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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 13/8/2013 ● Click 1683

Identità e appartenenza


Mario Vaccaro © FUORI PORTA WEB

E’ dalla lettura dell’amara constatazione contenuta nell’articolo “Mi (ri)conosco” del 4/6 che m’ero ripromesso di proporre una riflessione sul tema della comunità. L’assenza dei giovani, la vacanza delle fresche generazioni che scelgono di non “essere parte” della celebrazione del Santo Patrono – effige che testimonia la sacralità dei valori comuni fondanti, appunto, la “comunità” – sono un grave sintomo d’una “guglionesanità” che non gode di buona salute. So d’apparire monotematico, ma anche e soprattutto su tale fronte il deficit è culturale.

Riguardo a tale tema colgo l’occasione per precisare la portata d’una mia precedente osservazione – polemica solo in superficie e che solo gli allocchi avranno interpretato come inutilmente dissacrante - relativa al culto (n.b.: stessa radice di cultura) dei santi.
Per tale culto la Chiesa opera una deroga all’ortodossia, alla “regola” (la Bibbia vieterebbe altresì l’idolatria), pur di venire incontro alle esigenze della pratica della fede, che va “coltivata” – radice comune di cultura/culto. Essa acconsente al profano, alla ritualità pagana, riconoscendo le istanze provenienti dal basso relative ad un riconoscersi in usi consacrati in riti che provengono da un “prima” del cattolicesimo stesso: l’equivalenza di veri e propri istituti di democrazia diretta in materia religiosa.

Le risposte alle questioni “chi sei?” e “a quale gruppo appartieni?” vanno cercate nella cultura antropologica: una comunità è fatta da individui che esprimono una comunanza di usi, lingua, valori e religione. Tra questi 4 fattori l’ultimo è peculiare, è … per così dire … il più esigente: stabilire che si faccia parte d’un gruppo perché si fanno abitualmente certe cose, si parla lo stesso idioma e si crede a e si perseguono gli stessi obiettivi è conclusione prevedibile.
E’ la religione a richiedere un quid pluris, ovvero il sentirsi parte d’un medesimo sistema di rappresentazione della realtà trascendentale. E’ come se una comunità compisse collettivamente un atto di fede, espandendo le capacità identitarie al di là di quel che il contesto oggettivo consentirebbe: dunque una comunità sceglie di utilizzare la medesima bussola anche per orientarsi nel mondo dell’imponderabile.
D’altronde è la stessa etimologia a rivendicare un tale proposito: religare, ovvero legare, vincolare.
Ma al di là dell’etimo, dell’obiettivo perseguito dall’istituzione fondata da/su Pietro, la religione reca con sé un’insieme di usi, simbologie e ritualità fortemente radicate nel sistema sociale e culturale identitario degli individui: c’è un riconoscimento di fondamentali asset culturali, direbbe qualcuno avvezzo al moderno linguaggio; maccheronicamente, è questa cultura che viene dal basso ad esprimere di che pasta siamo fatti.

Piantato l’ultimo paletto, affrontiamo il nodo della questione.
Luigi in quell’articolo evidenziava un raffronto, che ci fa impallidire, con le celebrazioni di S.Basso e S.Leo, consapevole della componente che marca la distanza: l’importanza ivi attribuita all’ingrediente della ritualità pagana conferisce una marcia in più alla celebrazione, una “religiosità popolare” che diventa a pieno titolo fenomeno di antropologia culturale.
In esso il popolo si autoattribuisce il ruolo di attore protagonista: non è forse una recita collettiva quella che va a inscenarsi nel corso dei festeggiamenti (qui va sottolineato un raro limite della nostra lingua, che – con “recitare” - allude ad un citare un copione già scritto: con maggior proprietà di linguaggio, il francese “jouer avec” o l’inglese “to play with” – ma anche il russo e il tedesco - fanno riferimento al giocare come reinterpretazione, riadattamento continuo del testo originale, pur nell’osservanza d’un canovaccio d’antica elaborazione)?
Non a caso il teatro nasce da misteri (di Osiride in Egitto) e riti sacri (dionisiaci in Grecia, in cui ad un certo punto all’unica figura dell’officiante si aggiunse l’hypocrita, ossia l’attore, e con esso il dialogo).

Occorre qui da noi riappropriarsi di tali spazi, di un palcoscenico che attende d’essere calcato nuovamente dalla comunità – che da sempre lo ha frequentato, per secoli.
Tener presente da dove si viene per scoprire chi si è, a quale gruppo si appartiene, sarà perché assunto banale che spesso lo si dimentica.
Il far parte, appartenere o partecipare che dir si voglia – come cantava il saggio signor G – è esercizio di libertà, tale in quanto avviene in quello spazio a noi familiare, che ci consente di svolgere pienamente le nostre azioni poiché ci si sente come in casa propria.
Orbene, questo sentimento, il sentirsi-fieri-d’essere, non è roba su cui inciamperemo prima o poi dopo averlo smarrito; come ogni sentimento, si nutre dell’apporto di tutti gli interlocutori coinvolti nella sua trama, di tutti gli appartenenti al gruppo.
E’ colpa delle amministrazioni comunali, della Parrocchia, del popolo sornione o dell’inerzia dell’intera comunità se il collante di questa, l’appartenenza, non ha la stessa capacità adesiva d’un tempo? In questi casi tutto è mancato perché di tutto si aveva bisogno, chè tutti avremmo dovuto alzar la zampa per innaffiare il territorio da marcare.

I nostri avi, potessero esprimersi, quali rimproveri o richieste formulerebbero in merito? Uno sforzo per moltiplicare quei riti, quotidiani e periodici, che costituiscono il minimo comun denominatore del guglionesano, questo io son sicuro ci chiederebbero … accatastare quante più cose consentano di riconoscerci in rapporto alla nostra guglionesanità.
Da questo patrimonio comune mi piace attingere, quale esempio, “a camnet a Castllar” – intesa in un’accezione che va ben al di là del mero gesto fisico – che è una nostra comune risorsa, da impiegare dal livello infimo di esercizio meccanico a quello di esperienza intellettuale, fino ad accedere ad una sorta di quasi-abbandono alla cui soglia si può giungere nel corso d’una passeggiata solitaria … anzi meglio, in compagnia d’un raro stato d’animo indefinibile per eccezionalità.
A questa superiore esperienza … dalla più semplice fino a quella sorta di passeggiata mistica, il solo guglionesano può accedere: ecco, percorsi quei 375 metri (curiosamente è la stessa misura dell’altitudine) a me pare d’aver passato il bianchetto sulla dicitura “Termoli” che la mia CdI indica sotto i natali, tara documentata da cui la mia identità non convenzionale ha sempre preso le distanze e lamentato prurito.

Allargare il campo delle esperienze di vita civile che ci consentano di specchiarci l’un l’altro e di riconoscerci, coltivare l’uso del dialetto (rivendichiamo con fierezza il nostro “tuj tuj”, morto il quale l’egemonia del “pj pj” sarebbe totale!) … insomma, riassemblare anche ad uso dei posteri un patrimonio culturale fatto di beni comuni, certificati DOC o IGP.

PS: Probabilmente sarà un limite della mia capacità di comprensione, ma è per me un mistero come possa la stessa matrice intellettuale porre in antitesi la celebrazione di S. Nicola e le varie sagre paesane.
Il Palio e, ad esempio, le lasagne in brodo d’estate sono dalla mia mente catalogate “fuori contesto” (per le lasagne la discrasia è solo temporale) e, purtuttavia, come “meglio questo che niente”.
Nel Medioevo si speculava sulla credulità e si trafficavano false reliquie; la comunità che le acquistava, nel caso queste raggiungessero il prefissato scopo - ovvero attrarre pellegrini da ogni dove che portavano ricchezza - non credo stesse a sottilizzare sulla questione dell’autenticità. Il Palio non c’entra una mazza con le nostre tradizioni, ma se attira gente ben venga e complimenti a chi a tal fine ha profuso impegno; lamentarsi per il Palio mancato e stigmatizzare le sagre per evanescenza culturale (ribadisco una mia impressione: dopo essersi lagnati della componente qualunquistica dell’antipolitica, c’è qualche politico che non perde occasione per accodarsi alle denunce provenienti dal basso – come le sagre invise ai commercianti – cadendo nel meccanismo di cristiana denuncia della pagliuzza e della trave) al mio orecchio suona stonato.
La gastronomia è un veicolo culturale d’eccellenza (S.Martino-pasta con la mollica docet) – e l’Italia lo sa bene – e fare paragoni tra manifestazioni culturali non mi sembra opportuno: vogliamo che il blog faccia sondaggi tipo “ritenete abbia maggior peso culturale Manente o i maccarun cu ciapp?”.
Una sagra della ribollita non avrebbe contenuto culturale, perché riferibile agli stessi posti in cui è di tradizione il Palio. Come avviene per qualsivoglia argomento, occorrerebbe avere una certa credibilità per muovere denunce in tema di cultura, dunque dopo 20 anni di deserto sentir parlare oggi di pioggia da chi nuvola è sempre stata …


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