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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 23/10/2014 ● Click 1368

Leader plebiscitario, populismo e il Partito della Leopolda


Pietro Di Tomaso © FUORI PORTA WEB

Il professor Diamanti chiama il Partito democratico ‘Partito di Renzi’. Sulla natura del Pd Eugenio Scalfari dice che ormai siamo in presenza di un partito liquido, basato non sui militanti ma sul popolo e sono tre i partiti o movimenti di questa natura: il Pd guidato da Renzi, Forza Italia guidata da Berlusconi e i 5 Stelle guidati da Grillo. “Tre partiti populisti”. <<In realtà – aggiunge il fondatore di Repubblica – Renzi ha creato un nuovo partito il quale in sede europea aderisce ai socialisti ma poi va molto d’accordo sia con Hollande che certamente socialista è sia con Cameron che è un conservatore della più schietta specie. Il partito Pd prende anche molti voti dalla destra berlusconiana o da quegli astenuti che votarono l’ultima volta per Forza Italia e questa volta hanno preferito Renzi. (…) Ripeto: è un piccolo capolavoro ma la natura del partito è completamente cambiata>>. Di certo, su tale cambiamento ha contribuito notevolmente l’attrazione popolare del leader plebiscitario e la martellante retorica di Renzi contro i partiti, incluso il suo.

Seconda questione. Il Populismo sarebbe un’uscita dalla democrazia costituzionale? Proviamo a dare una risposta partendo dall’incipit di un articolo di Nadia Urbinati dal titolo “Il populismo come confine estremo della democrazia rappresentativa”. << Il populismo è un concetto molto impreciso, usato per descrivere situazioni politiche diverse tra loro e movimenti politici che perseguono obiettivi diversi, per esempio forme di partecipazione spontanea o partiti organizzati al fine di conquistare la maggioranza di un parlamento democratico. Per alcuni esso mette a rischio le democrazie costituite, per altri esso inaugura nuove possibilità per la democrazia. Siccome il populismo è critico della democrazia costituzionale e rappresentativa, mettere in conto che potrebbe operare in modo non legittimo è quanto meno doveroso. (…) Il populismo è altra cosa della partecipazione democratica nelle forme e nelle procedure stabilite da una costituzione: libere elezioni a suffragio universale con voto segreto per eleggere rappresentanti, libertà di stampa, parole e associazione al fine di partecipare alla costruzione di opzioni politiche, conta dei voti secondo regola di maggioranza e quindi riconoscimento della minoranza (opposizione) come essenziale al gioco democratico (che non è né unanimità né consenso senza libera espressione del dissenso, di qualunque dissenso anche su questioni che la maggioranza ritiene buone e giuste)… In conclusione, possiamo dire che o il populismo non è altro che un movimento politico popolare, sacrosanto movimento di protesta (Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli), per cui non è chiaro perché chiamarlo populismo; oppure è più di un movimento (John McCormick) e in effetti una estrema tensione della democrazia rappresentativa verso una soluzione che rischia un’uscita dall’ordine costituzionale. Quando il populismo diventa potere di governo si corre il rischio di un’uscita dalla democrazia e dall’ordine costituzionale. Il populismo mette a rischio l’uguaglianza formale che le regole costituzionali hanno il compito di proteggere>> (Nadia Urbinati: Professor of Political Theory, Columbia University. Una sua recente monografia, Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e libertà, 2014).
Personalmente concordo con la tesi di Nadia Urbinati, secondo cui i populismi contemporanei tendano a sostituire la mediazione politica tipica delle democrazie rappresentative con l’unanimismo popolare, con capi-popolo al seguito, un unanimismo che cerca nella rete le soluzioni ai problemi della gente. Concordo altresì sul fatto che il populismo “sfigura” la democrazia in quanto spinge verso ‘polarizzazioni esclusivistiche’, soluzioni leaderistiche e plebiscitarie e, si noti bene, la negazione del dissenso.

Terza questione: Il Partito della Leopolda (PdL), ovvero la voglia di catturare il consenso ovunque, senza limiti e confine (diventare il Partito della nazione). Nelle intenzioni dei suoi sostenitori sembra caratterizzarsi in primo luogo con una vocazione maggioritaria accogliendo tutti coloro che desiderano aderirvi, con ‘pochissimi distinguo ideologici’. <<Probabilmente – scrive su Repubblica Nadia Urbinati – è una strategia per sostituire la compartecipazione al conflittualismo portando dentro il partito i protagonisti (i piccoli partiti) di ipotetiche coalizioni. Ne guadagnerebbe la stabilità perché i piccoli non avrebbero più il potere di veto sulla coalizione. Ma è illusorio pensare che verrà superata la competizione inglobando i potenziali alleati. Poiché quella lotta.. può travasarsi all’interno del partito (…). I gruppi inclusi avranno un potere di attrattiva non meno piccolo, un po’ come le correnti nei vecchi partiti. Sembra di capire che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano… i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (…). Il superamento ideologico predicato dal nuovo Pd sembra essere più radicalmente anti-partigiano e per questo propenso ad andare in un’altra direzione: verso il depotenziamento dell’antagonismo e con una forte propensione che potremmo dire cattolica, nel senso di essere inclusiva al massimo e totalizzante, anche a costo di diventare meticcia. E’ questo aspetto che fa temere che il Partito della Leopolda coltivi il sogno di diventare il tutto, di non essere solo un partito piglia-tutto>>. Una inclusione totalizzante, dunque. Ma, come dice Gianni Cuperlo, <<se spezzi il legame tra bisogni e consenso rischi di fondare il potere su una trasversalità senz’anima>>, con l’aggravante di non porre attenzione al tema del secolo che torna con prepotenza, “quello di nuove uguaglianze e libertà”. Insomma, concretezza sì ma non perdere la bussola.


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