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Solitudini d'autoreGuglionesi
Pubblicato in data 25/5/2013 ● Click 1615

Il gattopardo


Redazione FPW © FUORI PORTA WEB

In Italia, sul piano sociale, abbiamo un problema fondamentale e ben preciso: la scarsissima mobilità sociale, tra le più basse dei paesi del “primo mondo”, che fa sì che possa accedere a certi ruoli sociali e professionali perlopiù solo chi appartenga a una famiglia che già vi accede. Fa l’avvocato chi ha il padre o lo zio avvocato, il professore universitario chi ha la madre professoressa d’università, mentre chi appartiene a una famiglia di operai fa l’operaio e chi ha i genitori alle poste il postino.

Non si tratta di un grossolano luogo comune: “Fra il 2000 e il 2008, meno di una famiglia ricca su 100 è diventata povera. E solo una famiglia povera su 50 è diventata ricca. Oltre l’80 per cento dei poveri è rimasto povero o quasi. E quasi il 90 per cento dei ricchi è rimasto, più o meno confortevolmente, ricco” (La Repubblica, 3 marzo 2010). Ciò riguarda anche la politica, vuoi perché oltre il 70% dei parlamentari appartiene al ceto dei liberi professionisti ordinistici (medici, avvocati, professori), vuoi perché – guarda caso – per accedere agli alti livelli della politica pare essere spesso necessario avere in famiglia chi lo ha già fatto. Due esempi per tutti, presi dalla parte che pretenderebbe di lottare contro le diseguaglianze: il padre di D’Alema era nel comitato centrale del PCI, quello di Veltroni (giornalista specializzato in cinema e che ha diretto l’Unità) era direttore dell’Unità (e la figlia fa la regista cinematografica).

Basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanto sia macroscopico il problema, basato sul fenomeno del “familismo amorale” (Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata, 1958, non a caso tradotto nel nostro paese solo diciotto anni più tardi) e particolarmente diffuso in Italia per il perverso modo in cui, anche grazie al Vaticano, vi si sperimenta la famiglia. Un problema che, non c’è certo bisogno di spiegarlo, è alla radice delle ineguaglianze nelle opportunità, ma che – forse questo è il caso di sottolinearlo – contribuisce in modo determinante anche ad azzerare l’importanza del merito e ad assegnare i posti di responsabilità nella società per eredità, talvolta largamente a prescindere dalle competenze e dalle qualità degli assegnatari.

Da qui, e non dal rinnovamento astratto della classe politica, dalla riduzione dei suoi costi, dall’aumento della rappresentanza femminile o immigrata, o da altre questioni affini sarebbe necessario partire per dare a questo paese un volto nuovo. Da qui, non già perché le altre cose non siano importanti – lo sono, e molto – ma perché sono conseguenze di questo vizio d’origine, prima e fondamentale corruzione del nostro paese, da cui nascono i privilegi e le “caste”.

Teniamolo ben a mente, quando (e se) cercheremo di dar vita a qualcosa di diverso nella società e nella politica italiane. E teniamolo a mente anche guardando al governo che s’è appena insediato, diretto da un signore – Enrico Letta – catapultato nella politica fin da giovanissimo, arrivato a fare il ministro a tretadue anni (il più giovane della storia della Repubblica, credo), designato Presidente del Consiglio dopo essere stato vice segretario di una segreteria deficitaria e dimissionaria e che, per curiosa coincidenza, ha uno zio – Gianni Letta – braccio destro del capo dell’altra fazione politica, con il quale negli ultimi quindici anni si è scambiato il testimone all’interno dei vari governi (uno usciva e l’altro entrava, talvolta proprio nel medesimo incarico).

Di fronte a tutto questo, le parole di Don Fabrizio principe di Salina paiono perfino poca cosa e la nostra Italia del terzo millennio pare ferma ancora alla Sicilia dell’Ottocento.

FILOSOPOLIS, Fare filosofia per tornare a fare politica | Il gattopardismo del familismo amorale


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