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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 10/12/2014 ● Click 1977

Immigrazione, il nodo è l’integrazione: coniugare legalità e solidarietà


Pietro Di Tomaso © FUORI PORTA WEB

Ne accennavo in un precedente articolo (“Un immigrato italiano eletto sindaco del comune di Camden”) citando l’episodio che ha visto un esponente dei ‘Tories’ sollecitare gli elettori dicendo: non votatelo, non è inglese! Detto ciò, il nodo è l’integrazione, come in Italia, in Gran Bretagna, in Olanda, in Germania. Da noi si discute solo in termini di permessi di soggiorno, di regolarizzazione e non di integrazione culturale. Diciamo subito che nessuno dispone di ricette miracolose. “Noi siamo intrappolati in un dibattito arretrato facendo prevalere la tesi secondo cui non è necessario alcun modello di integrazione”. Come dire “sarà la società a integrare”, favorendo in tal modo “il mantenimento di identità collettive tra gli immigrati che sfociano in una sorta di auto separatismo culturale” (Renzo Guolo, sociologo, Europa quotidiano 17/01/2014). <<Il sospetto – secondo il professor Guolo - è che l’Italia non abbia mai elaborato un modello di integrazione culturale perché ha forti dubbi sulla propria identità, per cui si è limitata a una sorta di laisser faire anche in questo campo, lasciando che siano le interazioni societarie a produrre mutamento. Ma una simile via, presuppone tempi lunghissimi, che le esigenze sistemiche di governo delle società multiculturali non possono permettersi pena l’esplosione dei conflitti>>. La Francia ha adottato il modello ‘assimilazionista’ il cui obiettivo è assimilare l’immigrato alla cultura francese. I migranti debbono conformarsi quanto più possibile ad essa, mettendo in atto processi di cancellazione delle culture d’origine.

Il professor Giovanni Sartori, studioso attento e autorevole, si è posto il problema della ‘società aperta’ secondo la dizione popperiana, e si è chiesto: <<aperta a cosa, e fino a che punto? Può arrivare a includere, per esempio, una società multiculturale e multietnica basata sulla ‘cittadinanza differenziata’?... Per capire fino a che punto una società si può aprire, e quindi quando l’aperto diventa “troppo aperto”, dobbiamo individuare un codice genetico. E sosterrò che questo codice genetico della società aperta è il pluralismo>> (cfr. ‘Pluralismo, multiculturalismo e estranei : saggio sulla società multietnica’, editore Rizzoli). Per Giovanni Sartori la buona società è la società pluralistica fondata sulla tolleranza e sul riconoscimento del valore della diversità, con una precisazione : il multiculturalismo non è una estensione e prosecuzione del pluralismo, bensì la sua negazione. Il multiculturalismo non persegue una integrazione differenziata, ma una ‘disintegrazione’ multietnica. L’autore del libro sopra segnalato si chiede fino a che punto la società pluralista può accogliere “nemici culturali” che la rifiutano, senza dissolversi.“L’immigrante di cultura teocratica” pone problemi ben diversi rispetto all’immigrante che accetta la separazione tra politica e religione. Insomma, il modello ‘multiculturalista’ esalta l’identità originaria e non riesce a perseguire una integrazione differenziata; si formano, particolarmente nelle grandi città, i ghetti che producono isolamento e non interazione. Ciò posto, tutti gli Stati europei sono alle prese con la crisi del proprio modello di integrazione. <<L’irruzione di culture altre nello spazio sociale solleva, infatti, questioni enormi, tra le quali il concetto di cittadinanza, la laicità dello Stato, il pluralismo religioso… Il multiculturalismo mostra evidenti limiti perché amplifica la frammentazione sociale (…). Ma in crisi è anche il modello assimilazionista in quanto la laicità francese non permette alcun segno religioso nella sfera pubblica. Sono così proliferate comunità parallele, etniche o religiose che sono destinate a non incontrarsi mai>> (così Renzo Guolo). In linea di principio, le diverse culture devono incontrarsi perché sia possibile un comune ‘senso di appartenenza’.
Come evidenziano i ricercatori della “Fondazione Moressa” (fonte: La Repubblica, 1 dicembre 2014) in Italia <<laddove si riscontra una forte concentrazione in periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto>>. La stessa Fondazione ci informa che i migranti producono il 5,6 per cento del Pil italiano. Si confronti, altresì, l’articolo di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 12 novembre 2014): <<Nell’attuale contesto di crisi economica, uno degli argomenti al centro del dibattito sull’immigrazione riguarda il rapporto tra costi e benefici per l’Italia della presenza straniera. Mettendo a confronto entrate ed uscite, emerge come il saldo finale nazionale sia in attivo di 3,9 miliardi di euro…>>.

Il lato problematico del multiculturalismo lo abbiamo sopra tratteggiato a grandi linee. Chi scrive queste note privilegia l’interculturalità <<intesa non come indifferenza etica, ma come efficace rimedio all’incrocio tra diverse culture potenzialmente conflittuali>> (Giacomo Marramao, professore di Filosofia all’Università Roma Tre). L’intercultura aderisce maggiormente all’essenza stessa delle culture e delle identità <<che si forgiano e si nutrono dentro un incessante processo di apertura, di acquisizioni, di alienazioni e di contaminazioni (…) Se assumiamo la prospettiva dell’intercultura, il contesto urbano diventa un vero e proprio laboratorio della nostra contemporaneità. L’impegno primario della politica è quello di evitare la formazione dei ghetti ed operare per ricondurre ad armonica ricomposizione interessi divergenti e segmenti identitari potenzialmente conflittuali >> (Jean Léonard Touadì, Università di Roma “Tor Vergata”). Ad avviso di Aluisi Tosolini (Dirigente scolastico, Liceo delle Scienze Sociali di Parma) <<una città interculturale è un progetto che gioca la propria fattibilità nella capacità delle istituzioni di mettere in atto sia percorsi di formazione in senso classico e specifico, sia eventi, situazioni, percorsi di vita reale che facilitino l’assunzione di consapevolezza e la diretta esperienza dell’alterità e delle modalità di relazioni tra alterità. Tra i momenti specifici vanno certamente considerate le proposte di formazione-aggiornamento che devono coinvolgere tutti gli operatori (dal vigile urbano all’addetto allo sportello all’anagrafe, dal centralinista all’insegnante, dal giudice all’assistente sociale, dall’infermiere al dirigente dell’assessorato all’urbanistica) al fine di assumere, in quanto istituzioni, le dinamiche della relazione interculturale>>. La scuola rappresenta il luogo centrale per la costruzione e la condivisione di regole comuni. L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione e il rafforzamento di comunità etniche chiuse. L’Italia non ha ancora impresso un carattere definito al suo modello d’integrazione; tuttavia le normative in merito all’accoglienza degli alunni stranieri prevedono un’impostazione improntata ad un ascolto attivo e interculturale. La pedagogia del dialogo, del riconoscimento delle culture e degli individui. L’attuazione del processo d’integrazione è la vera sfida della società odierna; occorre mettere insieme legalità e solidarietà. Nella società i valori di solidarietà e legalità sono intrinsecamente legati perché la solidarietà non può che nascere da un corretto esercizio della legalità. La scuola trasmette contenuti e insegnamenti che educano alla legalità, tenendo come guida la Costituzione della Repubblica Italiana (la “Legge fondamentale”), cioè la base della nostra convivenza civile,”e come tale – sottolinea il professor Valerio Onida – richiede ‘osservanza’ e ‘fedeltà’ da parte di ‘tutti i cittadini’ : vecchi e giovani, del nord e del sud, di destra e di sinistra, benestanti e poveri, occupati e disoccupati, italiani di nascita e nuovi italiani, compresi coloro che qui vivono e lavorano, e non sono ancora ‘cittadini’ a pieno titolo per il diritto, perché non l’hanno chiesto o perché l’hanno chiesto e possono diventarlo, ma le lungaggini e talvolta la sorda resistenza degli apparati non glielo hanno ancora consentito…”. Mi piace qui segnalare la legge regionale della Liguria (l. 7 / 2007) contenente norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati. Riferisco solo le linee principali ivi previste: una Consulta regionale per l’integrazione dei cittadini stranieri immigrati; interventi di assistenza e di prima accoglienza per coloro che versano in situazione di bisogno; servizi di mediazione linguistico-culturale; facilitazioni per l’apprendimento della lingua italiana; contributi per la gestione di centri di aggregazione; iniziative dirette a favorire il dialogo interreligioso tra la comunità locale e i cittadini stranieri immigrati; scambi interculturali e iniziative di incontro, interventi di mediazione socio-culturale; politiche abitative attraverso la predisposizione di centri di accoglienza e alloggi sociali collettivi; accesso da parte dei cittadini stranieri immigrati regolarmente soggiornanti sul territorio regionale agli alloggi in proprietà o in locazione e agli alloggi di edilizia residenziale pubblica in condizioni di parità con i cittadini italiani; servizi sanitari anche per gli stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno sono assicurate le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali per malattie e infortunio. “Scopo della legge è anche valorizzare la consapevolezza dei diritti e dei doveri connessi alla condizione di cittadino straniero immigrato”.

Nella società globale in cui viviamo le diseguaglianze si sono accresciute in misura notevole e questa situazione ha reso le migrazioni un fenomeno dominante. Milioni di persone vorranno trasferirsi da Paesi in preda alla miseria verso luoghi più ricchi. L’Europa vedrà una mescolanza di etnie che in parte già c’è ma il livello è destinato a crescere in misura considerevole. <<E qui entra in gioco – sottolinea Eugenio Scalfari su Repubblica (23 novembre) –, tra i vari fattori, anche quello religioso come elemento di ulteriore scontro tra le etnie migratorie da un lato e come elemento potenzialmente positivo di fraternità dall’altro. Papa Francesco predica la fraternità tra le religioni perché Dio è ecumenico ed è lo stesso per tutti, non è cristiano, non è musulmano, non è asiatico: è Dio per tutti. “Noi cattolici – ha detto più volte – parliamo tutte le lingue del mondo, cioè cerchiamo di capire gli altri e di amarli perché questo è il solo modo di amare Dio. Si chiama ‘agape’”. Ecco, ‘l’agape’ è uno dei modi per sconfiggere la povertà e render pacifiche le migrazioni di massa>>. La Chiesa ha un ruolo prezioso nell’accoglienza degli immigrati. Papa Francesco ha ricordato di recente che “i Paesi che accolgono traggono vantaggio dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale, non di rado limitando anche i vuoti creati dalla crisi demografica”. Certo, il Papa non ha nascosto le difficoltà legate alla questione immigrati: “Nelle Nazioni che li accolgono, di riflesso, vediamo difficoltà d’inserimento in tessuti urbani già problematici, come pure difficoltà di integrazione e di rispetto delle convenzioni sociali e culturali che vi trovano” (Città del Vaticano, 21 novembre, AdnKronos).

La notizia recente (fonte: Repubblica Online, 9 dicembre 2014) è questa: Istat“Boom di Italiani che lasciano il Paese. E gli immigrati tornano a casa”. I dati Istat sottolineano che “l’Italia torna ad essere una nazione di emigranti (nel 2013 il 20,7 per cento in più rispetto all’anno prima), che preferiscono spostarsi nel Regno Unito, in Germania, in Svizzera e in Francia, e attira un numero sempre minore di stranieri (…) Le migrazioni da e per l’estero di cittadini italiani con più di 24 anni di età (pari a 20mila iscrizioni e 62mila cancellazioni) riguardano per oltre il 30 per cento del totale individui in possesso di laurea. La meta preferita dei laureati è il Regno Unito”.


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