapace di trasformare la memoria in progetto, quindi di plasmare il
futuro. Fino alla seconda metà del ‘900 un manipolo di intellettuali si occupava
del progresso umano e civile. Oggi i riti che quotidianamente officiamo (per i
quali mi astengo dal fornire giudizi di merito), che hanno radicalmente
trasformato le nostre vite, sono il frutto di giovanissimi visionari … Apple,
Microsoft, Google, Facebook … ed è solo l’inizio, quindi il meglio deve ancora
venire. Ma, e finalmente chiudo, così come solo i “vecchi” non possono essere
interpreti dei loro tempi, anche le nuove leve mostrano un lato incompiuto.
L’identità è una costruzione della memoria, che costruisce nel tempo l’unità
narrativa autobiografica del soggetto grazie alla capacità di rievocare ciò in
cui, appunto, ci identifichiamo. Memoria e progetto, vecchi e giovani, questi
sono i poli del processo dialettico che, se virtuosamente innescato, conduce al
progresso civile.
Oggi, come sempre, ci si propone agli altri per costruirsi una reputazione …
terzo personaggio. Oggi la si vuol costruire velocemente, con l’immagine dunque,
anziché con la lenta costruzione dell’identità. Ma la reputazione è un concetto
di relazione, non dipende solo da noi. Viene da potare, cioè tagliare i rami
inutili. E infatti il buon giudizio consiste proprio nel depurare la parte
preziosa dall’inutile orpello. Dunque è una contraddizione in termini cercare il
positivo giudizio degli altri offrendo loro l’immagine di se stessi, del come si
vuol apparire. Il prefisso “re”, poi, indica una ripetizione: ovvio, dato che la
reputazione è frutto di un work in progress che (in)segue la costruzione in
itinere dell’identità.
Quanto detto sembra fatto apposta per evidenziare che la reputazione a cui
aneliamo nei social … la raccolta del maggior numero di like e condivisioni … è
virtuale quanto il media utilizzato … #menefrego. Il campanello d’allarme credo
vada invece attivato nei confronti degli aspetti della vita reale. Ad esempio
non posso fare a meno di pensare che nell’arco di tre mesi saremo chiamati più
volte a scegliere tra persone che chiedono la nostra approvazione. Ci chiedono
una delega per governare la casa in cui viviamo. Quando si sceglie una
governante si analizzano le credenziali, quindi la sua storia, visto che la sua
attività avrà un’influenza diretta sulle nostre vite, quelle reali. I candidati
(dal solito latino, è un riferimento al candore delle vesti dei senatori come
metafora della corrispondente pulizia morale) esibiscono la loro identità per
ottenere il nostro consenso?