9/2/2017 ● Cultura
Il termine ‘clandestino’ contiene un giudizio negativo aprioristico
Lo spunto per le seguenti riflessioni mi viene offerto dalla recente lettera
inviata al presidente del Consiglio, al presidente della Camera e al presidente
del Senato da parte di Ermanno Olmi, Luigi Manconi, Nicola Lagioia, Alessandro
Bergonzoni, Giovanni Maria Bellu e Beppe Giulietti (Repubblica 8 Febbraio 2017).
I firmatari della lettera sottolineano quanto segue: <<Sono passati due anni da
quando, su richiesta della Commissione per la tutela dei Diritti umani del
Senato, il termine “clandestino” è stato cancellato da molti atti ufficiali
italiani e dal sito del ministero dell’Interno dove, fino al 2014, continuava a
comparire. Il termine “clandestino” è, in primo luogo, giuridicamente infondato
quando viene utilizzato per indicare – anche prima che abbiano potuto presentare
domanda d’asilo e che la domanda sia stata valutata dalle commissioni
territoriali – i migranti che tentano di raggiungere, o raggiungono, il
territorio dell’Unione Europea. Si tratta, inoltre, di un termine che contiene
un giudizio negativo aprioristico – suggerendo l’idea che il migrante agisca al
buio, come un malfattore – ed è contraddetto dalla realtà dei fatti. Gli
immigrati, anche quelli non regolari, non si nascondono al sole. Al contrario,
spesso lavorano sotto il sole, dall’alba al tramonto, nei campi e nei
cantieri>>. I firmatari della lettera in questione precisano altresì che sempre
più spesso l’utilizzo della parola “clandestino” <<non è frutto di distrazione o
disinformazione, ma della volontà di affermare un’idea aprioristicamente
negativa, e xenofoba, dell’immigrazione. Il ricorso reiterato del termine
suggerisce un’immagine dell’immigrato come nemico. Un’insidia per la società,
l’incolumità dei cittadini e la sicurezza dei loro beni. Di conseguenza, nel
testo dell’intesa tra il governo italiano e il governo libico si accredita – al
di là delle intenzioni di quanti l’hanno redatto e sottoscritto – l’idea che gli
immigrati non siano persone titolari di diritti, bensì una minaccia sociale da
combattere>>. La parola clandestino “va cancellata subito”dal testo dell’intesa,
così auspicano i firmatari della lettera sopra menzionata.
Tutto ciò premesso, ritengo opportuno ricordare quanto segue: il 10 dicembre
1948, l’Assemblea dell’Onu proclamava la Dichiarazione universale dei diritti
Umani. Una carta fondamentale che, nelle intenzioni dei governanti di allora
doveva costituire un baluardo insormontabile a difesa di tutti gli esseri umani,
senza alcuna distinzione. Il paradosso che caratterizza il nostro tempo è
questo: viviamo in un mondo nel quale ci sono decine di paesi che non rispettano
quasi in nessun campo i diritti umani ma anche nei paesi più civili ed evoluti
siamo lontani dalla realizzazione di quel che dice l’articolo 1 della
Dichiarazione (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e
diritto”). Da queste premesse chiediamoci: è possibile sostenere diritti validi
per ciascun individuo universalmente anche in presenza di identità collettive
differenti? Papa Benedetto XVI ci ammonisce che “non bisogna affidare i diritti
umani a mutevoli opinioni. Essi abbisognano di un fondamento stabile, non
relativo, non opinabile. Tale fondamento è la dignità della persona. Norberto
Bobbio ha sostenuto che il problema di fondo relativo a diritti umani è non
tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. Quello dei diritti
umani sarebbe, dunque, un problema non filosofico ma politico. Il premio Nobel
Amartya Sen sostiene che la natura dei diritti umani è essenzialmente morale.
Questo significa, a suo avviso, che la nozione di diritti umani è peculiarmente
universale. Il suo approccio si basa sull’idea che la rilevanza etica dei
diritti umani possa imporsi nella pratica se le si dà un riconoscimento sociale
di alto profilo. Sul reato di clandestinità il senatore Manconi lo definisce un
“presupposto perverso” che trasforma automaticamente l’immigrato in un
criminale. <<Un reato orribile che punisce non per ciò che si fa ma per ciò che
si è. Non per un delitto commesso, ma per una condizione di vita: migrante,
fuggiasco, povero>>.
L’alternativa, secondo Manconi, alla “catastrofe umanitaria” sia una sola: la
capacità di “governare il fenomeno”. Una capacità che deve essere
necessariamente “condivisa”. Di certo, venendo alla conclusione di queste note,
non dobbiamo concepire il mondo in termini di noi contro loro. Sarebbe questo un
mondo governato dall’instabilità.