E
questo cos’è? – è la domanda abituale di chi viene per la
prima volta a casa mia. Un appartamento di 80 mq che oggi non ha quasi
più spazio per me e per mia moglie, essendo divenuto feudo indiviso
di un potentissimo signore: Antonio, mio figlio, 2 anni e mezzo, quasi
tre, testardo … come me.
E
questo cos’è? – dicono immancabilmente gli ospiti davanti
alla parete del salotto-cucina: beh, quello è Luigi, rispondo quasi
sempre io; è un amico, l’anno scorso eravamo colleghi
all’Artistico e…

L’oggetto
misterioso, destinatario di sguardi increduli e obliqui, è un quadro
di 70 cm x 50, fatto di due soli colori, blu e bianco.
Appena
arrivato in casa si è posato sulla parete e se ne sta lì da oltre un
anno, con il suo terremoto di prospettive sbilenche; indifferente,
testardo anche lui.
Il
quadro rappresenta un paesaggio notturno visto da una finestra, che
appare significativamente come una sorta di croce centrale, un po’
allucinata, che sembra chiusa: ma cosa la chiudi a fare, una finestra
che non sta in piedi, che balla tra dentro e fuori, in bilico tra i
muri della tua stessa casa e l’universo intero? E poi: sarà chiusa
davvero? Oscilla libera. E’ sempre aperta, non si può chiuderla. In
nessun modo. Così l’ha voluta l’autore. Perché?
La
guardo meglio, a volte, quando la sera tardi interrogo il quadrante
postmoderno che è appeso qualche
centimetro più su per sapere che ora ho fatto: non è lei, la
finestra del quadro, ad accogliere l’esterno; sembra che sia la
realtà stessa ad entrare attraverso di lei, piccolo e fragile
diaframma; di forza, violenta, quasi non avesse nessun pudore, nessun
rispetto. Ma cosa mi arriva dentro casa da quel crocifisso rettangolo
di vetro?
E’
il caos del mondo, le sue rovine fumanti, il tracollo incessante, la
dissoluzione del linguaggio, la putrefazione dell’amore e della
conoscenza, la frana inarrestabile di ogni cosa. Lo sfacelo del mondo
non ha più bisogno di entrare dentro casa nostra, perché ce lo
ritroviamo addosso, e sono io, siamo noi quella finestra, quella
storta figura che ingombra i quadri di blu, azzurro intenso e bianco
accecante che Luigi va disponendo innumerevoli attorno a sé da anni,
come si fa con tizzi e fuochi per difendere l’accampamento
dall’assalto di branchi di lupi affamati sbucati dal buio che
circonda.
Via,
gli telefono, prendo e lo chiamo, il mio amico: ha solo il cellulare,
l’artista. Luigi di cognome fa Petrosino e da queste parti è
famoso, vende i suoi quadri, dipinge, insegna, lascia tracce della sua
presenza. L’accento campano strappa al saluto che mi risponde
all’altro capo del filo un tanto così di simpatia e risento
finalmente il compagno di scorribande tra luce e ombra con Caravaggio
al seguito, attardato, a incalzare.
Scritture
celesti: lui le chiama così, le sue tele ridotte all’osso
misterioso di due colori soli. E il loro nome mi piace, a me che sono
un letterato perso nella bambola infinita delle parole. La cornice
trabocca di ideogrammi, frasi e moncherini in lingue oscure, resti di
liste della spesa, sillabe assurde brulicanti in una vegetazione fitta
e invadente: è una profezia, una visione, ma più chiara di tanti
discorsi, di tante buone volontà, di tanti buoni progetti. Mi ricorda
chi sono, è un memento necessario per vivere sulla lama di
coltello della libertà che non meritiamo ma che riceviamo in dono,
noi, metà bestie, metà angeli. E’ un assillo, un grido infinito,
un’ansia che supplica risposta, una voce “destinata a durare oltre
ogni possibile fine”, diceva Pasolini. Gli uomini hanno, a volte,
eccessi divini, imprevedibili.
«Sai
che vado a esporre in America, a Manhattan?». Sì, ho visto i
manifesti a Termoli - gli dico - sono contento, complimenti. Dal 28
febbraio al 4 marzo in riva al nulla di cenere e vuoto di Ground Zero
i quadri di Luigi Petrosino hanno portato il loro grido, il loro
sbandato desiderio di perdono e di pace, non di tregua. Il mio amico
pittore è stato per alcuni giorni un brandello sventolante di Ragione
contro il silenzio della Distruzione e della Morte. Un pezzo di quella
battaglia pulsa e sferraglia anche sulla mia parete: ripete che non
siamo immuni, noi, che la lotta non è finita, che siamo in mezzo al
fuoco e alla polvere ovunque siamo. Che la vita ha bisogno di uno
scopo, e vuole che sia più grande del tempo che passa e del male che
resta, vuole che non muoia, che non taccia lontano e inarrivabile come
il cielo, ma risponda, si faccia vicino, come un familiare o un amico
che il cielo sappia contenerlo in uno sguardo chiaro.
Così
la mia casa, vorrei avesse sempre le finestre spalancate. Più grande,
mi dico, lo sarebbe davvero. Come nel quadro, che nel silenzio ripete,
contro la barbarie, miste d’azzurro, le povere parole umane.
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