14/11/2017 ● Cultura
L’antica tradizione locale di farsi l’olio per il consumo familiare
E sì, l’olio, a differenza del vino, che può essere parzialmente consumato all’interno della famiglia ( il nucleo familiare infatti può annoverare un adulto astemio e , in modo non secondario, è bene che i bambini o coloro che sono affetti da particolari patologie non assumano bevande alcoliche ) è un ingrediente che crudo o come base di cottura di altri cibi direttamente o indirettamente viene consumato da tutti i componenti della famiglia che per consuetudine si riuniscono a tavola per i pasti . Questo è sufficiente per mettere l’olio ,specie quello extravergine d’ oliva, al centro della dieta , com’è ancora tradizione nella nostra ,perdurante alimentazione contadina, più che dieta mediterranea ,senza tacere il fatto che le ca le contrade delle campagne di Guglionesi ospitano 91.349 piante , con una produzione di 14,5 kg per pianta e con una produzione di olio totale di 216.542 Kg , in testa agli altri paesi del circondario nella Macroarea di appartenenza ( fonte E.R.S.A. Molise 2001 ). Tuttavia, al di là della consuetudine di consumare l’olio del nostro territorio, molto è radicalmente cambiato rispetto al passato anche recente sia per quanto riguarda la modalità di raccolta delle olive sia per quanto attiene la loro trasformazione in olio . Inizierei a dar conto di tale cambiamento dagli aspetti sociali , soffermandomi soprattutto sulla sostituzione di genere nella raccolta delle olive , poiché è noto come tale lavoro impegnava soprattutto le donne vuoi per la relativa leggerezza della raccolta manuale svolta per larga parte dalle braccianti e dalle donne coadiuvanti il lavoro del conduttore del fondo, che in genere era il capofamiglia . Olivare che alternavano nell’arco della giornata lavorativa la” fastidiosa”, spesso umidiccia, raccolta a terra delle olive mature cadute a quella più svelta con la scala in legno, anche a 21 pioli, ben assicurata alle diramazioni crociate dell’albero per consentire gradualmente … a salire, sempre pericolosamente un po’ in bilico, di poter raggiungere la cima e le palme più alte . Si raccoglieva ( e si coglieva) , ricordo, con la” manciarell” : una sacca di tela ruvida , non dissimile nella forma, solo più piccola, da quella che talvolta serviva per fare mangiare la biada ai quadrupedi al servizio dei contadini. E , nel tempo autunnale di raccolta delle olive, che era particolarmente lungo in passato , il lavoro iniziava intorno alle festività di Ognissanti e dei Morti e si protraeva , nei campi più grandi, anche fino a gennaio ; un tempo spesso discontinuo anche a causa delle ripetute interruzioni dovute al maltempo che rendeva impraticabile il terreno . Quella della raccolta delle olive era un lavoro tipicamente femminile poiché implicava rassegnata pazienza e monotona continuità supportando , d’altro canto piacevolmente , nel mentre ,la maggiore attitudine femminile rispetto agli uomini ad occuparsi di intrighi relazionali, specie locali , orecchiare dicerie… una relazionalità spicciola che spesso consentiva, per via del tempo sociale di lavoro condiviso, di rinsaldare i legami sociali, di stabilirne di nuovi , di venire a conoscenza dei fatti degli altri, di fare un produttivo salotto” en plein air” , non di rado versato al pettegolezzo . Gli uomini, in genere , nello stesso periodo si occupavano della semina o erano presi da altre attività che impegnavano con più intensità la forza fisica. Dopo la secolare raccolta a mano che sgranava abilmente e in modo quasi “gentile”, con le dita le olive dai corti piccioli che appena penduli li ancoravano ai rametti venne l’invenzione del “rastrello corto” : un attrezzo di una “genialità” perfino ingenua ( nei secoli che hanno visto solo la raccolta a mano , se ci fosse stata l’eureka! avrebbe potuto essere forgiato anche in metallo !) poiché l’aggeggio ( brevettato) mimava l’irrigidimento delle dita prolungate nell’attrezzo che a rostro pettinavano i ramoscelli asportando le olive , facendole cadere sul telo di raccolta preventivamente steso sotto il’albero, in modo da accogliere la cascola delle olive separandole poi dalle foglie e dai rametti che inevitabilmente nel trattare energicamente i ramoscelli in tanti , si spezzavano . Si otteneva con il rastrello una resa in olive prodotte di gran lunga superiore a quella fatta con la raccolta manuale . ll superameno del rastrello corto avvenne in tempi relativamente brevi ; è stato sufficiente insufflare, portato da un lungo tubo flessibile , aria motrice in un pettine a sbattimento congiunto delle dita meccaniche con un asta più o meno lunga per inventarsi l’abbacchiatore meccanico : un’ asta, adesso impugnata da un uomo che , resistente alla intensità della fatica fisica, con perizia l’agitava in alto rastrellando le palme, procedendo nell’intorno dell’albero con pratica sistematicità fino a ripulire in breve tempo la pianta dalla quasi totalità delle olive . L’abbacchiatore è solo il segmento terminale, di un articolato complesso tecnologico che sfrutta la potenza di un motore, di un compressore che potente dà uno snervante inumano ritmo meccanico all’ addetto , che di fatto rappresenta una radicale innovazione che ha cambiato la modalità della raccolta delle olive eliminando le scale a pioli ( un ‘ulteriore innovazione che probabilmente sostituirà l’abbacchiatore meccanico comporterà lo scuotimento meccanico della pianta !). Le donne, dopo l’avvento della raccolta meccanizzata , di fatto sono state escluse da questa attività , relegate alla stesura dei teli o alla cernita e separazione del fogliame, e di altri cascami, frammenti di terriccio da cui le olive devono essere ripulite. Ed è anche per questo oramai consolidato avvicendamento di genere che le valli delle contrade della campagna guglionesana sono diventate silenziose , non più rallegrate in autunno dal canto delle “olivare” : braccianti specializzate nella raccolta delle olive. Le donne che attraverso una pratica secolare, trasmessa di generazione in generazione ,raccoglievano e coglievano le olive spostando pesanti scale a pioli in legno intorno ad alberi maestosi iniziando , suggeriva una nota canzone del lavoro , prima “da ciarciavaghl e pu’ a na ccm” . Si ode, oggi,invece ,scoppiettante , qua e là, a seconda del grado di meccanizzazione della raccolta, il frastuono potente degli abbacchiatori biomeccanici che con le loro innaturali palme in plastica rigida a sei dita ( una rara anomalia genetica fatta propria dalla attuale tecnologia applicata all’agricoltura) sono un prolungamento meccanico del braccio e dall’avambraccio. Un attrezzo ben impugnato alla sua base , attentamente guidato dall’operaio che lo utilizza, tenendo e controllando l’asta lievemente vibrante , innaturalmente obbligato a guardare verso l’alto e a concentrare in gran parte la sua sensitività verso quella limitata porzione di spazio in cui furiosamente sbattono le sue ”mani ” strutturalmente sempre congiunte . L’attrezzo messo in movimento dall’aria del compressore sbattendo all’impazzata sulle palme dell’olivo le sbatacchia con inusitata forza meccanica scagliando a destra e a manca , in alto e in basso le fruttifere drupe , subito ,comunque ricadenti nel perimetro del telo sottostante L’ albero , spoglio delle olive , dopo il passaggio scompigliante dei pettini meccanici ha l’aspetto di un “pugile suonato “; appare qua e là ferito, con alcuni ramoscelli spezzati , tristemente penzolanti offesi dalla furia meccanica dell’attrezzo usato per lo scuotimento . Ed essendo spesso le olive, chi più chi meno , un po’ammaccate al fine di evitare indesiderate marcescenze è preferibile , per ottenere un olio buono, molirle uno , due giorni dopo la raccolta. Molto si è detto e si continua a dire sul tipo di molitura: se l’estrazione dell’olio è meglio che avvenga a caldo, quindi con temperature superiore ai 37 gradi o a freddo o con le macine in pietra e a temperatura inferiore ai 37 gradi. Ci sono pro e contro per l’uno e l’altro metodo. Pur tenendo conto di alcuni aspetti positivi dell’estrazione a caldo dell’olio personalmente ,preferisco la molitura a freddo ; primo , perché la storia antica di tale tradizione mi a ha accompagnato sin da bambino , da quando ho iniziato ad avere curiosità per il frantoio : una delle poche attività “industriali “ del paese che in quel periodo davano un tono di modernità ad un’agricoltura che impegnava prevalentemente il lavoro umano e degli animali da tiro . Lo preferisco anche perché l’olio ha un fruttato migliore, esprime al meglio le sue caratteristiche organolettiche conservando per intero i polifenoli ( naturali sostanze antitumorali) unitamente al sapore acidulo- piccante , diverso dal carattere dolciastro dell’olio ottenuto a caldo . Per quanti hanno la fortuna ( o la sfortuna , perché la raccolta meccanica è faticosa e fastidiosa poiché oggi è la macchina ,” prepotente”, ad imporre un sostenuto ritmo di lavoro all’uomo ) di possedere un uliveto s’impone, snervante il problema della raccolta delle olive che, dimezzata la forza lavoro dovuta ad una specie di forzata espulsione delle donne dagli uliveti ( una forza lavoro in passato preminente ) diventa un cruccio per coloro che comunque hanno a cuore il farsi l’olio per il consumo familiare. Un problema che in parte si risolve fidando su squadre di raccoglitori che lavorano per conto-terzi , in parte si fa affidamento sul volontariato familiare ; un contributo lavorativo spesso ritagliato nei pochi fine-settimana che inframmezzano il tempo di raccolta . In tal modo è ancora possibile ( come accade per il vino) aggiungendo un passaggio esterno al frantoio ancora molire le olive di produzione propria , sentire e gustare il profumo dell’olio della propria terra ( è d’uso assaggiare magari su una bruschetta il primo olio , di ritorno dal frantoio con i fusti pieni ) e ottenere un olio di qualità che nella nostra cucina meridionale rappresenta l’ingrediente di base per la preparazione di molti buoni piatti. Abbiamo, qui da noi, ancora il privilegio di portare a tavola il nostro olio , di friggere con il nostro extravergine che ha un punto di fumo più alto rispetto agli altri ol ie che, per tale ragione limita la formazione di sostanze tossiche come l’acroleina, ed altre sostanze volatili potenzialmente cancerogene . Ha per me ancora una annuale , ricorrente suggestione e un fascino antico la” campagna” della raccolta delle olive ( che d’altro canto rappresenta anche una impegnativa consegna da parte delle generazioni parentali che mi hanno preceduto ; me lo ricordano l’ annosa persistenza, oltre le loro vite oramai passate, dei nodosi, contorti tronchi secolari dei maestosi olivi che ci hanno lasciato in eredità ), nel seguire poi al frantoio il ciclo esterno della loro molitura . Le olive vengono rapidamente frante dalle macine in pietra , ruotanti in circolo, che incessantemente spazzano il piano di molitura riducendo le irriconoscibili olive in una flaccida poltiglia . Al riguardo , nel ricordare la mia infanzia ho un’immagine sbiadita del frantoio di Germano ? che se non erro si trovava a lato della facciata della chiesa di S, Felice , nel locale che oggi ospita il Supermercato Sorella, e ho sbiadito il ricordo di un ciuco , impegnato a far girare delle mole … mi aspetto che qualcuno leggendo questo articolo , più” anta” di me , confermi se quello che lascio appositamente con un interrogativo sia un’errata mia reminescenza o anche nella Guglionesi del passato prossimo tale pratica residuale della molitura , sicuramente praticata altrove , con l’ausilio degli animali fosse ancora in uso ; ricordo, invece , con certezza d’immagini i frantoi di : Rinaldi, Di Falco… oramai da tempo dismessi . La pasta ottenuta, incessantemente rimescolata durante la lavorazione primaria delle olive, fase detta gramolatura che consiste nel formare una massa in cui l’olio forma una emulsione con l’ acqua che l’impregna che , rimossa la morchia più consistente, viene stesa a raso sui fiscoli da un operaio impegnato nelle successive fasi della sua distribuzione sugli stessi ,provvedendo contestualmente all’ impilamento dei dischi che formano la colonna che verrà posizionata sotto la pressa , la quale , esercita una pressione di alcune centinaia di atmosfere sulla pila spremendo acqua ed olio ( separando fisicamente l’emulsione dalla sansa) che gocciolando si raccoglie alla base della colonna , defluendo poi in una vasca di prima decantazione . Successivamente l’olio viene canalizzato nel separatore che , ancora a freddo , centrifuga il liquido , sfruttando la diversa densità, separando in tal modo l’acqua dall’olio. Infine l’olio in genere di un colore oro-paglierino fuoriuscendo a cannella con un flusso più o meno sostenuto ( peraltro spesso oggetto di attenta valutazione da parte del cliente del frantoio : dal volume del flusso dipende sia una prima stima della sua resa sia una valutazione a vista della sua qualità) subito raccolto nei fusti. L’operazione di molitura, passaggio alla pressa e successiva separazione dura alcune ore : oggi un tempo industriale troppo lungo che fa si che tale procedimento di estrazione a freddo dell’olio rispetto alla molitura a caldo, a ciclo continuo, venga ritenuto desueto, antieconomico ; un po’ come i vecchi mulini del passato che guidati dagli accorti mugnai sfarinavano le granaglie ( oggi della loro importante funzione sociale è rimasta per lo più solo l’ opportunistico logo pubblicitario ) .Ma l’olio ,come il vino rosso ( che deve seguire un protocollo speciale per essere utilizzato nelle funzioni liturgiche) ha avuto storicamente e continua ancora ad avere una rilevante valenza simbolica. L’unzione nell’amministrazione di alcuni sacramenti da parte del sacerdote rappresenta una segnatura fatta con l’olio che suggella tappe importanti nella vita dei credenti ed è a tutti nota. I Cristiani ortodossi alla fonte battesimale ungono con una croce d’olio tracciata sulla fronte il neonato ; lo stesso segno viene ripetuto per coloro che ricevono la cresima , ancor più nota è l’estrema unzione somministrata ai credenti che si congedano per sempre dalla vita : una segnatura che propizia il passaggio del morente nell’al di là ; del resto Christòs è l’unto del Signore . L’olio oltre alle pratiche religiose è anche legato al rituale per la verità un po’ magico ed esoterico , che scaccia il malocchio : un rito praticato da una donna versata come “ per incanto” ( ncantà u malucch) la quale lascia cadere in un piatto tre gocce d’olio con il mignolo sinistro in un velo d’acqua ( la pratica pare fosse o sia ancora oggi solo appannaggio delle donne), da: National Geographic , novembre 2017 . l’0lio d’ oliva d’altronde, nei tempi lunghissimi della storia della civiltà aveva provveduto a mantenere accesa la fioca luce che delle lampade con lo stoppino drenante lentamente l’olio che fiocamente ardenti illuminava le case dopo il tramonto , E’ stato proprio questo il suo principale utilizzo nell’epoca preindustriale ( e non come i più credono per il consumo alimentare; in passato in ragione della diffusa povertà anche nelle campagne in cucina era più economico utilizzare il lardo ed altri scarti del maiale) ). Una produzione oggi solo di tipo oleario che in Italia attraverso gli sterminati uliveti della Puglia da secoli ha caratterizzato dal punto di vista fitogeografico la campagna del Salento , del Tavoliere fornendo l’olio per l’illuminazione degli ambienti abitati, delle stalle soprattutto alle regioni nordiche : Austria , Germania , Danimarca, Olanda, Svezia … latitudini a cui non avrebbe potuto spingersi la coltivazione dell’ulivo . E poiché ho citato l’uso dell’olio per l’illuminazione è facile fare il collegamento successivo che vede associare l’olio alla luce della fede attraverso il suo uso nelle canoniche impartizioni sacramentali . Ma anche altre parti dell’ulivo hanno nel tempo assunto un’ importante valenza simbolica; infatti non sfugge la festante benedizione delle palme di ulivo agitate sul sagrato delle chiese , portate in chiesa dai fedeli nella domenica delle Palme quale simbolo di pace e di riconciliazione . Come a Gerusalemme nella Basilica del Getsemani il crocefisso è stato realizzato in legno d’ulivo, peraltro da un architetto italiano ( Antonio Barluzzi 1920-24) poiché l’ albero rappresenta il simbolo dell’alleanza con Dio . E mi piace chiudere questo articolo con una nota d’artista citando Vincent Van Gogh . Infatti , riferendosi alla caratterizzazione pittorica di questa pianta un po’ speciale annotava : l’ulivo sfugge ad una rappresentazione figurata ; ora è argenteo, dopo un momento diventa più azzurro , ma insieme è verde con una punta di bronzo : un’ indeterminazione che esalta le tante benefiche proprietà della pianta e soprattutto benché minuscole, delle sue polpose drupe, nonché la sua forte valenza simbolica.