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Solitudini d'autoreGuglionesi
Pubblicato in data 29/6/2013 ● Click 1586

I saperi


Redazione FPW © FUORI PORTA WEB

Il pensiero comune è abbastanza incerto su che cosa sia l’urbanistica. Le opinioni sono oscillanti. Prevalgono due interpretazioni. L’urbanistica è quel mestiere (scienza? arte?) che si preoccupa di rendere belle le città: roba da architetti. L’urbanistica è quel mestiere composto da regole, procedure, adempimenti: roba da burocrati. Nel sapere dell’urbanistica (nei saperi dell’urbanistica) c’è l’uno e c’è l’altro, ma anche altre cose, di cui quelle sono un riflesso.

Come al solito la storia aiuta a comprendere (“utilità della storia” è la ragione del nostro convegno). L’urbanistica moderna nasce, nell’ambito della società liberale e dell’economia capitalistica, per affrontare un problema che il mercato – che la spontaneità dei comportamenti individuali – non riusciva ad affrontare, ma anzi aggravava man mano che quella società e quella economia si affermavano e progredivano.

Si può dire che l’urbanistica è il primo rivelatore dell’insufficienza del mercato. Se si fosse lasciato a quest’ultimo il compito di organizzare l’insediamento dell’uomo sul territorio si sarebbero aggravati a dismisura le situazioni di confusione, disordine, malfunzionamento in molti decisivi aspetti della vita delle famiglie e delle aziende che già contrassegnavano la città. Insalubrità, disagio, caos del traffico, rischi per le persone, oscillazioni imprevedibili nei valori della rendita fondiaria.

Non a caso il primo piano regolatore fu preteso – a New York, nel 1811 – sia dai cittadini disturbati dall’improvviso sorgere di fabbriche e dall’affollarsi di carriaggi tra le abitazioni, sia dai mercanti di terreni che vedevano alterarsi i prezzi per l’inopinato insediamento di officine meccaniche o manifatture di attrezzi per il Far West nella aree lottizzate per la residenza. Il comune provvide, con un piano regolatore che determina ancor oggi la forma e il funzionamento di Manhattan.

Il compito dell’urbanistica
Compito dell’urbanistica è quello di adoperarsi perché la società possa utilizzare il proprio habitat per l’insieme delle sue esigenze che hanno un rapporto con lo spazio e con il suo uso.

Abitare, lavorare, alimentarsi, muoversi, spostare, incontrarsi, apprendere, scambiare, divertirsi, curarsi, gestire i propri rifiuti sono alcune delle attività che hanno bisogno di una organizzazione dello spazio. Hanno bisogno che le cose (gli oggetti, le funzioni) necessarie per soddisfare quelle esigenze siano correttamente collocate sul territorio, abbiano tra loro le relazioni (fisiche e funzionali) necessarie per non danneggiarsi reciprocamente e per non renderne difficile l’uso. Anzi, per renderne l’uso e la percezione (la funzionalità e la bellezza) i migliori possibile.

Se questo è il compito del’urbanistica, se questa è la domanda sociale che storicamente la rende necessaria, è facile comprendere che essa è un sapere (un insieme di saperi) eminentemente pratico, che ha un rapporto di particolare attenzione e legame con due realtà: il territorio, e la società. E a me sembra che l’attuale crisi dell’urbanistica sia strettamente correlata alla crisi dell’ambiente e alla crisi della politica. E che l’attuale deriva culturale nel quale versa oggi l’urbanistica ufficiale sia una espressione della più generale deriva dei saperi e dei sapienti nella “società montante”, per usare l’espressione di Alberto Asor Rosa.

Il territorio
Il territorio è il campo nel quale si svolge, e al quale si riferisce, il lavoro dell’urbanistica.
Il territorio come contenitore neutrale di qualsiasi oggetto, il territorio come insieme di risorse di cui ci si può appropriare per trasformarle, il territorio come paesaggio da plasmare e riplasmare secondo il capriccio dell’operatore.

Oppure il territorio come insieme di risorse finite e come patrimonio (insieme di patrimoni) depositati dall’opera congiunta della natura e del lavoro e la cultura dell’uomo, come paesaggio – testimonianza anch’esso del lavorìo della natura e della storia, da custodire e mantenere e trasformare comprendendone e rispettandone le regole formative.

L’opzione del tecnico è aperta tra queste due interpretazioni del territorio, sebbene si possa dire che la migliore tradizione della cultura urbanistica propende nettamente per la seconda, e i suoi esponenti condividerebbero oggi l’affermazione di Piero Bevilacqua quando ricorda che “non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema”.

La società
La società, l’altro versante di attenzione dell’urbanistica è, per così dire, il committente del lavoro dell’urbanistica, poiché ne è il destinatario: è attraverso la mediazione dell’urbanista che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la sua impronta. Non credo di aver bisogno di dimostrare questo assunto. Vorrei solo aggiungere una breve considerazione sulla politica.

Poiché l’urbanistica è finalizzata a un’attività pratica, operativa, e poiché ha il compito di stabilire regole che consentano di raggiungere un risultato che è la somma di interventi di una molteplicità di operatori, il legame tra urbanistica e società è costituita dal governo, cioè dalla politica.

Leonardo Benevolo arriva a dire che “l’urbanistica è parte della politica”. A mio parere il nesso è più complesso, ma comunque il legame tra i due aspetti è indubbio. La complessità di quel rapporto si comprende quando si riflette alla politica come è oggi.

Oggi (ma riprenderò il tema più avanti) la politica intesa come politica dei partiti non esprime compiutamente la società. Essa infatti non esprime le posizioni che manifestano dissenso e alternativa nei confronti della dell’ideologia e della politica dominanti. E allora nasce nell’urbanista che voglia rimanere fedele alla tradizione del suo mestiere la necessità di collegarsi direttamente alla società.

La pianificazione
Vorrei occuparmi adesso dello strumento che l’urbanistica adopera per determinare azioni sul territorio conformi alle esigenze della società. Parlo di strumento indipendentemente dalla sua tecnicità, ma con riferimento alla sua logica, al metodo che ne giustifica l’invenzione e ne dirige l’impiego.

Lo strumento dell’urbanistica è la pianificazione. Si parla di “pianificazione urbanistica” con riferimento alla fase nella quale l’habitat dell’uomo era ristretto sostanzialmente alla città; sarebbe forse più corretto parlare oggi di “pianificazione territoriale” oppure, con maggior precisione ma anche maggiore complessità, “pianificazione della città e del territorio”.

La pianificazione di cui parlo non ha a che fare con la “pianificazione economica”, tanto meno con la piatiletka sperimentata nel Secondo mondo – nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e nei paesi satelliti – nel tentativo di uscire dall’economia capitalistica. Essa ha comunque sull’economia ricadute possibili, e per qualche aspetto rilevanti.

Mi riferisco in particolare alla questione della rendita fondiaria ed edilizia (rendita immobiliare), ricordando a questo proposito pochissime cose:
(1) che essa è stata definita dal pensiero liberale la componente parassitaria del reddito;
(2) che alla rendita non corrisponde alcun lavoro e alcuna attività imprenditiva, ma unicamente la proprietà di un bene scarso e utile;
(3) che la quantità di risorse che va alla rendita viene sottratta alle altre due componenti del reddito, il salario e il profitto d’impresa;
(4) che la rendita immobiliare urbana è determinata dalle decisioni e dalle opere della collettività, ma essa è percepita dal proprietario;
(5) infine, che in Italia la rendita ha un pesa molto maggiore che negli altri stati europei, e ciò soprattutto a causa dell’alleanza di classe che la borghesia liberale del Nord stipulò con la classe dei proprietari terrieri, soprattutto quelli del Mezzogiorno e del Centro.

Il piano urbanistico incide sulla rendita, nel senso di accrescerla più o meno. A seconda degli strumenti offerti dalle legislazioni e delle politiche urbane il piano può inoltre essere lo strumento mediante il quale la rendita viene ridotta, oppure trasferita dal privato al pubblico. Il rapporto tra pianificazione e rendita esprime solo la più classica delle modalità mediante le quali la pianificazione può incidere sull’economia: ve ne sono numerose altre cui non abbiamo qui il tempo di fare riferimento.

Due interpretazioni
Precisato che cosa la pianificazione non è, occorre ricordare che cosa invece essa è. Partirò dalle definizioni di due persone che esprimono altri saperi: l’archeologo Antonio Cederna e l’economista Giorgio Ruffolo.

Per Cederna: “La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese”.

Per Giorgio Ruffolo la pianificazione territoriale: “E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico”.

Cederna sottolinea il carattere etico e politico della pianificazione, Ruffolo quello estetico. Vorrei aggiungere una definizione mia, certamente più “tecnica” delle due che ho letto, quindi probabilmente più arida.

Una definizione
Per conto mio intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire – in funzione di determinati obiettivi – coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

Naturalmente questa definizione va interpretata nel contesto delle premesse che ho posto al mio ragionamento, a proposito del territorio e a proposito della società.

É chiaro che gli effetti della pianificazione (la trasformazioni prescritte o previste) sono ben diverse a seconda che per territorio si intenda l’una o l’altra delle due ipotesi che ho formulato quella del territorio come contenitore neutro e quella del territorio come patrimonio.

A questo proposito occorre dire che, per il modo in cui in Italia l’urbanistica si è formata, si è partiti dall’urbano, dalla regolamentazione dell’edificazione e dalla sua espansione, quindi partecipando alla prima delle due concezioni. Fino alla legge Galasso del 1985 (tanto per fissare un punto di riferimento) la pianificazione corrente ha largamente trascurato il “non urbanizzato”, la naturalità, l’ambiente, il paesaggio. Grandeggiano perciò le figure dei nostri maestri (come Giovanni Astengo, Luigi Piccinato, Edoardo Detti) che hanno saputo fin dagli anni 60 del secolo scorso, fare della pianificazione uno strumento per la tutela della natura e della storia, dell’ambiente e del paesaggio.

La formazione del cittadino
Riprendendo il tema del rapporto tra urbanistica e società entrerò direttamente (e finalmente!) nel tema del mio intervento: l’urbanistica per la formazione del cittadino. La ragione per cui il cittadino è (dovrebbe essere) vitalmente interessato all’urbanistica è facilmente comprensibile. É attraverso l’urbanistica che il suo habitat viene organizzato, trasformato, gestito.

Solo se comprende il modo in cui queste operazioni vengono effettuate egli si pone nelle condizioni di poter concorrere alla formazione del proprio futuro (almeno, di quella parte del suo futuro che dipende dal suo habitat). Solo se comprende e conosce egli può partecipare alle scelte in cui la pianificazione urbanistica consiste.

Ma il cittadino oggi non è preparato a comprendere la città e le regole della sua trasformazione, perché nulla dell’urbanistica c’è nel suo processo di formazione, quindi nel suo bagaglio culturale. Eppure la conoscenza dell’habitat dell’uomo potrebbe essere uno strumento didattico formidabile per condurre la persona (a cominciare dal bambino e dall’adolescente) a comprendere, a partire dalla sua esistenza e dalle sue esigenze di individuo, le ragioni, le necessità e le opportunità della vita sociale.

Avviano un percorso di conoscenza che vorrei definire “urbanistico” quegli insegnanti delle elementari che cominciano a far descrivere, o a riconoscere su una mappa o un fotopiano, il percorso che il bambino compie dalla sua abitazione alla scuola, o al luogo dove gioca o dove incontra gli amici, e al luogo dove accompagna il genitore a comprare o a curarsi, e così via. Non credo che siano molti quelli che adoperano simili strumenti di lavoro, e ancora meno quelli che lo preseguono fino agli aspetti più riccjhi e completi della vita sociale urbana.

I canali della partecipazione
Forse tentano, tardivamente, un simile percorso conoscitivo quegli adulti che si organizzano per protestare contro scelte urbanistiche sbagliate che incidono sulla loro vita e quella dei loro vicini, e quindi avviano una protesta e promuovono un conflitto per partecipare alle decisioni sul territorio.

Ma dobbiamo domandarci allora – passando dal cittadino all’istituzione – quali spazi la pianificazione urbanistica offra alla partecipazione. Nell’urbanistica italiana rivisitata dopo la Liberazione erano previsti due canali.

Il primo era quello diretto, pensato soprattutto per il cittadino direttamente interessato: è l’istituto dela “osservazione”, un documento con il quale il cittadino può esprimere la sua critica e la sua proposta di correzione al piano prima che questo sia definitivamente approvato. Il secondo canale è rappresentato dal percorso cittadino>partito>elezione>comune (più generalmente, istituto della Repubblica).

Oggi il primo canale è considerato del tutto insufficiente a garantire una partecipazione significativa della cittadinanza alle scelte. Il secondo canale è reso difficilmente praticabile a causa di tre circostanze:
1) perché i partiti hanno perso credibilità, e quindi non sono più considerati espressione adeguata dei gruppi sociali;
2) perché all’interno dell’ordinamento delle istituzioni si sono affermati l’esautoramento degli organi collegiali, quindi pluralistici e una governante nella quale l’istituto è rappresentato solo dal suo vertice e gli altri interessi coinvolti sono quelli legati alle rendite;
3) perché la cultura dei partiti ha largamente abbandonato l’attenzione al territorio, e in prevalenza lo considera come un mero strumento per lo “sviluppo economico” (uno sviluppo economico dal quale è scomparsa la critica alla rendita e non è entrata la consapevolezza dei limiti del pianeta).

Il paradosso italiano
Che il ceto politico italiano abbia completamente trascurato le questioni della città e del territorio mi sembra un fatto assolutamente paradossale. In un mondo dominato, piaccia o non piaccia, dalla concorrenza, l’Italia ha un immenso patrimonio da mettere in gioco.

Pensiamo alle sue città e ai suoi paesi, ai centri storici e ai quartieri antichi e ai borghi disseminati nelle campagne, pensiamo alla loro bellezza, alla ricchezza dei beni che conservano ed esprimono, all’eccezionale insegnamento che offrono. E pensiamo ai paesaggi, alla loro varietà e alla loro bellezza, alle testimonianze dell’incontro tra natura e storia che in ogni luogo rivelano.

Nonostante le immani distruzioni che stiamo compiendo da mezzo secolo a questa parte mi sembra che ci sia ancora una ricchezza immensa, unica al mondo.

Che io sappia, negli ultimi decenni un suolo uomo di governo è riuscito a comprendere che questa ricchezza doveva essere tutelata per oggi e per domani e ad agire coerentemente ed efficacemente per farlo, raggiungendo risultati significativi. Finché le espressioni della politica miope e di quella rapace non lo hanno sconfitto. Mi riferisco a Renato Soru, già presidente della Regione Sardegna.

Il canale del conflitto
Oltre l’istituto delle “osservazioni”, oltre la politica dei partiti si è aperto un nuovo canale tra i cittadini e il governo del territorio: quello del conflitto. Di un conflitto diffuso sul territorio, generato da gruppi, comitati, movimenti che spesso partono da sollecitazioni anguste (espresse dall’acronimo Nimby), ma promuovono azioni che tendono ad allargarsi, a connettersi con altri gruppi e movimenti, a passare dalla critica degli effetti alla consapevolezza delle cause.

Sono centinaia e forse migliaia le iniziative che partono dalla difesa di uno spazio pubblico, o dall’opposizione a un intervento inquinante, o dalla protesta per un processo di espulsione dalle case e dai quartieri, o dallo scempio di un paesaggio amato.

Gli esempi più significativi e rilevanti mi sembrano quello della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio, il cui promotore e portavoce è Alberto Asor Rosa, e il movimento Stop al consumo di territorio, che è partito dalle valli dell’Astigiano e del Cuneese e si è sviluppato in molte regioni.

Ma io collegherei questi movimenti a quelli che esprimono altre tensioni e altre sofferenze, che protestano per altri soprusi che minacciano beni e diritti pubblici: come l’Onda che si è sollevata nella scuola contro la privatizzazione, come il movimento contro la privatizzazione dell’acqua, e come i movimenti per i diritti del lavoro, e per quelli delle minoranze e delle maggioranze misconosciute, come le donne.

Forse è da qui che riparte la politica. Se politica non è solo quelle che si esprime con i partiti, ma è una dimensione della vita dell’uomo sociale. Una dimensione che nasce dalla percezione di un limite, di un’ingiustizia, di un torto subito o minacciato; che si sviluppa nella constatazione che quel limite, ingiustizia, torto colpisce anche altri; che si espande nella ricerca delle cause, delle connessioni con altre situazioni simili, che si interroga sui rimedi possibili.

Ecco che piano piano può trasformarsi – attraverso il dibattito pubblico, il confronto, il conflitto – in partecipazione dialettica al governo della cosa pubblica: in politica nel senso più ampio e più compiuto del termine.

Sottolinea come questo sia un problema (e una speranza) per oggi l’insigne costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. In una recente occasione ha affermato che oggi “la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino ‘visioni del mondo’, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica”. E ha proseguito ricordando le “tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre”, ed dichiarando, con l’autorità che gli viene dal ruolo che ha esercitato, che “la formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro”, è per “le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale” e che“la sua difesa è nell’interesse comune”.

Ricostituire l’unità del campo
Ho sostenuto, all’inizio di questo intervento, che l’urbanistica è un mestiere finalizzata all’agire su una realtà complessa. La complessità del campo in cui agisce l’urbanistica impone la collaborazione con altri saperi, nei campi sia delle scienze positive che di quelle umanistiche. Perciò, oggi, contribuisce pesantemente alla crisi dell’urbanistica la segregazione dei saperi ciascuno nel proprio campo e nel proprio settore.Perciò anche il nostro mestiere patisce la “subordinazione agli imperativi della competizione economica, che emargina le culture umanistiche, esalta i saperi strumentali, che divide la scienza in discipline sempre più separate e in comunicanti”, e produce “una conoscenza sempre meno capace di cogliere quella verità che soggiace alle minacce che ci sovrastano: la complessa indivisibilità del vivente”.

Occorre essere consapevoli che la segregazione dei saperi è funzionale all’ideologia dominante. Se non ci vergogniamo di adoperare parole quali quelle che sto adoperando, oggi l’intellettuale può ritrovare un proprio ruolo non servile se pone il suo sapere al servizio della contro-ideologia, là dove questa si manifesta. Deve essere capace di indicare le alternative possibili fuori da quelle fornite dal pensiero dominante. Con un’altra consapevolezza ancora: quella che nessuno dei saperi nei quali si è articolato e suddiviso e frammentato il campo della conoscenza è di per sé sufficiente di comprendere e di indicare.

Lemontey scriveva: “Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce”.

Nessun sapiente potrà, da solo, eguagliare oggi quelli che, sul finire del XVIII secolo, colpivano d’ammirazione Lemontey. Possiamo aiutarci a comprendere e ad agire solo se abbattiamo i recinti tra i saperi e lavoriamo insieme.

Edoardo Salzano | Relazione al convegno “A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità”, Università Roma La Sapienza, 24-25 novembre 2009


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