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CulturaTermoli
Pubblicato in data 25/6/2014 ● Click 1361

Prima il "nostro", poi il "tuo", poi il "mio"


Gianfranco De Luca © FUORI PORTA WEB

La Solennità del Corpus Domini ci ha rimessi nella nostra vera identità-vocazione di Popolo che adora il Signore e cammina insieme con Lui tra la gente della nostra terra molisana.

E’ in questa identità-vocazione che siamo invitati a “rimanere” per compiere la nostra missione di Chiesa in uscita sulle strade del mondo. La figura di Geremia che ci viene presentata dalla prima della lettura ben ci rappresenta il senso della chiamata di Dio per una missione: “ti ho consacrato;
 ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Ogni battezzato è unto-consacrato-scelto per annunciare-testimoniare alle nazioni il grande mistero di Dio, l’unico Signore, Padre di Tutti… “Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò 
e dirai tutto quello che io ti ordinerò”.

L’immagine del Popolo che adora il Signore presente nella propria vita e cammina con Lui nella storia degli uomini, è ben espressa nella categoria della Sinodalità, che significa proprio camminare insieme, fare insieme la stessa strada verso l’unica meta, “la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”, come ci ricorda oggi San Pietro.

La sinodalità dice che la Chiesa, come Popolo di Dio, è sempre in cammino sulla “via” che è Cristo Signore. “io sono la via… io sono la porta…”, porta sempre aperta. Racconta di una Chiesa che è in continuo “esodo” e mai arrivata, sempre nella ricerca e sempre nel rischio, (vi mando come agnelli in mezzo ai lupi.. non portate con voi né bisaccia…), che non ha altre sicurezze che nella Presenza del suo Signore e nel Vangelo.Dice Dio a Geremia: “Non aver paura di fronte a loro, 
perché io sono con te per proteggerti”.La Parola di Dio continuamente ci interpella e ci chiama continuamente ad abitare la terra, la vita degli uomini, in quella dinamica del “già” che sperimenta grazie alla vita di comunione e fraternità che celebra nel Mistero, e il “non ancora” della Gerusalemme celeste dove Dio sarà tutto in tutti.

Ce lo siamo detti più volte: l’aver celebrato il Sinodo ha rimesso a fuoco nella nostra vita e nella nostra prassi la necessità di essere Sinodo: camminare insieme con Gesù e tra noi sulla via che è Gesù stesso. Si tratta di un cammino “pericoretico”, grazie al quale ognuno è se stesso e nello stesso tempo esprime il noi-Chiesa, in una dinamica circolarità che dice compresenza amorevole, inabitazione dell’uno nell’altro e di ciascuno in tutti.

Grazie all’esperienza vissuta nel Sinodo è la stessa prospettiva del nostro essere e vivere come chiesa che è cambiata: abbiamo imparato a guardare noi stessi e le singole realtà a partire dalla diocesi, prima che guardare la diocesi a partire da sé e dalle realtà locali. Questa è la svolta che va sempre riconquistata e vissuta nella quotidianità della nostra azione pastorale. Dopo aver fatto-Sinodo bisogna essere-Sinodo. E’ l’intera prassi della nostra chiesa che deve scaturite da un’anima-comunione che abbracci ogni pensiero e ogni iniziativa. Questo può accadere se operiamo continuamente tre sinodalizzazioni:

1. -quella del pensare,

2. -quella del cuore e

3. -quella dell’impegno ad animare con il Vangelo la terra che abitiamo.

· -Innanzitutto occorre apprendere sempre meglio ed esercitare l’arte di valutare e progettare al plurale, partendo dal noi-chiesa, secondo lo stile del discernimento comunitario.

· -In secondo luogo bisogna imparare ad amare con tutto il cuore tutta intera la chiesa diocesana e ogni sua parte. La prima attenzione da dare al nostro apostolato è quella di essere-chiesa, sempre e in tutto, perché solo così porteremo i frutti-della-chiesa.

· -Solo così, infine, potremo svolgere la conseguente funzione di lievito e fermento di coesione all’interno della società civile nella quale viviamo.



In questi tre passaggi viene indicato un itinerario concreto per rifare il tessuto cristiano delle nostre comunità ecclesiali perché siano sale e luce nel e per il mondo.

Proprio su questo ci focalizza papa Francesco quando nella Evangelii Gaudium scrive: “Abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali, «luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali».

Sappiamo anche, per esperienza, che sono diversi i virus che possono aggredire e svuotare questa identità-vocazione. Essi possono agire grazie a una cellula che li ospita e ne permette l’azione. Si tratta di “particelle” parassitarie, non vivono per gli altri, ma degli altri, non servono, ma asserviscono al loro scopo. Proprio per questo bloccano un processo o lo accelerano verso la decomposizione, e se non combattuti adeguatamente, producono la morte.

Un primo ceppo di virusè quello che porta a un ripiegamento su se stessi, alla conseguente sterilità e chiusura, e si caratterizza per una triplice derivazione: il rimpianto del passato, il pessimismo negativo che aggredisce con la critica tutto quello che accade e viene proposto, e l’autoglorificazione legata agli eventi e alle conseguenti emozioni che suscitano, senza alcun legame con il quotidiano e la ferialità della vita.

Una secondo ceppoè quello formato dall’individualismo e da quella che papa Francesco chiama la mondanità spirituale. Le conseguenze sono ben descritte nella Evangelii Gaudium: “si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con la stessa pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa”. (…) In tutti i casi, è priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e risuscitato, si rinchiude in gruppi di élite, non va realmente in cerca dei lontani né delle immense moltitudini assetate di Cristo. Non c’è più fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico.(…) Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele.Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza.” (95-97 passim)

Un terzo ceppo è formato dalla pigrizia, dal quieto vivere, dalla deresponsabilizzazione (tocca al vescovo, tocca al prete, tocca a loro… mai sentirsi coinvolti e quando lo siamo: secondo le nostre misure) e dalla indecisione che porta alla deresponsabilizzazione e spegne la partecipazione e la corresponsabilità e lascia che tutto scorra come sempre.

Un quarto ceppoè quello che suscita concorrenze e divisioni tra noi: è il virus più potente e per questo più resistente, ma è quello che nasconde la luce posta sul monte e rende insipido il sale che deve dar sapore. Che rende evanescente e insignificante il nostro essere Popolo di Dio.

L’antidoto a tutto questo è il vivere quello che siamo, Chiesa sinodale, Popolo di Dio in cammino, che si assume tutti i rischi del cammino ma nel rispetto di una successione ben precisa nell’attribuzione della precedenza nella scala dei valori ecclesiali: prima il “nostro”, poi il “tuo”, poi il “mio”: il mio trova nel tuo e ancor più nel nostro la sua ragione, il suo posto. E’ così che privilegiando e attuando il “nostro”, nel “mio” riverbera e si convoglia una forza evangelizzatrice che non potrei mai attivare se rimanessi dentro l’angusto margine delle mie capacità, nel mio arrogante individualismo e consumismo spirituale. Il mio non è umiliato, ma è favorita la crescita piena e ben armonizzata del singolo e della comunità, del carisma personale in vista dell’utilità comune: nel noi-Chiesa ogni carisma particolare è riconosciuto, rispettato e apprezzato, perché ogni singolo carisma è per il noi ecclesiale, al di fuori del quale è infecondo e muore.

Ancora san Pietro nella seconda lettura ci ricorda che i profeti “non per se stessi, ma per voi erano servitori”, così noi oggi accogliamo il vangelo per offrirlo al mondo. Come Giovanni ciascuno di noi è chiamato “per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto”.

Carissimi,solo l’Eucaristia ci rende capaci di tessere la comunione tra noi: infatti, diventando partecipi del Signore, noi viviamo non solo gli uni con gli altri e gli uni per gli altri, ma siamo davvero gli uni-degli-altri (perchè ci apparteniamo reciprocamente) e gli uni–negli–altri (perché ciascuno porta con sé tutti, anche quando agisce in prima persona). Per questo nell’economia della salvezza, nessuno può diventare se stesso da solo.


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