24/7/2017 ● Cultura
Come mosche... [3]
La presente riflessione, che voglio qui concludere, parte da una
concretissima curiosità nei confronti di un tratto caratteristico della società
moderna che ha del paradossale. Viviamo nella Società dell’Informazione - la
quale, resa immateriale, dunque non più ancorata alle catene spazio-temporali, è
diventata come l’aria, qualcosa che continuamente inspiriamo -, quindi siamo
mediamente in possesso di un certo grado di istruzione conseguita per pura
osmosi, tale da metterci tutti in condizione di svelare le trame del
“Burattinaio”. E allora perché i nostri “ignoranti” antenati, a fronte di ogni
angheria di cui avessero contezza, inscenavano feroci proteste, mentre noi
tutt’al più oliamo le nostre catene, infastiditi dal cigolìo?
Evidentemente il tasso superiore di istruzione non ci aiuta, né l’avere a
disposizione quella mole di informazioni a cui i nostri avi non potevano
accedere. Uno dei racconti di Borges vede come protagonista un certo Funes El
Memorioso, in possesso di una singolare capacità: la sua mente registra tutto,
anche i particolari più insignificanti. Saremmo portati a pensare a lui come ad
un uomo dalla mente prodigiosa … ma, ahimè, questa sua attitudine, in realtà, ne
fa un demente. Una delle prerogative della memoria è appunto la selettività.
Funes è il paradigma della condizione dell’uomo moderno, che ha accesso ad una
mole pressoché illimitata di dati/informazioni. Questa di per sé è una mera
pre-condizione, che si traduce nella possibilità, da attuare mediante lo
strumento della capacità critica, di edificare una valida rappresentazione del
mondo. In sintesi: apprendere dati e informazioni alimenta l’istruzione, trarre
utili (e valide) conclusioni dalla loro analisi è cultura.
La presente riflessione, basata su una condizione umana metaforicamente
accostata a quella della mosca sul vetro - la cui trasparenza consente la
visione della realtà, eppure di consistenza tale da rappresentare una barriera
all’effettivo accesso - abbisogna di una preventiva precisazione. Occorre
infatti distinguere la realtà intesa come fenomeno fisico, recepibile dai sensi,
dalla narrazione dei fatti che accadono, proveniente da diverse fonti esterne.
Si potrebbe maccheronicamente dire: c’è la “realtà” fatta di cose, e il “mondo”
quale insieme di fatti/informazioni. Alla prima, oltre che coi sensi, ci
approcciamo mediante il pensiero logico-scientifico, al secondo invece col
pensiero narrativo – a cui diamo voce con differenti linguaggi. L’illusorietá
del primo è fenomeno vissuto in una dimensione collettiva, mentre la costruzione
narrativa della realtà opera (quantomeno dovrebbe) a livello individuale. Dunque
sulla realtà, cioè sulle cose, non possiamo personalmente incidere come invece è
possibile fare sul mondo, sui fatti. La prima è descritta da un linguaggio
scientifico, non suscettibile di quelle interpretazioni personali a cui è
possibile procedere col linguaggio cd. orizzontale … quello normalmente
utilizzato insomma. E infatti, fondamentalmente possiamo affermare di esistere
come individui nella misura in cui ciascuno “vede” il mondo. Leibniz nel ‘600
individua la nostra principale attività nella rappresentazione a noi stessi di
quel che avviene nel mondo: essenzialmente siamo un “punto di vista
dell’universo”. Percepire è la nostra attività e come individui (monadi) il
nostro valore si misura in quanto depositari della nostra personalissima visione
del mondo, irripetibile in quanto procede dal particolare angolo di osservazione
di cui ciascuno gode. Nella sua visione Dio è la monade delle monadi,
depositario di tutti i possibili punti di vista (tre secoli prima, il persiano
Rumi diceva: “La Verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in
frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta
la Verità”). Eppure sulla distinzione realtà / mondo, tra essere e sapere,
cadiamo spesso in confusione, in speciale modo sul tema identità. Se ad esempio
qualcuno ci chiede chi siamo, risponderemo col nostro nome. Ma noi siamo davvero
”Tizio”? … ovvero quel nome – e quanto ad esso riconducibile – che neppure
abbiamo scelto? Non “siamo”, bensì “sappiamo” di essere Tizio. Tanto più che la
fisica quantistica, mediante il cd. principio di non-località e la teoria di
Bohm sull’universo olografico, ha scoperto già nel secolo scorso che la
distinzione tra Uno e Tutto è solo illusoria … cioè nella realtà fisica il
concetto di identità non esiste, tutti siamo fatti della stessa materia delle
stelle – per dirla poeticamente.
La nostra identità dunque sussiste solo come prodotto del pensiero narrativo, è
una mera rappresentazione. E allora se il nostro mondo, compreso il relativo
protagonista, sono il frutto di una narrazione, non sarebbe il caso di operare
una continua valutazione delle trame che ci vengono proposte, sottoponendole ad
una sorta di critica letteraria? Operazione non molto diversa dal valutare un
film scovando eventuali buchi nella sceneggiatura. Per la costruzione della
nostra identità è fondamentale procedere a tali valutazioni. I nostri antenati,
ad esempio, come costruivano la loro identità? Ovvero, a quali elementi
culturali attingevano per definire la loro visione del mondo? La risposta
l’abbiamo imparata nella scuola dell’obbligo: gli antichi, come in fondo anche i
nostri progenitori di recente ascendenza, si abbeveravano ai miti. Questi
assicuravano che valori e principi della loro società di appartenenza venissero
trasmessi a tutti. Come la natura predispone l’esca del piacere sessuale per
spingerci alla procreazione, così una narrazione resa attraente dagli archetipi
in essa disseminati riesce a convogliare quei contenuti nell’immaginario
collettivo.
Il mito è conoscenza, ma non ha alcun rapporto con la ragione. Questa elabora
categorie concettuali per giungere ad una descrizione oggettiva del mondo,
mentre il mito descrive l’agire umano in rapporto al mondo, quindi fornisce una
chiave di interpretazione soggettiva. Nata in veste di tradizione orale, i
racconti si adattavano – nella struttura e nell’interpretazione – alle mutevoli
esigenze delle generazioni in avvicendamento. Con l’avvento della scrittura,
purtroppo, questa caratteristica mimetica è evaporata e, a peggiorare il tutto,
è intervenuta la Chiesa ad avocare a sé la decisione su ciò che andasse o meno
raccontato. Poi il positivismo, la fede oggigiorno riposta nelle scienze, ha
segnato il definitivo declino del mito … così come i nostri avi lo avevano
conosciuto.
E, quindi, noi moderni come lo interpretiamo il mondo? Credo sappiate bene anche
questo … cultura di massa, villaggio globale, omologazione: essenzialmente siamo
le stesse monadi descritte da Leibniz, ma le narrazioni moderne provengono
dall’alto, producono ismi … punti di vista massificati. Già Castaneda
sottolineava come noi moderni percepiamo ormai solo socialmente, a differenza
degli antichi, capaci di farlo individualmente. Le narrazioni oggi provengono
dai mass media, sono o contengono informazioni provenienti dall’alto, ex
cathedra. Il mezzo altera la percezione dell’ascolatore, che sarà portato ad
attribuire la stessa dose di autorevolezza alle opinioni espresse in un
dibattito tra conoscitori di quella materia e parvenus (al riguardo Eco diceva
che la Rete ha amplificato a dismisura tale effetto, poiché dá a legioni di
imbecilli lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel). Strutturate in
maniera tale da non essere suscettibili di interpretazioni, le storie che
ascoltiamo solo in apparenza sono veicolo di informazioni: sfruttando le corde
della suggestione, in realtà ci “formano”, infettando la nostra mente con
opinioni preconcette, prët-à-porter. Con la nascita dei social – strumento dalle
positive potenzialità in caso di utilizzo virtuoso – ognuno ha oggi a
disposizione un palchetto per esprimere il gran numero di punti di vista a cui
ha probabilmente aderito solo passivamente; dunque in queste piattaforme si
realizza una sorta di catena di S.Antonio, tale da consentire a qualsiasi
opinione di diventare virale.
La narrazione mitica sopravvive in alcuni moderni esempi, in cui l’utilizzo di
quel linguaggio, che fa leva sulle componenti archetipiche, è la chiave per far
presa sul pubblico. Pensiamo agli USA, grande nazione che, dovendo costruire
un’epica dal vuoto del loro background storico, lo colmano applicando quella
narrazione allo sport. Risultato: trasmissione di qualche valore positivo, non
v’e dubbio, ma gli eroi senza macchia dove sono? Valori sportivi derivanti dal
sano confronto agonistico vengono trasmessi da protagonisti che, in una sfera
privata comunque trasparente al grande pubblico, tengono comportamenti da
perfetti antieroi. Fenomeno analogo si registra nelle narrazioni dei fuorilegge,
che nella realtà o nella fiction esprimono valori tipici dell’antieroe, ma
godono della simpatia del pubblico perché, in fondo, realizzano l’obiettivo
della scalata socio-economica che l’odierno capitalismo a sua volta consacra
come valore. Insomma, i miti moderni sono ad uso e consumo della società di
massa e non rispondono più alla funzione originaria, quella di trasmettere
valori positivi adattabili alle varie generazioni.
Evitando di debordare su un argomento troppo vasto da contenere in un breve
abbraccio, vado al sodo. La visione del mondo di noi contemporanei, nella
Società dell’Informazione, potrebbe raggiungere elevati livelli di
sofisticazione se solo applicassimo le nostre doti intellettive con dedizione.
La Rete è un oceanico ipertesto, la cui navigazione potrebbe condurci ad uno
smisurato numero di approdi. Inoltre, come avveniva virtuosamente coi miti,
narrazioni da ogni dove provenienti descrivono oggi pezzi di mondo spesso
virulenti. Il nostro pensiero narrativo può, orientandosi maggiormente verso la
prima opzione, elaborare un punto di vista personale, oppure abbandonarsi alle
suggestioni dei racconti altrui. Beninteso, sono narrazioni dal cui ascolto è
praticamente impossibile sottrarsi, ma ugualmente possiamo astenerci da una mera
adesione passiva. Con un meccanismo simile a quello della “sospensione
dell’incredulitá”, che ci fa vivere le trame letterarie o cinematografiche come
fossero reali, una narrazione suggestiva può indurci a prestare fede
incondizionata ad una visione del mondo. E la Rete sta diventando la “monade
delle monadi”, potendosi trovare in essa ogni potenziale punto di vista,
assurdità comprese. Bene, seguite pure quella narrazione come fareste di un bel
film per poi, appena usciti dalla sala, procedere ad un’analisi critica.
Qualcuno vi sottopone la “sua” – si fa per dire – narrazione del terrorismo? Ok
… analizziamo il film. Il protagonista è un musulmano che odia l’Occidente e i
simboli del potere capitalistico, reo di aver colonizzato e sfruttato il suo
Paese. La sua stessa religione sembra motivarlo verso tali scelte – d’altronde
viene ripetutamente qualificato come “islamico” - sebbene non esterni mai odio
verso la religione degli occidentali. Nel finale lui, abbracciato il percorso
della Jihad, si fa esplodere in un locale a Parigi. Se qualcuno mi chiedesse un
parere, direi che è un film di merda … soprattutto la sceneggiatura. Che
c’azzecca farsi esplodere in un bar frequentato da gente comune? Perché non ha
scelto un simbolo del capitalismo? Magari una banca, la sede della Borsa o di un
Ministero, ammazzando non normali cittadini … che senso ha? E poi perché a
Parigi? Nelle banlieu parigine i ceti popolari si stanno ribellando verso
l’attuale volto del capitalismo, cioè verso lo stesso nemico, quindi il
terrorista scagliandosi verso i simboli del potere economico attirerebbe le loro
simpatie. Muah! Mi fa venire in mente un film di anni fa, in cui terroristi
rossi sequestravano un importante politico, proprio quello che stava aiutando la
sinistra ad andare finalmente al governo e che, per questo motivo, era inviso
agli stessi nemici che stavano combattendo. Insomma, terrorista fa rima con
masochista. Questi sceneggiatori dovrebbero prendere lezioni di scrittura
creativa da Omero che, pur inserendo pezzi di storia inverosimili, rendeva
questa comunque credibile. Eppure, nonostante la pessima narrazione, questi film
incassano come i cinepanettoni.