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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 14/4/2014 ● Click 1437

Poveri ma belli


Mario Vaccaro © FUORI PORTA WEB

Già, come nel film di D.Risi: Oscar a "La grande bellezza" e Fazio - da gran paraculo - fa un Festival a tema, in cui Crozza interviene con un monologo "liberamente ispirato" al Benigni invitato al Parlamento europeo. Entrambe testimonianze del genio italico, sì ... dei nostri avi, però. Da un lato il monologo ad evidenziare la nostrana provenienza d'un gran numero di tessere di quel puzzle che è la civiltà odierna, Sorrentino invece opera un impietoso contrasto tra il disperante nichilismo di questa e le operose società dei nostri avi, fratelli maggiori da cui tanto avremmo da imparare.

Tema del film a parte, mi solletica il ritorno della Bellezza sotto i riflettori dopo i tempi de conlaculturanonsimangia. Pur volendo ignorare di Tremonti l'ignoranza, bisogna però ammettere che noi italiani soffriamo d'una congenita bulimia di fronte a quell'invitante cibo che è il Bello, ci sentiamo come ospiti di Pantagruel anziché - ché così dovremmo - come Pinocchio nel Paese dei Balocchi. Già, talmente immersi in Esso da non farVi più caso. E la considerazione, badate, ha una pezza d'appoggio quasi-scientifica. Un altro film nostrano ha reso nota ai più quell'affezione psicosomatica denominata "sindrome di Stendhal", dalla quale noi italiani, appunto, siamo immuni. Sarà perché è elemento del nostro habitat il Bello, miscelato con l'aria che respiriamo? Ma sì, siamo come quei sex-symbol che, avvezzi a veder cadere donne ai propri piedi, abbandonano quel vezzo - poco elegante eppur genuino - di voltarsi istintivamente al passaggio d'una bella fanciulla (col fischio o senza? ... si chiederebbe Pierino).

Qualora l'infrazione restasse confinata nell'ambito della liturgia del gallismo, poco male; se invece la nota - stonata - di folclore si tramutasse in disaffezione amorosa, nel distacco da quel sentimento che è evocazione del divino, la spiritualità tutta d'un popolo rischierebbe l'evanescenza. E sì, perché l'attrazione che istintivamente proviamo nei confronti del Bello proprio su tale ricerca si fonda, è odore di divinità quel che percepiamo di fronte ad un bel viso o, a rischio di svenire, quando si è sovrastati dalla Cappella Sistina. Guai se un popolo si mostrasse insensibile all'arte e alla cultura, patirebbe le stesse conseguenze dell'individuo affetto da atarassia, incapace di declinare passioni. E' interessante notare invece come il sano stupore a cui la Bellezza induce richiami per affinità l'estasi, l'essere fuori da sé, in congiunzione col Divino. E l'affinità s'estende alla forma, ovvero al linguaggio ... si pensi all'assonanza tra gli aggettivi estetico-estatico (le Muse ad evocare l'uno, la Grazia l'altro). E se in genere tutti mostriamo di possedere un'innata propensione ad individuare il Bello, v'è una sottospecie di uomini che per tale indagine mostra d'avere una spiccata attitudine, una sorta di superpotere: riescono a scovarLo nei posti più impensati e ... magia! ... sono a conoscenza di segrete alchimie per crearLo, in aperta concorrenza col Divino.

La prerogativa dell'artista (in realtà in ogni uomo se ne nasconde uno ... chi cerca trova) è il possesso del cd "dominio estetico", quel quid che occorre per far emergere forza e conoscenza da vertigine e confusione ingenerate dall'incontro con la Bellezza. La sua ricerca del Bello si sostanzia nel tentativo, con un gesto, di materializzare la forma divina, dunque è il segno di Dio sulla materia. Insomma, un'opera può dirsi "d'arte" quando appare credibile che, tra i possibili autori, Dio sia tra i papabili. E' bene tuttavia precisare che la Bellezza è appannaggio dell'anima, qualcosa di irraggiungibile nella sfera materiale, è intuizione spirituale a cui il corpo può solo aspirare quale ideale. E val la pena altresì di emanciparsi dal luogo comune - quindi dall'interpretazione superficiale - che la dipinge come qualcosa di attinente la forma anziché il contenuto: la Bellezza è vita ideale, armonia, è l'attributo di ogni ideale ... l'onestà, l'amore, la bontà sono Bellezza.

Tornando al premio Oscar, un famoso critico ha così commentato: "Roma è la Grande Bellezza in quanto città eterna, per la gloriosa storia umana che incarna". Beh, è giusto ma, a voler fare i precisini, credo abbia rovesciato i termini della proposizione: Roma assurge a città eterna in virtù della sua Grande Bellezza. Qui, tuttavia, l'eternità va intesa in un'accezione che l'attributo di "classico" restituisce con maggior efficacia: la Bellezza dimora in un altrove che è fuori dal tempo. Una statua di Fidia o di Michelangelo, la Gioconda, oppure la Divina Commedia o l'Amleto sono dei classici, capolavori fuori dal tempo del loro concepimento, non conoscono contemporanei perché si è sempre contemporanei di quei capolavori, e pur senza averli mai visti/letti fanno parte di noi ... come Roma, in cui tutti sono stati, pur senza muoversi da casa.

Altro luogo comune da sfatare, l'astrattezza. Il moderno positivismo impone valutazioni secondo utilità: per raggiungere l'orizzonte di Bellezza percorriamo itinerari che appunto ci consentono l'incontro con gli ideali sopra citati. Ma per comprendere meglio quanto essa sia esercizio di pratica quotidiana, basti pensare all'intreccio con l'etica - uno degli argomenti principe della filosofia - e, soprattutto, al primato che in tale endiadi detiene. Tutti noi siamo portati a credere che il nostro comportamento, le azioni e le decisioni che intraprendiamo, siano dettate dall'etica. In realtà ciò che sentiamo di dover fare sovente coincide con quel che ci piace fare. Anche laddove il nostro contegno sembra relazionarsi tipicamente ad un giudizio morale, è possibile verificare quanto invece l'etica sia influenzata dall'estetica. Pensiamo allo scontro di civiltà occorso in America, tra una società strutturata sulla proprietà individuale - dunque sull'avidità - e il cui Dio ha sempre in serbo per il Suo popolo una terra promessa (facendo dei palestinesi degli abusivi), e i Nativi che intendono la Natura come manifestazione del Grande Spirito, che da Essa attingono quanto gli è strettamente necessario (quanto fiato sprecato a spiegar loro come un pezzo della stessa possa essere ad esclusiva disposizione d'un singolo!). Dei Nativi si è fatta strage in quanto reputati selvaggi. Perché? Beh, oltraggiavano i morti praticando il cd. decalvamento (noi occidentali, durante la guerra franco-inglese, avevamo insegnato loro la pratica di prendere lo scalpo onde esser certi del numero di nemici uccisi da quelli che all'epoca erano alleati, per ricompensarli in proporzione a tale macabra numerazione). Una morale, quella dei visi pallidi, che non censurava tuttavia le stragi di donne e bambini, come nell'episodio di Sand Creek poeticamente tradotto da De Andrè. Da Cortes alle giacche blu, in un paio di secoli 80 milioni di selvaggi sono stati tradotti all'Inferno (nel Limbo, per essere precisi, per la paradossale circostanza di non aver avuto modo di battezzarli) per mano cattolica: poiché antiestetici, siamo ricorsi agli anestetici.

Ampia parentesi a parte, resta un interrogativo a cui forse poter dare risposta. Di certo la Bellezza è concetto arcano, non addomesticabile da pensieri e parole. Magari vi fosse qualcuno di cotanto capace, mi farei ad esempio spiegare come riuscisse Velazquez ad evocarLa ritraendo soggetti brutti, addirittura dei freaks. Abbandonata, causa impotenza, l'indagine sul "cos'è", possiamo provare col "perché" del tentativo dell'arte di evocare la Bellezza. Già, perché Michelangelo spende gran parte dell'esistenza a dipingere - in quella scomoda posizione - la Cappella Sistina? Nel suo monologo sanremese Crozza cita a tal proposito Goethe. Premesso che la domanda "qual è lo scopo dell'arte", posta a diversi esponenti della storia dell'arte occidentale, darebbe luogo alle risposte più disparate - compresa una disperante negazione - Goethe ha espresso un pensiero che dà un senso a tutta l'arte orientale, in particolare a quella giapponese (unico altro popolo immune alla sindrome prima descritta) così diversa dalla nostra (una pittura quasi esclusivamente paesaggistica, un teatro in cui il processo verbale è assente, il coinvolgimento delle più disparate attività umane nel concetto di arte: fabbricazione di spade, vasi, il gesto fisico ovvero l'arte di eseguire alla perfezione un solo gesto ecc.), che ad esempio ci fa comprendere perché mai la stessa mano omicida d'un samurai venisse educata a partorire bellissimi acquerelli o, ancora, le particolarità della loro religione, lo Shintoismo: chi non ha visto almeno una volta la Cappella Sistina, dice Goethe, non può comprendere di cosa sia capace il genio umano.

Ecco, noi uomini abbiamo bisogno di dimostrare a noi stessi ciò di cui siamo capaci: come e quando - inopportunamente ma, ahimè, è inevitabile - daremo sfogo alle nostre meschinità, l'arte sta lì a ricordarci che, solo volendo, siamo capaci di dar corso ad una realtà migliore. Il Nazismo pone fine alla Repubblica di Weimar, una sorta di Rinascimento tedesco durante il quale quella nazione diventa il faro politico e culturale dell'Europa: ecco, un Diavolo e un Dio si agitano nel nostro animo e ci sono avvenimenti, nella storia sociale o individuale, che c'inducono ad evocarli, a turno. E accade, in modo a volte repentino, di attraversare l'intero arco della forbice che misura la distanza tra il peggio ed il meglio che siamo capaci di esprimere ... unico dato in comune: l'impegno a tener viva la memoria di entrambe le possibilità, entrambe divine, di creare o distruggere.

P.S.: Tutti i critici hanno tracciato un confronto con "La dolce vita". Pur privo della loro autorevolezza, mi permetto di citare un'altra fonte di probabile ispirazione per Sorrentino. All'interno del film "RO.GO.PA.G." (1963) c'è l'episodio di PPP - a ridaje!, direte - "La ricotta", che narra delle riprese di un film sulla Passione di Cristo, con alcune pose chiaramente ispirate alle pale d'altare rinascimentali a cui fanno da contrasto altre scene di pausa della troupe: qui le comparse ballano al suono di una radio ad alto volume, quale simbolo della vacuità di valori dell'allora nascente società dei consumi, vacuità posta in evidenza appunto dal confronto con la sacralità e l'estetica delle scene del film che si sta girando. Nella parte del regista Orson Welles, che legge una poesia di PPP ... l'esatta rappresentazione di quello stato d'animo che Jep Gambardella avrebbe ben potuto esprimere nelle sue passeggiate mattutine sul Lungotevere:

"Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più"
PPP


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