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Pubblicato in data 6/9/2014 ● Click 4305

"La Chiesa locale nel Settecento: appunti di vita materiale a Guglionesi" [I parte]


Sergio Sorella © FUORI PORTA WEB

LA CHIESA LOCALE NEL SETTECENTO: APPUNTI DI VITA MATERIALE A GUGLIONESI
di Sergio Sorella

[I parte] - Anche a Guglionesi la storia locale negli anni si è arricchita di contributi che aggiungono tasselli preziosi al mosaico sullo studio del passato. Numerosi studiosi, con il loro lavoro, spesso da neofiti volenterosi e con la proverbiale pazienza certosina, stanno gettando i semi per una proficua ricostruzione storiografica. Mancano ancora contributi sistematici che riescano ad essere riferimenti utili per analisi di lungo periodo. Ma il lavoro è a buon punto.
In questo filone vorremmo inserire un altro elemento di riflessione. Si tratta di appunti sulle condizioni di vita materiale del clero e sul ruolo che la chiesa di Guglionesi ha avuto nel Settecento.
La storia della chiesa locale è cadenzata da uomini che hanno lasciato un segno della loro azione pastorale. Per Guglionesi partiamo dal vescovo Cesare Ferranzio1. Egli vi risiedeva abitualmente; fu uomo di lettere e teologo conosciuto, partecipò al Concilio di Trento pronunciando una Oratione che pubblicò a Brescia nel 1562; prese parte all’XI Concilio provinciale della regione beneventana; fondò, nel 1585, a Guglionesi, dove risiedeva abitualmente, un luogo in cui venivano istruiti i chierici cercando, in tal modo, di adempiere ai dettati tridentini2. Fu il primo vescovo della diocesi di Termoli a scrivere la relatio ad limina3. In essa ha lasciato una testimonianza dei problemi che il suo ministero comportava, nonché uno spaccato delle condizioni religiose e materiali esistenti nella diocesi. Da allora, le relationes ad limina furono compilate con una certa regolarità dai vescovi della diocesi. Si tratta di strumenti utili allo studio della realtà diocesana sia dal punto di vista sociale che religioso.
A descrivere l’incontro avuto con il vescovo Ferranzio, fu il domenicano Serafino Razzi, il quale alcuni anni prima, il 18 febbraio del 1577, era andato dal vescovo per ricevere da questi l’autorizzazione e la benedizione per iniziare «le sacre predicazioni». Dopo averla ottenuta, tornò a Termoli ed alloggiò nell'episcopio. Il 20 febbraio 1577 avviò gli esercizi quaresimali4. Si ha testimonianza, dunque, di una permanenza, che sappiamo non occasionale, dei vescovi a Guglionesi. Ciò comportava delle conseguenze non solo sulla vita religiosa ma anche su quella civile della comunità.
Nel Seicento, anche dal punto di vista delle strutture ecclesiastiche, si ebbe un indubbio momento di decadenza; mancano i luoghi della fede, quelli esistenti avevano bisogno di risorse per essere ristrutturati che difettavano pur per le difficoltà economiche complessive in cui versava la città. Solo verso la fine del secolo, con il vescovo Michele Petirro, ci fu una ripresa devozionale; con il
suo energico episcopato rappresentò il momento di svolta nei rapporti tra vescovo e chiesa locale5. I luoghi del culto erano numerosi. Il vescovo Petirro nella relatio del 1693 ricorda che oltre alla chiesa si S. Maria Maggiore, vi era quella di S. Nicola, la chiesa di S. Donato, retta dal canonico primicerio, quella dei SS. Cosma e Damiano, la Chiesa di S, Michele, officiata dalla Congrega dei morti, quella del Rosario, di S. Antonio abate con annesso ospizio per i pellegrini, la chiesa di S. Chiara, un tempo dei canonici lateranensi. Tra le chiese extra moenia vi erano: il monastero dei Celestini con la chiesa dell’Annunziata, esente dalla giurisdizione dei vescovi, il convento dei Cappuccini, il convento dei Francescani che officiavano nella chiesa di S. Giovanni6. Un fermento religioso che aveva visto anche il sorgere di un seminario o comunque di un luogo nel quale venivano istruiti i chierici.

1. Statuti del Capitolo di S. Maria Maggiore
La chiesa meridionale nel primo Settecento si presenta con un accresciuto numero di chierici, con pratiche devozionali che richiamano tanti fedeli, con la costruzione di nuove chiese, la ristrutturazione di quelle vecchie, lo sviluppo delle confraternite e dei nuovi centri devozionali7. Fu Benedetto XIII, il Francesco Orsini che da arcivescovo di Benevento aveva imposto a tutti i capitoli di dotarsi di uno statuto nel concilio provinciale del 16938, a dare, negli anni venti, una sterzata all’organizzazione della chiesa9.
Le strutture in cui la chiesa si articolava a livello locale, erano espressione diretta della chiesa ricettizia10 in cui i sacerdoti risultavano usciti dai ranghi di coloro che, in misura maggiore o minore, appartenevano a famiglie proprietarie terriere. Il sacerdote membro del Capitolo aveva il ruolo di colui che celebrava la messa privatamente, titolare di cappellanie e di legati vitalizi senza ulteriori obblighi di cura. La cura delle anime e gli adempimenti ecclesiastici erano cadenzati dagli Statuti del Capitolo di S. Maria Maggiore e dai libri parrocchiali. Da essi traspare la ritualità nel periodo ed il rapporto coi i fedeli dei sacerdoti capitolari. Accanto al clero vi erano le confraternite, associazioni di carattere religioso, espressione di una realtà devozionale in continua evoluzione. Infine, gli ordini monastici esercitavano la loro funzione in maniera rilevante.
Dunque un elemento rilevante, già presente alla fine del Seicento, è la riorganizzazione della chiesa locale su basi gerarchicamente definite. Terminato il periodo buio del secondo Seicento, sulla spinta anche di una crescita demografica, si afferma gradualmente la diffusione capillare della presenza ecclesiastica che, avendo scalzato una certa invadenza monastica, recupera un ruolo egemone nel rapporto con la fede11. Gli aspetti devozionali trovarono una loro sistematizzazione negli Statuti del capitolo della chiesa; in essi si precisarono gli obblighi dei sacerdoti e la consistenza patrimoniale della chiesa locale. Particolarmente interessanti, per lo studio degli adempimenti religiosi e del rapporto con i fedeli, questi Statuti, a Guglionesi, furono redatti nel 171612. Essi ricordano le origini della chiesa ricettizia locale composta da 12 canonici.

L’arciprete era la prima dignità. La seconda era il primicerio. Poi c’erano il procuratore ed il decano il quale non aveva dignità ed uffici; gli altri erano semplici sacerdoti senza insegna. «L’Elezione dè quali da tempo immemorabile è stata ed è del Capitolo»13.
I compiti dell’arciprete erano così sintetizzati: «A lui spetta la cura delle anime e l’amministrazione dei sacramenti, la tenuta dei libri parrocchiali, le chiavi dell’Archivio dove si conservano le scritture del Capitolo e della chiesa». A lui competevano i proventi della stola. Il 25 aprile, il giorno di S. Marco, doveva procedere alla benedizione delle campagne, doveva celebrare messa nei giorni in cui c’erano le processioni e le festività, quali: l’Epifania: «nella Purificazione della B.V. ai 2 di febbrajio (…) benedizione di Candele, processione e messe», le Ceneri, le Palme, la settimana Santa con processione il giovedì, l’Ascensione con processione e messa, il giorno del Corpo di Cristo, «primo e secondo Vespero, Officio processione e messa nel giorno dell’Ascensione della Beata Vergine à 15 officio e messa con processione, tutti i Santi, i morti e a Natale con messa cantata la notte»14. Inoltre l’arciprete aveva l’obbligo di officiare settimanalmente nelle varie chiese del paese, aveva la presidenza del coro, stabiliva l’ora delle processioni e dava la licenza per suonare le campane per la morte di «qualcheduno forestiero o cittadino seguita fuori della Patria»15.

Il primicerio sedeva nella prima sedia a sinistra del coro. Le sue funzioni erano quelle di far osservare le regole nella celebrazione degli uffici divini affinché «regnasse il buon ordine nel salmeggiare» ed era responsabile di tutto il rituale religioso, sia in chiesa che durante le processioni; doveva organizzare, con la dovuta solennità, le messe cantate; deteneva la custodia delle reliquie ed una copia della chiave dell’archivio. Il suo era un compito rivolto soprattutto agli aspetti organizzativi della vita dei sacerdoti, con funzioni specifiche ed autonome. Era coadiuvato da un maestro di cerimonie eletto dal capitolo ogni anno il primo novembre. Organizzava i riti religiosi, attribuiva compiti ai chierici durante le messe cantate. Distribuiva «gli assi del baldacchino durante le processioni al Governatore e uomini del governo che si trovavano in chiesa»16.
Gli uffici di pietà dovuti dai sacerdoti erano così ripartiti: se qualche prete era infermo «tutti li preti del capitolo con la cotta debbono andare accompagnare il SS.mo e l’estrema unzione». Al prete infermo venivano date, anche anticipatamente, le rendite spettanti e quando moriva l’evento veniva annunciato con suoni di campane più prolungati degli altri.

Il procuratore era eletto dal Capitolo per gestire la proprietà ecclesiastica e della sua amministrazione doveva rendere conto al vescovo. Inoltre venivano eletti: il procuratore di S. Antonio abate che amministrava le rendite di quella chiesa e dell’ospedale annesso ed il sagrestano. La parte degli Statuti dedicata allo stato delle rendite ed alla loro divisione, con relativa distribuzione tra i capitolari, è molto dettagliata. La somma totale (detratta delle provvigioni spettanti ai sagrestani delle chiese di S. Maria Maggiore, di S. Pietro e di S. Giovanni) veniva divisa a metà: una parte al Capitolo e la restante alla chiesa ed al vescovo. In oltre vi era la riscossione della decima sul mosto: «Si esigge una salma per ogni trenta che, giusto il computo dell’anno passato (1714) 6.600 salme (…) In agli mezza carafa per imposta di decima e secondo il computo dell’anno passato sono imposte 440 che importano carafe 220».
Nel mese di luglio il procuratore del Capitolo e quello di S. Antonio abate calcolavano le decime del grano e dell’orzo spettanti ai preti e procedevano alla relativa divisione in parti eguali. Stessa divisione veniva fatta per i terraggi ricavati dalla semina dei terreni del Capitolo. Le colture prevalenti erano grano e fave. I proventi dell’orzo, essendo pochi, venivano usati per acquistare la legna per il fuoco «per la sagrestia in tempo d’inverno». In ottobre, dopo la vendemmia, il procuratore andava «misurando tutti i vini», annottando il numero delle botti di vino prodotto ed i proventi spettanti al Capitolo. Coloro che non pagavano -per diverse ragioni- la decima, si obbligavano comunque a versare due carlini ai sacerdoti. Per le decime dell’olio era compito del procuratore trascrivere «tutte le partite dell’ulive che vanno a macinare né trappeti».

Le entrate dei censi della massa comune maturavano il primo giorno di novembre, «li grani e decime dè terraggi alla fine di agosto. Li terraggi delle fave alla fine di giugno; il mosto delle decime alla fine di ottobre, l’oglio delle decime alla fine di dicembre»17. La prestazione delle decime rappresentava una tassa annuale che la popolazione era tenuta a versare alla chiesa sui prodotti della campagna. A Guglionesi ciò consisteva, a partire dal 1690, nel pagare quattordici misure a versure di grano, legumi ed altri generi aridi, «mezza carafa di olio per ogni imposta ed una soma di vino per ogni dieci»18.
L’elenco minuzioso delle decime spettanti al Capitolo rappresenta un documento prezioso; oltre ad essere parte del reddito dei preti, è anche un interessante contributo per lo studio dell’economia locale. Emergono i quantitativi di produzione, la redditività dei terreni, le colture praticate, i pesi a cui era soggetta la collettività. Ma attraverso la catalogazione attenta delle decime si poneva ordine ad una materia che spesso dava adito a contrasti, ma che, nell’ambito di un’economia di sussistenza, rappresentava un indispensabile mezzo di sostentamento del clero locale. Per cui tutte le entrate dovevano essere sottoposte ad un rigido controllo al fine di evitare esenzioni considerate indebite, peggio ancora soprusi, e porre fine agli inevitabili litigi. Sui censi percepiti il Capitolo doveva celebrare le messe corrispondenti, pertanto tutti gli importi venivano divisi e dunque niente restava in cassa.

Gli Statuti dedicano un certo spazio -poco in verità- agli Uffici divini. Si ricordava che «Tutti li dodici preti sono in obbligo quotidiano di cantare, o recitare li Divini Uffici secondo li tempi e le solennità e di assistere al Coro con la cotta durante li Divini Uffici». Coloro che mancavano erano soggetti alla puntatura 19 (sanzioni pecuniarie) ed alla perdita dei frutti spettanti per il periodo di assenza. Gli impegni quotidiani erano così riassunti: «il mattutino, le laudi, i vespri e la compieta». Le sanzioni per la mancata presenza era di un tornese. L’assenza dalla messa cantata costava cinque grana e l’astensione dalla processioni nei giorni dell’Ascensione, nei due di S. Adamo e dell’Assunzione, costava cinque grana per volta. L’assenza all’ufficio della notte di Natale ed a quello cantato dei morti costava rispettivamente, tre e due carlini. Il sagrestano aveva il compito di suonare la campanella del vespro mezz’ora prima della funzione religiosa prescritta. La disciplina del coro era espressamente organizzata unitamente ai giorni in cui si cantava la messa conventuale20 .
Ogni terza domenica del mese si faceva la processione del Venerabile intorno alla chiesa madre, subito dopo la messa cantata. Il Capitolo attribuiva molta importanza a questa ritualità, tanto che stabiliva specifici modi di comportarsi e pesanti sanzioni per chi non vi si atteneva scrupolosamente o, senza motivo, disertava l’impegno. Inoltre i sacerdoti erano invitati a tenere comportamenti consoni nelle processioni e nei funerali rispettando l’ordine e la gerarchia.
Le elezioni dell’arciprete e del procuratore avvenivano con voto segreto e con la maggioranza assoluta dei votanti. Il Capitolo si riuniva su richiesta del procuratore «o per dar denaro a censo o far contratti» alla fine della compieta. Nei casi urgenti anche al mattino, in sagrestia. Tutti potevano intervenire nelle discussioni, tranne su argomenti che riguardavano i parenti ed incorreva in peccato mortale chi riferiva all’esterno il parere di qualche prete21.
Una ritualità più ampia ed articolata riguardava l’elezione del sacerdote che avrebbe dovuto sostituire un capitolare deceduto22. Al suono della campana i sacerdoti convenivano in chiesa, entravano nella sagrestia cantando Veni Creator Spiritus , «acciocché nell’elezione da farsi ci assista lo Spirito Santo e si facci l’elezione di persona meritevole». La riunione iniziava con la lettura delle credenziali dei concorrenti e, con successivo voto segreto, si procedeva all’elezione di nuovo membro del Capitolo; se vi erano più concorrenti si votava per uno alla volta. La nomina comportava l’ingresso del sacerdote in sagrestia dove gli si dava la cotta, gli si attribuiva un posto nel coro, gli si poneva la berretta in capo. Il nuovo capitolare giurava, con una formula prefissata, di rispettare gli Statuti e tutti gli obblighi connessi all’esercizio delle sue funzioni. Infine tutti i sacerdoti cantavano il Te Deum. Il nuovo Canonico aveva l’obbligo di dare, per due anni, due paia di scarpe e sei tomoli di grano al sacrestano della chiesa e, in più, doveva fare quattro mesi di dieta percependo ugualmente le rendite spettanti. Far parte del Capitolo era un elemento di sicuro prestigio e di acquisizione di uno status religioso e sociale che garantiva una vita decorosa.

L’ultima parte degli Statuti riguarda il rito funebre23. In caso di morte di un sacerdote del Capitolo si celebrava la messa cantata con i relativi uffici. Ogni prete doveva celebrare tre messe in suffragio. Ai familiari del defunto spettavano l’onere della cera e delle quattro torce intorno alla bara durante la cerimonia funebre. Per tutti gli altri morti, con qualche eccezione per i chierici, era stabilito: «Quando si fa il semplice Ufficio della sepoltura, senza messa, sono li emolumenti quindici e libbre tre di cera bianca (…) Quanto si cantano tutti li notturni laudi e la messa, l’emolumenti sono venti e tre libbre di cera e la candela ad ogni prete che siede nella casa del defunto».
Veniva cadenzato il rapporto con la fede fatto di una ritualità codificata dall’osservanza di obblighi specifici e dettagliati. Emergono le regole di comportamento, le sfere di azione e di influenza del clero di Guglionesi. Gli Statuti capitolari risentivano del clima di un’epoca rigorista, nella quale risultava indispensabile stabilire una rigida disciplina tra i sacerdoti ed anche individuare gli ambiti nei quali inserire le funzioni religiose, con i suoi aspetti devozionali nonché chiarire il ruolo dei singoli religiosi in un contesto di rinnovamento sia disciplinare che morale. Il canonico puntatore aveva il compito di verificare il regolare comportamento dei partecipanti. Il vescovo era messo al corrente della situazione patrimoniale del Capitolo e poteva intervenire per risolvere eventuali controversie, pur non arrivando a incidere sulla nomina di ogni nuovo capitolare eletto e sui requisiti soggettivi che questi doveva possedere. La parrocchia assumeva, dunque, un ruolo sempre più rilevante, essa diventava la cellula fondamentale attorno alla quale ruotava la vita religiosa e sociale della comunità. Agli inizi del Settecento, in un contesto di generali trasformazioni, la chiesa patrimoniale si rafforzava ed, attraverso gli Statuti, delineava gli ambiti del proprio intervento e contribuiva, paradossalmente, con questo a riconoscere il potere vescovile che era stato in ombra fino a quel periodo.

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1 Fu vescovo di Termoli dal 1569 al 1593. Si veda sulla figura di questo vescovo: Luigi Sorella, Cesare Ferrante, dal Concilio di Trento a vescovo di Termoli in Guglionesi in http://www.ilmolise.net/new.asp?id=7567.
2 Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Cava dè Tirreni, 1915, p. 241. Tommaso Giannelli, Memorie, trascrizione e note di Michele De Gregorio, Di Rico, San Salvo, 1986, p. 73.
3 Scrive Cesare Ferranzio nella sua relatio ad limina del giugno 1592 (si riportano i passi, tradotti dal latino, più significativi): «Impedito dall’infermità non mi sono recato a Roma . Sono vescovo da 23 anni (dal 1569 n.d.r.) e ho vissuto di stenti; distrutta la cattedrale per l’invasione dei turchi, cerco di ricostruirla in parte con il denaro mio e in parte con i redditi della quarta parte delle decime.(...)Il campanile è distrutto come pure la canonica ed il coro dei chierici, ci sono: una grande icona dipinta con ottimi colori e indorata e un organo musicale messo da me insieme a tre pluviali ornati d’oro, calici d’argento indorati e due campane. Così ho procurato che si facesse a Montenero e il coro a Guglionesi nella chiesa di S. Maria Maggiore. (...)Ho fatto il Sinodo diocesano dove ho stabilito che si portassero le sacre reliquie con indossati i paramenti, ho tenuto prediche e tolto la citazione dei censori per lungo tempo inopportuna e incongrua, non ho dato la prebenda teologale perchè non c’è nessun teologo, nè esperto di diritto canonico. Non vi è nessun maestro penitenziario, nè vi è nessun esperto di diritto canonico nè di quarant’anni, nè ragazzo. Quindi non posso seguire le indicazioni del Concilio di Trento. Non ci sono nella diocesi semplici benefici che possono assicurare la prebenda (per questo l’arcidiaconato e il primicerio sono riunite nella stessa persona). Tutto è a carico del primicerio Giovanni Battista, depositario di queste pene. E’ proprio del vescovo di Termoli il Casale di S. Giacomo». Archivio segreto vaticano, Sacra congregazione del Concilio (da ora Asv –Scc), Relationes ad limina, Diocesis Thermularum, Ferranzio, 1592.
4 «Il Lunedì mattino à 18 sopra un cavallo accomodatoci da Messer Piero Biliotti fiorentino, che nel Vasto et in Termoli tien casa, cò un suo servitore andai a Guglianesi, Terra otto miglia lontana verso le montagne, ove si trovava il Vescovo, per visitarlo, et avere la sua benedizione, avanti ch’io dessi principio alle sacre predicazioni. Mi vide volentieri, mi diede desinare alla sua tavola, mi espose all’udienza delle confessioni; mi benedì, e diede lettere al suo fattore, et al Mestro giurato. E la sera stessa me ne ritornai a Termoli». Serafino Razzi, Viaggi in Abruzzo, Introduzione e note di Benedetto Carderi, O.P., D’Arcangelo, Pescara, 1968, p. 231.
5 Sulla figura di questo vescovo nel contesto diocesano si veda: S. Sorella, Chiesa e città: uomini, rapporti, istituzioni in C. Felice, A. Pasqualini, S. Sorella, Termoli, Storia di una città, Donzelli, Roma 2009, pp. 412-28.
6 Asv-Scc, Relationes ad limina, Michele Pitirro, 1693.
7 Claudio Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche(1675-1760) in Storia d’Italia Einaudi, annali 9, cit., pp. 738-739..
8 Archivio storico diocesi di Termoli (da ora AsdT), Capitolo Cattedrale, Atti ufficiali, b. 1 fasc. 4. Ordine ribadito nel II Concilio provinciale del 1698.
9 Nel Concilio romano del 1725, voluto da Benedetto II, si ribadì l’ordine ai vescovi di predicare nelle loro chiese ed inoltre «fu ordinata una stesura accurata di inventari dei beni ecclesiastici delle singole diocesi e la costituzione di ordinati archivi ecclesiastici(...), l’insegnamento della dottrina cristiana, il disciplinamento delle feste, l’erezione dei seminari». Claudio Donati, La Chiesa di Roma, cit., p. 740.
10 Sul tema della chiesa ricettizia di Guglionesi, sulle sue prerogative, sui contrasti e sui contrasti con i vescovi di Termoli si veda: S. Sorella, Il Capitolo della chiesa di Guglionesi ed i vescovi di Termoli: storia di un lungo contrasto (1690-1884), in http://www.ilmolise.net/new.asp?id=5593.
11 I passaggi di questo percorso stanno, inizialmente, nell’opera di adempimenti pastorali portata avanti dal vescovo Petirro il quale curò che fossero compilati gli Statuti capitolari secondo le disposizioni del concilio provinciale tenuto dal cardinale Orsini a Benevento nel 1693, ribadite nel II° concilio provinciale del 1698 ; il clero locale rispose a quest’ordine solo il 23 febbraio 1716.
12 Archivio Parrocchiale di Guglionesi (da ora ApG), Statuti del Capitolo di Santa Maria maggiore, 1716, il documento è composto di 71 pagine, diviso in 20 capitoli. Mancano le due pagine iniziali, Nelle prime pagine vengono riepilogate le figure di spicco che hanno costituito il Capitolo tanto che «quasi tutti i vescovi di Termoli l’hanno onorevolmente favorito colla loro continua residenza, come chiara testimonianza ne fanno le lapidi sepolcrali e li cappelli di essi Prelati che sino al numero di dodici pendono da essa Chiesa». Ibidem, p. 4.
13 Ibid., p. 7.
14 Ibid., pp. 10-13.
15 Ibid. , p. 15.
16 Ibid., p. 19.
17 Ibid., Della divisione e distribuzione delle rendite, pp. 30-38.
18 Ibid., B. 17, f. 27. Ciò durò fino al 1794. Infatti l’anno dopo, fu stipulato un Istrumento nel quale si stabiliva l’abolizione di tutte le decime ad eccezione di quelle riguardanti il grano con una riduzione da 14 a 10 misure a versusa. ApG, B. 14, f. 1.
19 Il Capitolo eleggeva un puntatore che scriveva su un libro tutte assenze dei sacerdoti annotando le eventuali cause di giustificazione.
20 Ibid., Capitolo XI. Delli divini Uffici. Anche per le citazioni successive.
21 Ibid., Capitolo XVI, Delle adunanze del Capitolo, cit. pp.58-60.
22 Ibid., Capitolo XIX, Dell’elezione dè preti Capitolari , cit., pp. 64-65, anche per le citazioni successive.
23 Ibid., Capitolo ultimo, Delli funerali ed esequie, cit., pp. 67-69, anche per le citazioni successive.


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